N. 30 - Giugno 2010
(LXI)
GEOGRAFIA DANTESCA e realtà del viaggio
Geografia e cosmologia dantesca - parte iII
di Giuseppe Maiorano
Se
c’è
un
argomento
che
è
stato
ed è
tuttora
notevolmente
sottovalutato
rispetto
alla
sua
importanza,
alla
sua
antichità,
alla
profondità
dei
suoi
significati
storici,
artistici,
filosofici,
religiosi,
questo
è il
‘Bosco
Sacro’
o
‘Parco
dei
Mostri’
di
Bomarzo,
in
provincia
di
Viterbo.
La
ricerca
dei
motivi
ispiratori,
dell’epoca
e
delle
modalità
di
realizzazione
di
questo
eccezionale
complesso
di
sculture
e
architetture
in
peperino,
è
stata
in
genere
confinata
entro
spazi
e
tempi
alquanto
ridotti
e
compressi
rispetto
alle
effettive
dimensioni
del
fenomeno
in
esame,
secondo
uno
schema
di
studi
specialistici
che,
se
utili
per
analisi
settoriali
ed
approfondimenti
tematici
di
qualunque
genere
e
ampiezza,
qui
con
la
loro
parcellizzazione
non
riescono
a
cogliere
le
molteplici
relazioni
esistenti
a
scala
superiore,
ad
un
livello
fenomenologico
più
complesso
e
tale
da
richiedere
una
metodologia
di
indagine
realmente
interdisciplinare.
Autore
di
importanti
pubblicazioni
sul
‘Bosco
Sacro’
di
Bomarzo
è
Maurizio
Calvesi,
che
si è
occupato
di
tale
tema
già
a
partire
dal
1956.
I
volumi
‘Il
Sacro
Bosco
di
Bomarzo’
(Lithos
Editrice,
1999),
‘Gli
incantesimi
di
Bomarzo.
Il
Sacro
Bosco
tra
arte
e
letteratura’,
(Bompiani,
2000),
ed
il
successivo
‘Bomarzo,
il
sacro
bosco.
Dieci
incisioni
di
Giuliano
Vangi’
(Il
Cigno
Galileo
Galilei,
2001)
- in
vendita
al
ragguardevole
prezzo
di
7.700
euro
-
sono
appunto
le
ultime
fatiche
di
Calvesi
sull’argomento.
Nonostante
i
notevoli
studi
comparativi
riferiti
alla
produzione
letteraria
compresa
tra
Medioevo
e
Rinascimento,
le
attente
puntualizzazioni
sia
sulla
personalità
del
duca
Vicino
Orsini,
presunto
ideatore
e
committente
delle
sculture,
sia
sul
coevo
ambiente
culturale,
sulle
amicizie
e le
corrispondenze
epistolari
intrattenute
dal
duca
con
artisti,
letterati
ed
alte
cariche
politiche
e
religiose,
è
evidente
che
gli
ultimi
lavori
di
Calvesi
non
hanno
sostanzialmente
mutato
il
quadro
di
riferimento,
evolutosi
solo
marginalmente
nell’arco
di
oltre
un
cinquantennio
di
studi
e
pubblicazioni.
Un
altro
notevole
contributo
alla
conoscenza
del
complesso
della
Villa
Orsini
di
Bomarzo
e
dell’annesso
giardino
rinascimentale
è
stato
quello
offerto
da
Horst
Bredekamp
con
il
volume
‘Vicino
Orsini
und
der
Heilige
Wald
von
Bomarzo’,
pubblicato
nel
1985
in
due
tomi
in
lingua
tedesca,
riproposto
nel
1989
in
traduzione
italiana
dalle
Edizioni
dell’Elefante
col
titolo
‘Vicino
Orsini
e il
Bosco
Sacro
di
Bomarzo’,
dotato
di
un
ricco
apparato
illustrativo
e
documentario.
