Febbraio 1999.
Ogni realtà è ormai precaria.
Nel pianto convulso di Denisa, che non si
vuole far vestire, immagino di poterla portare a
spasso per il mare tra paradisi ormai non più
sconosciuti, palme e pirati; ma ditemi dov’è un
lembo di terra che non sia stato già visto, che non
sia stato già profanato?
In inverno, quando torno a casa, a Denisa
piace raccogliere le conchiglie a riva, ma dobbiamo
fare attenzione, tra frammenti di bottiglie, resti
di assorbenti e ferri arrugginiti, a dove mettere le
mani. Ma come si fa a gettare un assorbente nello
scarico del water senza pensare che va a finire nel
mare?
E il mare ci rigetta tutto quello che non gli serve.
Vorrei mostrarle una terra dove i bambini hanno la
pelle scura e i ricci capelli biondi, dove non
esistono ancora i centri commerciali e i
Teletubbies, dove mare non significa un metro
quadrato di sabbia sporco di cicche e di stecche di
ghiacciolo, dove i granchietti sono sulla battigia e
non solo sui libri illustrati. Qualche anno fa a
casa mia se ne prendevano in quantità nei secchielli
per poi ributtarli a mare dopo un’ora e adesso non
si vedono più, neanche nascosti tra le falde degli
scogli e il mare non odora più, non sa più di
niente, rimane solo l’alone del sale addosso, il suo
sapore sulle labbra appena bagnate.
Al mare è rimasto solo il sale da darci e qualche
rottame d’aereo incagliato negli abissi, non più
anfore, non più tesori, solo ferraglie. Adesso
andare nel profondo, adesso sprofondare nella vita
per capire per vivere al di là del banale
quotidiano.
Rigirarsi, ruotare nell’acqua e sentire la
leggerezza, l’instabilità del proprio corpo mentre
si butta fuori aria per non permettere all’acqua di
entrare dentro di noi. Alcuni si auspicano di morire
in mare, altri ne hanno ribrezzo, a qualcuno
succede. Per chi non sa aspettare il mare è la
miglior fine.
Si è sempre detto di colui che muore in mare che è
un eroe, un eroe a cui puzzano le mani di sardine
fresche, oppure colpito da una scheggia di corallo,
o disarcionato dall’onda che cavalca.
Chi cammina, chi corre a piedi nudi ha un’anima da
zingaro, non ha bisogno di arredare una stanza, non
ha bisogno di un tavolo per mangiare, forse non ha
bisogno di un compagno; mi sono augurata che
Denisa non fosse così, che non facesse parte dei
dannati, dei maledetti, dei lupi. Invece anche lei
ha il sole nella terza casa e anche lei ha qualcosa
da dire e vuole essere ascoltata.
Quando il sole non splende e il vento non lascia
tregua ho l’impressione di abitare nella terra del
ghiaccio, dove il vento mi getta in faccia risate di
gente che si affanna a soddisfare i propri bisogni,
allora mi sento in trappola.
Nella vita è necessario adattarsi per sopravvivere,
ma si può arrivare a mangiare gli avanzi di un
pasto? I bambini non sono obbligati ad ingoiare
tutto, gli adulti sì. Se Denisa non vuole
qualcosa da mangiare lo sputa senza ritegno, senza
educazione, e a nulla serve rimproverarla. Sputa nei
bicchieri, nei piatti, a casa, al ristorante, sotto
gli sguardi disgustati di certi che hanno imparato
ad ingoiare loro malgrado, ma che hanno dimenticato.
Anch’io ho dovuto imparare ad ingoiare, nonostante
non abbia dimenticato.
Quando la neve si confonde con la pioggia nei lunghi
viaggi sola con Denisa si sente il rumore dei
pneumatici sull’asfalto bagnato; quelle ruote che
scivolano sulla strada sono una tentazione ad
accelerare, come se spingere il piede sul pedale ti
aiutasse a superare le barriere temporali per
azzerare tutto di nuovo, invece sei sempre lì su
quel maledetto Reichsbrücke che percorri
tutti i giorni, il ponte che attraversa il Danubio,
dove sfrecciare non è possibile, dove tutte le auto
passano in parata silenziose sotto all’imponente
UNO-City.
Nella città del futuro la neve si è ormai sciolta e
ha pulito il freddo acciaio delle facciate
postmoderne e la città, sotto il cielo plumbeo che
si specchia nel fiume, abbacina gli occhi come se
fosse una cattedrale di cristallo in un deserto
d’acciaio.
Agosto 2006
Le hostess si rivolgono a noi in slovacco,
penseranno sicuramente che torniamo a casa per far
visita alla famiglia, mentre il marito italiano
resta a Roma a lavorare, come tutte le atre
slovacche con figli che si trovano a bordo.
La donna slovacca dopo il comunismo conosce a mala
pena il concetto d’indipendenza.
