arte
TRA
SCRITTURA E ARCHITETTURA
IL
DANTEUM
DI GIUSEPPE TERRAGNI E PIETRO LINGERI
di Mariangela Riggio
Era il 1938, quando a Roma, l’avvocato
Rino Valdameri, direttore della Reale
Accademia di Brera e presidente della
Società Dantesca Italiana, propose al
Governo italiano la realizzazione di un
centro studi e museo dedicato al Sommo
Poeta. Erano gli anni dell’Italia in
preda al fascismo, Mussolini era
riuscito nell’intento di creare il suo
“impero” (nel 1936 era stato proclamato
l’Impero di Vittorio Emanuele III al
termine delle campagne militari in
Etiopia). Il duce aveva raggiunto il
consenso di molti, ma partiti politici e
sindacati erano stati messi al bando; la
sua autorità era ormai indiscussa. Egli
non perdeva occasione per manifestare a
tutti la sua smania di grandezza,
l’esaltazione della Patria e della sua
storia, la tendenza imperialista.
L’idea di Rino Valdameri fu subito ben
accolta, Dante è il più illustre poeta
italiano e il duce si rivedeva nel
“veltro” profetizzato nella Divina
Commedia quale restauratore dell’ordine.
L’architettura italiana, in quegli anni,
osservava e assorbiva pian piano il
nuovo fervore del panorama
internazionale. In Europa si affermavano
l’International Style e il
Funzionalismo riassumibili nei più
celebri motti di Mies Van der Rohe, «less
is more», di Adolf Loos, «ornamento
è delitto», di Le Corbusier, la casa
è «macchina da abitare».
Per i giovani architetti italiani le
imprese architettoniche e urbanistiche
promosse dal governo Mussolini erano
imperdibili occasioni per esprimere il
loro nuovo modo di progettare. Tra
questi giovani entusiasti troviamo
Giuseppe Terragni, il quale, lo stesso
anno della sua laurea (1926), aveva
fondato il Gruppo 7 (con L.
Figini, G. Frette, S. Larco, A Libera,
G. Pollini, C.E. Rava) il cui manifesto
si leggeva su “Rassegna Italiana”:
«La
nuova architettura, la vera
architettura, deve risultare da una
stretta aderenza alla logica e alla
razionalità. L’architettura al punto in
cui siamo, non può essere individuale, e
nello sforzo coordinato di salvarla, per
ricondurla alla logica più rigida, alla
diretta derivazione delle esigenze del
nostro tempo, occorre oggi sacrificare
la propria personalità. La nuova
generazione proclama una rivoluzione
architettonica ma una rivoluzione che
vuole organizzare e costruire. Un
desiderio di sincerità, di ordine, di
logica, una grande lucidità soprattutto,
ecco i reali caratteri dello spirito
nuovo».
L’architettura razionalista italiana fa
la sua affermazione nel 1928 con la
prima Esposizione di Architettura
razionale; tra i partecipanti vi era
proprio il Gruppo 7, Giuseppe
Terragni presentò in quella occasione il
progetto per una Fonderia di Tubi. Nel
1930 si istituì il Movimento Italiano
Architettura Razionale (MIAR).
In questo contesto politico e
architettonico, il Danteum venne
commissionato proprio a Giuseppe
Terragni e a Pietro Lingeri. L’edificio
doveva essere inaugurato nel 1942, in
occasione del ventennale fascista e
doveva sorgere a Roma su via dell’Impero
(oggi via dei Fori Imperiali).
Il progetto, però, non venne mai
realizzato. Nel 1940 Giuseppe Terragni
venne chiamato alle armi, dal fronte
seguiva i suoi lavori inviando
costantemente lettere ai suoi
collaboratori. Nel frattempo Pietro
Lingeri continuò a lavorare al progetto
e a discutere con i committenti. Ma
l’entrata in guerra dell’Italia (il 10
giugno 1940) trascinata nel secondo
conflitto mondiale dal Patto d’Acciaio
stipulato l’anno precedente con la
Germania, interruppe tutto. L’ultima
udienza richiesta al duce non venne mai
concessa, così il Danteum rimase
un sogno sulla carta; ne rimangono gli
acquerelli che raffigurano le sale
principali, piante e sezioni di un
progetto di massima, un modello ligneo
in scala.
Le tavole originali del progetto, sono
oggetto di una mostra intitolata “Città
di Dio. Città degli Uomini. Architetture
dantesche e utopie urbane”, presso la
Galleria Nazionale delle Marche dal 26
novembre 2021 al 27 marzo 2022.
Oggi, grazie agli espedienti di computer
grafica per la rappresentazione digitale
dell’architettura, è possibile
ricostruire virtualmente l’edificio e
immaginare di visitarlo, come faremo nel
prosieguo di questa lettura.