Ma
anche
il
benemerito
lavoro
di
paziente
analisi
e di
sintesi
interpretativa
prodotto
da
Bredekamp,
pur
contribuendo
con
nuovi
dati
e
documenti
all’approfondimento
del
tema,
si è
tuttavia
mantenuto
nell’alveo
della
tradizionale
interpretazione,
che
vede
nella
personalità
di
Vicino
Orsini
il
vero
genio
ispiratore
delle
opere
di
Bomarzo.
Nel
2006
veniva
stampato
il
primo
ed
unico
numero
dei
‘Quaderni
di
Bomarzo’,
pubblicato
da
Davide
Ghaleb
Editore
e
curato
da
Enrico
Guidoni,
che
con
questo
lavoro
avanzava
una
nuova
interessante
ma
improbabile
proposta
di
attribuzione
a
Michelangelo
considerato
quale
‘regista
più
o
meno
occulto
del
progetto’.
Le
ultime
iniziative
editoriali
in
ordine
di
tempo
sono
costituite
dal
volume
‘Bomarzo.
Il
Sacro
Bosco’,
a
cura
di
Sabine
Frommel,
edito
da
Electa
nel
2009,
che
raccoglie
gli
atti
di
un
convegno
tenutosi
a
Bomarzo
nel
settembre
2007,
ed
il
volume
‘Bomarzo:
il
Sacro
Bosco.
Fortuna
critica
e
documenti’,
edito
sempre
nel
2009
da
Ginevra
Bentivoglio
Editoria,
che
pubblica
importanti
documenti
relativi
alla
presenza
degli
Orsini
nel
Lazio
e
promuove
una
attenta
riflessione
sulla
fortuna
critica
del
celebre
parco.
Una
diversa
attribuzione
e
più
antica
datazione,
tuttavia,
erano
state
avanzate
sin
dal
1990
in
alcuni
brevi
articoli
-
curati
dal
sottoscritto
-
nei
quali
si
indicava
una
originale
soluzione
ai
problemi
interpretativi
ed
attributivi
di
tale
complesso,
tentando
di
chiarire
soprattutto
quei
punti
che
mostravano
evidenti
incoerenze
e
contraddizioni.
Con
la
nuova
interpretazione,
sorretta
da
una
prospettiva
nettamente
interdisciplinare,
si
ampliavano
notevolmente
le
coordinate
storiche
e
geografiche
della
ricerca,
si
estendevano
i
limiti
del
quadro
di
riferimento
sia
in
senso
temporale
-
risalendo
indietro
di
oltre
3.000
anni
rispetto
all’età
di
Vicino
Orsini
-
sia
in
senso
spaziale,
muovendosi
verso
gli
estremi
confini
dell’Europa
e
del
Mediterraneo.
Inoltre,
se
le
ricerche
storiche
e
filologiche
di
Calvesi,
Bredekamp
e
degli
altri
studiosi
che
si
sono
dedicati
alla
questione
-
definita
da
qualcuno
‘paradosso
di
Bomarzo’
–
hanno
indagato
ed
analizzato
ogni
possibile
elemento
di
interesse,
collegamento,
evento,
dato
e
documento
esistente,
ottenendo
spesso
risultati
pregevoli,
qual’è
in
sostanza
il
punto
debole
di
queste
ricerche?
La
risposta
è
apparentemente
semplice:
la
relazione
di
dipendenza
delle
opere
di
Bomarzo
da
un
presunto
preesistente
modello
letterario,
artistico
o
filosofico,
va
completamente
rovesciata,
individuando
nell’originale
complesso
artistico
ed
architettonico
di
Bomarzo
il
vero
unico
prototipo,
preesistente
alle
creazioni
di
età
medievale
e
rinascimentale.
Le
intuizioni
di
alcuni
degli
studiosi
prima
citati
si
possono
quindi
considerare
in
qualche
modo
valide,
ma
andrebbero
praticamente
ribaltate
rispetto
alla
realtà
storica
dei
fatti,
alla
sequenza
degli
avvenimenti,
alle
effettive
motivazioni
e
alle
modalità
di
ideazione
e
realizzazione
delle
opere
presenti
a
Bomarzo.