Ivan
aspetta dietro il vetro che separa gli arrivi
dall’esterno dell’aeroporto e guarda sua figlia come
se fosse un’innamorata da cui è stato separato a
lungo. Cerchiamo di comunicare attraverso il vetro;
cerco di spiegarli con la faccia divertita che manca
una valigia, temo la sua solita reazione di stizza,
gli urli isterici e le accuse, invece mi guarda, mi
fa un mezzo sorriso, come a dirmi che ci vuole
pazienza.
Sento un’improvvisa gratitudine per la donna che è
riuscita ad insegnare a Ivan a essere
paziente. Gli consegno la figlia e chiedo di
aspettare in macchina fino a che non avrò terminato
le procedure per il reclamo del bagaglio smarrito.
Un tempo mi avrebbe impedito di prendere una
qualsiasi iniziativa nel suo paese, adesso questo
sembra non essere più il suo paese, lo sento a
stento parlare slovacco e mi chiedo come si possa
dimenticare la propria patria quando si vive
all’estero, ma a soli sessanta chilometri da casa.
Padre e figlia si allontanano e sembrano avere molto
da dirsi.
La strada da Bratislava a Vienna è sempre uguale,
monotona, con il suo paesaggio piatto. Tra poco con
la nuova l’autostrada la distanza tra le due
capitali sarà come da Monte Mario a San Pietro.
Prima di portarci a casa Ivan ci invita al
Prater, in ricordo dei vecchi tempi, quando
abitavamo là, a due passi dal centro, nel quartiere
degli artisti, degli stranieri e delle prostitute.
Il Prater Park conserva sempre il suo
fascino; d’inverno, quando nel silenzio dell’Allee
deserta odi solo i tuoi passi nella neve; in
autunno, quando al posto della neve trovi un tappeto
fatto di foglie secche che crepitano al tuo
passaggio come un fuoco allegro di campagna; in
primavera, quando sembra un quadro impressionista ed
è assaltato da orde di bambini ancora intorpiditi
dal rigore dei mesi freddi; in estate, come ora,
quando i caffè di sera pullulano di avventori e
nell’Allee sfrecciano bici, skate e
pattini.
Dopo due giorni di assoluto silenzio e solitudine,
che fa bene all’anima in un’era in cui portiamo il
cellulare fino nella tomba, decido di tornare
qualche giorno a Bratislava da Adina e
Aleks.
Malý Aleks
non vedeva l’ora; con il mio slovacco stentato,
nonostante tutti questi anni, devo sembrargli alla
pari dei suoi compagni più piccoli d’asilo, quelli
che è semplice comandare perché non riescono a farsi
rispettare con le parole, quelli che sono ormai in
grado di comprendere ma parlano con frasi semplici e
fanno ancora troppi errori.
Aleks
sfrutta la sua superiorità linguistica per condurre
il gioco sempre; un domani, per quando sarà un
adolescente, dovrò aver migliorato le mie competenze
linguistiche o dovrò sperare in un secondo figlio di
Adina con la stessa pazienza del primogenito.
Nella notte dalla terrazza dell’appartamento sulla
palisáda il hrad si staglia sopra la
città.
Adina
e Robo sembrano aver trovato un loro
equilibrio; sarà generico e genetico che un uomo in
qualsiasi parte del mondo sotto i cinquanta anni
considera, a sua volta, i propri figli sotto i sei e
sopra i dodici anni come marziani da cui guardarsi.
In quest’ottica anche la proposta di Ivan di
fare un secondo figlio fuori dal matrimonio è da
considerarsi una mera operazione di eugenetica, come
sotto il nazionalsocialismo dei tempi peggiori.
Chissà se sarei tanto incosciente da tirare su un
altro figlio da sola; sono cose che capitano a venti
anni, difficilmente si scelgono a trenta.
Ancora per la strada Ivan e io, questa volta
da soli.
Parlo dei miei progetti di andare in Siberia l’anno
prossimo e sento la sofferenza della sua voce, quel
tendere la mano verso il mio mondo e non riuscire
mai a raggiungerlo, a capirlo. E la rabbia di non
riuscire, l’impeto di distruggerlo come un bambino
dispettoso. Inizio a parlargli di politica, come
sempre. Gli parlo della ferita aperta nel petto dei
veterani americani di ieri e di adesso. Vorrebbe
sentirmi parlare di me, vorrebbe forse che lo
insultassi per la sua codardia, per le sue
insicurezze di sempre, mi parla di Creta, di
un’anonima spiaggia; io non l’ho neanche ascoltato,
ho capito Cipro e inizio a parlargli della difficile
situazione con la Turchia.
Ho imparato a trattare Ivan come uno di
quelli sconosciuti dell’Est che mi capita di
incontrare in occasione dei convegni all’università
e con cui sono diventata brava a tenere delle
brillanti conversazioni di politica internazionale.
Avverto dai suoi silenzi che vorrebbe sentirsi
parlare di me, con la testa sono altrove,
invischiata in un qualcosa che non saprei neanche
definire.