Cosa sarebbe stato il Danteum? Un
monumento celebrativo, il “Tempio al
Massimo Poeta degli Italiani” come era
definito nello stesso Statuto. Avrebbe
rievocato il percorso dantesco
attraverso le sue sale, dalla selva
oscura al Paradiso, avrebbe plasmato le
cantiche e la metrica della Divina
Commedia in volumi, spazi, pareti,
attraverso rigide ripartizioni
geometriche. Il visitatore avrebbe
compiuto un percorso circolare che
possiamo così figurarci con la mente…
Immaginate di essere su via dei Fori
imperiali, pressoché all’altezza della
Basilica di Massenzio, innanzi a voi,
maestoso è il Colosseo. Alla vostra
sinistra, su Largo Ricci, lì
all’incrocio con via Cavour, vi è un
edificio dal volume compatto. Sulle
pareti, dei bassorilievi ricordano
talune allegorie riferite all’Impero che
ritroviamo narrate nelle terzine
dantesche. I bassorilievi sono
realizzati sui disegni di Mario Sironi.
Una parete «intessuta di blocchi
marmorei», 100, ciascuno con «misure
proporzionali al numero delle terzine di
ciascun canto», nasconde una rampa.
L’ingresso è stretto, percorrendo la
rampa, il Colosseo vi rimane sempre
innanzi fino a quando non svoltate a
sinistra, qui lo stretto passaggio vi
accompagna fino a un’ampia corte.
È perso ogni contatto visivo con il
contesto esterno, avete la sensazione di
trovarvi in uno spazio immenso, quasi
sprecato, così come inutile era ormai la
vita di Dante condotta nel peccato
quando, «nel mezzo del cammin di
nostra vita» si ritrovò «per una
selva oscura ché la diritta via era
smarrita».
Nella Relazione sul Danteum gli
stessi progettisti illustrano i
significati simbolici che vanno letti
all’interno del monumento. Relativamente
alla corte si legge: «spazio
“volutamente” sprecato” [che può
richiamare] alla vita di Dante fino
al trentacinquesimo anno di età
trascorsa in errore e in peccato e
quindi “perduta” per il bilancio morale
e filosofico dell’esistenza del Poeta».
Dunque, in questa ampia corte, sulla
parete di fronte a voi, un curioso
telaio metallico sorregge alcune
immagini, sono raffigurate le metope del
Tempio di Selinunte, una Kore: frammenti
di un tempio reinterpretato in chiave
moderna. Dietro al telaio vi è il buio
di una selva di 100 colonne, ciascuna di
esse regge una porzione di soffitto
lasciando trapelare pochi raggi di sole.
Non perdetevi tra la “selva oscura”,
seguite la luce… ecco una scala in
fondo. Da qui comincia la salita, al
termine delle 3 rampe, una porta,
l’unica in tutto l’edificio: è la porta
dell’Inferno.
Siete a quota 2,70 metri (27 è multiplo
di 3) rispetto alla corte, la sala che
si apre innanzi a voi è buia, il
pavimento è suddiviso in 7 riquadri
degradanti che sprofondano via via uno
alla volta, altrettanti riquadri
sorretti da 7 colonne compongono il
soffitto e fanno filtrare lame di luce.
I
progettisti descrivevano così questa
scelta architettonica:
«La
sensazione dell’incombente, del vuoto
formatosi sotto la crosta terrestre
attraverso uno spaventoso sconvolgimento
tellurico dalla caduta di Lucifero, può
essere reso plasticamente dall’immanente
piano di copertura della Sala; questo
soffitto fratturato e il pavimento pure
scomposto in riquadri digradanti, la
scarsa luce che filtra attraverso le
fenditure dei blocchi di copertura
daranno quella sensazione di catastrofe
di pena e di inutile aspirazione verso
il sole e la luce che tante volte
ritroviamo negli accorati discorsi dei
peccatori interrogati da Dante».
In fondo alla sala, il cammino riprende
in salita, la Scala conduce a quota 5,40
m «e quindi uscimmo a riveder le
stelle».
La sala Purgatorio ha il tetto vetrato,
suddiviso in 7 riquadri di dimensioni
decrescenti, dal più grande al più
piccolo, posti a quote diverse; il
soffitto, così come il pavimento, si
alza gradualmente. La montagna del
Purgatorio è, infatti, rievocata nei 7
riquadri del pavimento che si alzano
come gradini uno dopo l’altro
conducendovi alla prossima scala.
In fondo all’ultima rampa, la luce è
davvero abbagliante, siete a quota 8,10
m (81 è multiplo di 3). 33 colonne di
vetro riflettono la luce del sole che
pervade tutta la sala coperta da tetto
in vetro. O forse avremmo trovato delle
colonne opache?
Il plastico realizzato negli anni
Quaranta non riporta le colonne vitree
come negli acquerelli mostrati al duce
alla prima udienza, molto probabilmente
i progettisti avevano cambiato idea
considerando la difficoltà di realizzare
colonne in vetro dal diametro di 80 cm.
Si ipotizza che queste erano state
pensate anche come costituite in blocchi
di vetro cemento disposti a formare
rocchi cilindrici a giunti sfalsati
(come si può notare nella ricostruzione
virtuale qui proposta).