Se
pertanto
il
campo
di
indagine
fosse
stato
ampliato
sino
ad
abbracciare
le
prime
testimonianze
epigrafiche
e
letterarie
dei
boschi
sacri,
quali
si
ritrovano
ad
esempio
in
Egitto
nelle
‘Lamentazioni
di
Ipuwer’
-
testo
della
fine
del
terzo
millennio
a.C.
in
cui
si
menziona
la
creazione
e la
dedica
di
‘boschetti’
alle
divinità
egizie
-
oppure
esteso
alla
letteratura
escatologica
dei
popoli
nordici
di
età
vichinga
o
posteriore,
che
nella
visione
infernale
dell’anonimo
poema
norreno
‘Solarljod’
o
nella
descrizione
dell’apocalittico
‘Ragnarök’
trova
sorprendenti
agganci
con
il
nostro
tema,
sarebbe
stato
possibile
istituire
da
subito
importanti
collegamenti
in
grado
di
valorizzare
uno
dei
caratteri
che
si
presentano
con
immediatezza
e
quasi
banale
evidenza:
la
‘sacralità’
del
sito.
Perché
allora
tutte
le
principali
linee
di
ricerca,
letteraria
e
non,
si
sono
mantenute
per
mezzo
secolo
nel
solco
di
una
consolidata
ma
univoca
tradizione
di
studi
sull’argomento?
Perché
non
si
sono
spinte
oltre?
Anche
qui
la
risposta
è
semplice:
le
scienze
storiche
ed
archeologiche,
la
ricerca
filologica,
la
stessa
critica
d’arte,
sono
spesso
confinate
entro
‘griglie’
metodologiche
evolutesi
gradualmente
sulla
base
di
successivi
apporti
di
indubbio
valore
per
sé
stessi,
ma
purtroppo
sempre
più
settoriali
e ‘monodisciplinari’,
tanto
più
approfonditi
e
specializzati
quanto
più
indipendenti
ed
isolati
dal
contesto.
I
ripetuti
appelli
alla
cooperazione
interdisciplinare
spesso
si
risolvono
nel
demandare
semplicemente
ad
altri
studiosi
ulteriori
indagini,
anch’esse
di
natura
specialistica.
Ciò
che
occorre
è
soprattutto
una
rete
di
collegamenti
‘trasversali’
tra
le
diverse
discipline,
ma
anche
l’elaborazione
di
metodologie
più
duttili
e
meno
cristallizzate,
in
grado
di
ammettere,
come
auspicato
ad
esempio
da
Feyerabend,
procedimenti
non
sempre
canonici,
percorsi
di
indagine
ai
limiti
dell’ortodossia
ufficiale,
ipotesi
di
lavoro
apparentemente
paradossali,
fino
alla
rivalutazione
di
ipotesi
e
teorie
già
rigettate
e
finite
nell’oblio
(è
il
caso
della
teoria
eliocentrica).
Nel
caso
di
Bomarzo,
tuttavia,
sembra
sia
mancata
una
generale
‘acutezza’
di
visione,
di
capacità
di
penetrazione
del
problema,
probabilmente
offuscata
da
uno
stratificato
e
persistente
accumulo
di
preconcetti
e
luoghi
comuni.
‘Va
ancora
bene
quando
le
mani
degli
uomini
costruiscono
le
piramidi,
quando
si
scavano
canali
e si
fanno
boschetti
per
gli
dei…’.
Così
il
citato
Ipuwer,
notabile
egizio
vissuto
intorno
al
2100
a.C.,
riferiva
in
un
passo
delle
sue
‘Lamentazioni’,
allorquando
si
assisteva
al
crollo
dell’Antico
Regno
ed
alla
conseguente
crisi
economica
e
sociale
del
cosiddetto
‘Primo
Periodo
Intermedio’.