Il percorso, ormai interamente segnato
dalla luce, vi conduce all’uscita,
un’unica scala da percorrere in discesa
vi riporta su via dei Fori Imperiali. In
fondo alla scala, un alto blocco
marmoreo, rappresenta il Veltro. A un
elemento, semplice, muto, anomalo, è
consegnata la chiave di lettura voluta
dalla committenza.
Nella critica letteraria dell’epoca
fascista si leggeva, infatti, che
l’avvento di Mussolini fosse la venuta
del “veltro” profetizzato da Virgilio
nel I Canto dell’Inferno. Oggi quel
blocco di marmo lo avremmo percepito
semplicemente per quello che era, un
semplice parallelepipedo in travertino,
e forse anche allora? Chissà che i
progettisti non abbiano volutamente
celato determinate simbologie o, giusto
per accontentare la committenza, le
abbiano inserite in dei “fuori
percorso”.
Infatti, alla stessa quota della Sala
Paradiso, ma dalla parte opposta, si
inserisce un lungo corridoio suddiviso
in due da una lunga serie di pilastri.
Sulla parete in fondo al corridoio
doveva essere illustrata un’aquila,
realizzata su disegno di Mario Sironi.
Questa immagine alludeva a un episodio
descritto da Dante nel XVIII canto del
Paradiso, quando le anime si dispongono
innanzi al poeta a formare una scritta
in latino (amate la giustizia, voi
che siete giudici in terra) e
l’ultima lettera, la M, pian piano di
trasforma in aquila (simbolo dell’Impero
romano):
«Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.
‘DILIGITE IUSTITIAM’, primai
fur verbo e nome di tutto ‘l dipinto;
‘QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai.
Poscia ne l’emme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove
pareva argento lì d’oro distinto».
[…]
«e quietata ciascuna in suo loco,
la testa e ‘l collo d’un’aguglia vidi
rappresentare a quel distinto foco».
Il Danteum sarebbe stato, quindi,
uno splendido gioco architettonico, dove
la metrica, il numero dei canti (33) e
delle cantiche (3) della Divina
Commedia, nonché la simbologia numerica
nota (3 = simbolo della Trinità
Cristiania; 7 = 3+4 simbolo di
perfezione poiché somma della natura
divina, 3, e materiale, 4) si potevano
rivivere in volumi e spazi tangibili.
«Un tempio che tripartito in Sale che
poste a quote diverse stabiliscono un
percorso ascendente e che costruite in
modo diverso si integrano a vicenda
preparando gradualmente il visitatore ad
una sublimazione della materia e della
luce. (…) una atmosfera che suggestioni
il visitatore e sembri gravare anche
fisicamente sulla sua mortale persona e
lo commuova così come il “viaggio”
commosse Dante (…)».
(G. Terragni, P. Lingeri, Relazione sul
Danteum)
La ricostruzione virtuale qui proposta è
frutto di uno studio elaborato dalla
scrivente nel 2011 e ripreso nel 2015,
quando, in occasione del 750°
Anniversario della nascita di Dante
Alighieri è stato organizzato un
incontro culturale con il patrocinio del
Comune di Cianciana (AG) e del Circolo
di Cultura di Sciacca (AG). In
quell’occasione, insieme al Professor
Eugenio Giannone e al Professore
Architetto Nunzio Marsiglia
dell’Università di Palermo, è stato
presentato un suggestivo viaggio
virtuale all’interno del Danteum.
La ricostruzione digitale è stata
condotta a partire dai disegni degli
architetti Giuseppe Terragni e Pietro
Lingeri riportati nei riferimenti
bibliografici consultati, ciò che resta
di un progetto di massima, con il
supporto della rigorosa applicazione
della geometria aurea e dei rapporti
dimensionali su menzionati e descritti
dagli stessi progettisti nella Relazione
sul Danteum.
Riferimenti bibliografici:
Artioli A., Materiali per comprendere
Terragni e il suo tempo, Atti della
Giornata di Studio, Bata Gamma editrice,
Viterbo 1996.
Ciucci G. (a cura di), Giuseppe
Terragni. Opera completa, Electa,
Milano 1996.
Ciucci G., Pasquarelli, Un documento
inedito. La ragione teorica del Danteum,
in “Casabella”, n. 522, Marzo 1986.
Ciucci G., Casabella e Terragni,
in “Casabella”, n. 721, Aprile 2004.
Fosso E., Mantero E. (a cura di),
Giuseppe Terragni 1904-1943,
Tipografia editrice Cesari Nanni, Como
1982.
Mantero E., Giuseppe Terragni e la
città del razionalismo italiano,
Dedalo Libri 1969.
MIAR, L'architettura razionale
italiana 1931, in “La Casa Bella”,
Aprile 1931.
Schumacher T., Terragni e il Danteum,
1938 II ed., Officina Edizioni, Roma
1983.
Zevi B. (a cura di) Omaggio a
Terragni, in “L’Architettura
Cronache e Storia”, n. 153/1968.
Zevi B., Giuseppe Terragni,
Zanichelli Editore, Bologna, 1980. |