La
vetusta
tradizione
dei
boschi
e
delle
piante
sacre,
diffusasi
anche
in
Grecia
e
nel
Vicino
Oriente
antico
– un
valido
riferimento
è l’Asklepieion
dell’isola
di
Kos
con
annesso
bosco
sacro
-
poi
confluita
nel
‘lucus’
e
‘nemus’
in
ambito
etrusco-romano
e,
in
genere,
italico,
può
essere
assunta
come
punto
di
partenza
per
tentare
una
ricostruzione
di
questo
variegato
‘mosaico’,
giuntoci
alquanto
lacunoso
e
frammentario
dopo
una
serie
di
complesse
vicende
storiche.
E’
proprio
l’attributo
della
‘sacralità’,
piuttosto
che
del
‘meraviglioso’
o
del
‘mostruoso’
-
categorie
con
cui
viene
in
genere
connotato
il
sito
in
esame
- ad
indicare
una
diversa
direzione
di
ricerca.
A
prospettare
l’ipotesi
di
una
destinazione
cultuale
del
sito
era
stata
l’individuazione
e la
segnalazione
alla
competente
Soprintendenza
Archeologica,
già
nel
1983,
di
alcune
testimonianze
di
‘arte
rupestre’
consistenti
in
vaschette,
canaline,
fossette
o ‘coppelle’,
ricavate
direttamente
nella
pietra
locale,
il
peperino,
e
distribuite
in
modo
apparentemente
casuale
nell’area
del
Bosco
Sacro.
Tali
lavorazioni,
di
difficile
datazione,
rinviavano
comunque
a
pratiche
religiose
di
età
preistorica
e
protostorica,
includenti
l’offerta
di
vittime
sacrificali
alla
divinità.
L’ipotesi
dell’esistenza
a
Bomarzo
di
un
antico
santuario
veniva
ulteriormente
confermata,
qualche
anno
dopo,
dal
rinvenimento
fortuito
di
due
grandi
massi
con
tracce
di
lavorazione
-
uno
dei
quali
chiaramente
adattato
ad
altare
sacrificale
e
dotato
di
letto
di
deposizione
funebre
– e
con
la
chiara
rappresentazione
di
simboli
astrali
incisi
sul
prospetto
principale,
databili
tra
l’Eneolitico
e il
Bronzo
Antico,
ossia
approssimativamente
tra
quarto
e
terzo
millennio
a.C.
I
confronti
istituiti
con
altri
siti
archeologici,
in
relazione
sia
alla
tipologia
e
cronologia
dell’arte
rupestre,
sia
alle
affinità
toponomastiche
– ad
esempio
il
‘colle
sacro’
di
Bonnannaro
in
Sardegna,
quello
di
Luine
in
Valcamonica,
le
cime
Bo e
Momarzo
nel
Biellese
-
hanno
fornito
ulteriori
importanti
elementi
a
favore
dell’ipotesi
in
esame.
Ma
un’altra
questione
si
poneva
subito
all’attenzione:
quali
relazioni
potevano
esistere
tra
le
preesistenze
archeologiche
prima
descritte
e le
creazioni
in
pietra
attribuite
a
Vicino
Orsini?
Era
possibile
che
le
sculture
realizzate
dal
duca
si
fossero
ispirate
ad
eventuali
formazioni
geologiche
presenti
nel
parco,
aventi
sembianze
antropomorfe
o
zoomorfe?
Nella
ricerca
di
possibili
elementi
di
continuità
tra
le
età
antiche
e la
fase
rinascimentale
del
Bosco
Sacro,
emersero
ben
presto
nuovi
dati,
che
ribadivano
l’ipotesi
di
una
sua
prolungata
destinazione
cultuale.
Infatti,
l’identificazione
di
caratteri
etruschi,
incisi
sulla
superficie
di
alcune
sculture,
suggeriva
una
evidente
retrodatazione
non
solo
del
sito
in
quanto
tale,
ma
delle
stesse
opere
di
scultura
e di
architettura
disseminate
nel
parco.
Le
raffigurazioni
di
divinità
e di
eroi
semidivini,
come
la
coppia
di
giganti
in
lotta
-
Ercole
e
Caco,
oppure
Ercole
e
Anteo
-
databile
tra
il
III
ed
il I
secolo
a.C.,
erano
verosimilmente
riferibili
ad
un
‘lucus’
di
tradizione
etrusco-romana,
la
cui
denominazione
si
era
miracolosamente
conservata,
attraverso
la
fase
rinascimentale,
fino
ai
nostri
giorni.
Un
ulteriore
interessante
riferimento,
a
tale
proposito,
poteva
essere
individuato
nel
racconto
dell’ottavo
libro
dell’Eneide
di
Virgilio,
con
la
descrizione
dell’arrivo
dell’eroe
troiano
alla
reggia
del
re
Evandro
e
l’incontro
dei
due
capi
presso
l’antico
altare
eretto
nel
‘bosco
sacro’
a
ricordo
della
vittoria
di
Ercole
sul
gigante
Caco
(Eneide,
VIII
79-306)
-
episodio
che
trovava
pertanto
una
precisa
corrispondenza
nel
citato
gruppo
di
giganti
in
lotta
tra
le
sculture
del
parco
di
Bomarzo.
Circa
i
caratteri
dell’alfabeto
etrusco
individuati
sulla
superficie
di
alcune
sculture
e
leggibili
con
difficoltà,
dato
il
loro
cattivo
stato
di
conservazione,
la
maggior
parte
delle
iscrizioni
sembra
riferirsi
allo
scomparso
‘Fanu
Veltune’,
o
‘Santuario
di
Veltuna’,
fondamentale
centro
di
culto
e di
riunione
delle
genti
etrusche,
sede
dell’annuale
concilio
dei
rappresentanti
delle
grandi
città-stato,
come
Tarquinia,
Cere,
Volsinii.
Secondo
la
testimonianza
di
autorevoli
fonti,
presso
tale
santuario
si
svolgevano
feste
religiose,
gare
sportive,
nonché
atti
politici
ed
amministrativi,
come
l’elezione
della
suprema
carica
politico-religiosa
della
nazione
etrusca,
lo ‘zilath’.
Si
potrebbe
quindi
sostenere
che
proprio
l’equivoco
storico,
prodottosi
molti
secoli
dopo
con
l’insediamento
della
famiglia
Orsini
a
Bomarzo
e
l’attribuzione
della
progettazione
e
dell’esecuzione
del
complesso
al
duca
Vicino
Orsini,
avrebbe
contribuito
ad
occultare
e a
cancellare,
in
modo
quasi
irreversibile,
il
ricordo
del
massimo
santuario
d’Etruria
–
quello
che
si
potrebbe
forse
definire
un
caso
di
‘falso’
al
contrario.
Risulta
invece
verosimile
assegnare
l’esecuzione
della
maggior
parte
dei
manufatti
esistenti
nel
Bosco
Sacro
alla
fase
finale
della
produzione
artistica
etrusca.
In
particolare,
tali
opere
si
daterebbero,
come
già
accennato,
tra
il
III
ed
il I
secolo
a.C.,
arco
temporale
ricadente
nell’età
ellenistica,
durante
la
quale
la
ormai
decadente
civiltà
etrusca
mostrava,
nelle
sue
residue
espressioni
artistiche,
un
costante
ricorso
a
simbologie
legate
al
mondo
ultraterreno
quale
conseguenza
del
declino
economico
e
sociale
della
nazione
etrusca
in
seguito
alla
sconfitta
militare
e
all’occupazione
dei
propri
territori
da
parte
dell’inarrestabile
potenza
romana.
Non
a
caso
un
intervento
dell’architetto
Giuseppe
Zander
al
convegno
‘I
Farnese:
trecento
anni
di
storia’,
svoltosi
a
Gradoli
nell’ottobre
1987
e
pubblicato
nel
Bollettino
del
Centro
Studi
e
Ricerche
sul
Territorio
Farnesiano
nel
1990
(nn.7
e 8
dei
‘Quaderni
di
Gradoli’)
-
testo
quasi
mai
citato
dagli
studiosi
di
Bomarzo
-
aveva
come
tema
‘Le
statue
nei
giardini
secondo
la
consuetudine
romana.
Il
rinnovarsi
di
una
tradizione
antica
al
tempo
dei
Farnese’.
Egli
individuava
nelle
sculture
all’aperto
di
Bomarzo
una
inconfondibile
iconografia
di
impronta
classicheggiante
e la
presenza
di
una
‘forte
tradizione
antica’.
Nel
corso
degli
studi
e
delle
ricerche
sulle
realizzazioni
di
Bomarzo,
si
era
osservato
che
i
temi
dell’oltretomba
e le
figure
demoniache
rinviavano,
a
loro
volta,
ad
un
importante
‘topos’
della
tradizione
classica
e
medievale:
il
viaggio
agli
inferi.
Così,
la
compresenza
a
Bomarzo
del
tema
infernale
e
del
Bosco
Sacro
giustificavano
un
ulteriore
confronto
con
quella
che
viene
generalmente
considerata
l’opera
fondamentale
della
letteratura
italiana:
la
‘Commedia’
dantesca,
o
‘Divina
Commedia’.
Nonostante
la
comparazione
apparisse
a
prima
vista
improbabile,
tuttavia,
le
analisi
e le
successive
verifiche
sul
campo,
inclusa
l’esplorazione
dei
luoghi
in
prossimità
del
parco,
hanno
via
via
prodotto
risultati
sempre
più
importanti
e
convincenti.
Infatti,
la
morfologia
dei
luoghi
esplorati
nel
raggio
di
una
dozzina
di
chilometri,
le
caratteristiche
ambientali,
geologiche
e
idrogeologiche,
le
relazioni
spaziali
in
termini
di
distanze,
dislivelli,
pendenze,
hanno
trovato
una
sorprendente
corrispondenza
con
gli
ambienti
e le
situazioni
narrate
nella
prima
cantica
del
poema
dantesco,
ossia
il
viaggio
attraverso
la
valle
infernale.
Sono
così
risultati
oggettivamente
localizzabili
e
fisicamente
percepibili
molti
elementi
descritti
da
Dante,
come
la
città
di
Dite,
corrispondente
al
teatro
romano
di
Ferento,
gli
‘avelli’,
visibili
come
sarcofagi
nello
stesso
teatro,
il
fiume
infernale
Flegetonte,
coincidente
con
i
torrenti
Acqua
Rossa
e
Vezza,
i
giganti
Nembrot
e
Fialte,
corrispondenti
al
Nettuno
con
cornucopia
e
l’Ercole
del
già
menzionato
gruppo
scultoreo.
L’ipotesi
dell’esistenza
di
un
percorso
reale
e
documentabile
del
viaggio
dantesco,
relativamente
alla
prima
parte
del
poema,
darebbe
coerentemente
ragione
dell’indiscusso
realismo
attribuito
appunto
alla
prima
cantica.
Ma è
soprattutto
l’improvvisa
apparizione
dei
‘colossi
di
pietra’
del
Bosco
Sacro,
appartenuti
all’antico
santuario
etrusco
nella
sua
fase
finale,
successiva
alla
distruzione
delle
duemila
statue
bronzee
che
lo
decoravano,
a
giustificare
lo
stupore
del
poeta,
il
riferimento
alla
‘mirabile
visione’
e
l’insorgere
del
tono
profetico,
che
ricorre
apertamente
in
molti
passi
del
poema.
Sotto
questo
profilo,
dunque,
il
contenuto
narrativo
della
Commedia
dantesca
assume
un
significato
ed
un
valore
alquanto
diversi
da
quelli
tradizionalmente
ad
essa
attribuiti,
mentre
viene
notevolmente
evidenziato
lo
sforzo
di
adattamento
del
dato
reale,
oggettivo,
alle
esigenze
dei
contenuti
poetici,
filosofici,
morali,
scientifici.
Ma i
riferimenti
letterari
delle
sculture
di
Bomarzo
sembrano
andare
anche
al
di
là
dello
stesso
poema
dantesco,
interessando,
oltre
le
numerose
opere
letterarie
analizzate
da
Calvesi,
testi
medievali
quali
l’anonimo
‘Liber
Mostrorum’,
databile
al
IX
secolo,
o il
citato
‘Solarljod’
della
letteratura
scandinava,
o
ancora
l’originale
componimento
quattrocentesco
del
frate
Francesco
Colonna,
la
’Hypnerotomachia
Poliphili’,
opera
spesso
citata
come
potenziale
fonte
di
ispirazione
del
Bosco
Sacro
e
che
invece,
nella
prospettiva
qui
suggerita,
andrebbe
a
collocarsi
tra
le
opere
letterarie
dedicate
a
questo
incredibile
ed
enigmatico
sito,
la
cui
identità
pertanto
risulterebbe
tanto
deformato
e
snaturato
da
scomparire
dalla
memoria
storica
dell’uomo
contemporaneo.
Ulteriori
conferme
alla
validità
delle
interpretazioni
e
delle
ipotesi
ricostruttive,
qui
formulate,
sono
scaturite
recentemente
dall’individuazione
e
comparazione
di
vari
elementi,
afferenti
a
diversi
ambiti
di
ricerca
- ma
sempre
tra
loro
strettamente
interrelati
-
che
si
possono
schematizzare
e
raggruppare
nei
seguenti
settori
di
indagine:
a)
toponomastica.
L’idronimo
‘Vezza’,
che
designa
il
già
menzionato
torrente
che
attraversa
il
territorio
di
Bomarzo,
è
chiaramente
confrontabile
con
l’etrusco
‘Velzna’,
originaria
denominazione
della
città
di
Volsinii,
oggi
arbitrariamente
localizzata
ad
Orvieto
insieme
al
santuario
pan-etrusco
di
Veltuna.
In
quest’ultimo
termine,
inoltre,
le
due
sillabe
finali
‘tuna’
rinviano
alla
forma
nominale
‘tina/tuna’,
segnalata
dal
linguista
e
antropologo
americano
Merritt
Ruhlen
come
forma
comune
alla
maggior
parte
delle
lingue
amerindie
col
significato
di
‘figlio,
bambino’,
a
sua
volta
riconducibile
ad
una
delle
‘radici
universali’
individuate
dallo
stesso
Ruhlen
nella
maggioranza
delle
famiglie
linguistiche
del
mondo,
cioè
‘tik’,
che
vale
‘uno,
dito’.
Così,
tra
l’altro,
è
possibile
ipotizzare
un
apparentamento
se
non
una
identificazione
delle
due
principali
divinità
etrusche,
appunto
il
citato
‘Veltuna’
e
l’enigmatico
‘Tinia’
-
assimilabile
allo
Zeus
greco
– in
quanto
teonimi
equivalenti
sia
per
gli
aspetti
linguistici
(a
meno
della
sillaba
iniziale)
sia
per
i
loro
attributi
e la
posizione
preminente
che
occupano
nel
pantheon
etrusco.
b)
iconografia.
Un
utile
raffronto
è
stato
istituito
tra
i
segni
incisi
sul
grande
masso
preistorico,
prima
descritto,
caratterizzato
da
simboli
astrali
e da
un
‘letto
funebre’
ottenuto
lavorando
direttamente
la
pietra
‘in
situ’,
e
l’iconografia
di
alcuni
sigilli
e
tavolette
del
III
millennio
a.C.
dalla
Valle
dell’Indo
(Harappa,
Mohenjodaro)
con
analoghi
simboli
astrali
interpretati
quali
segni
della
‘regalità’.
Ciò
confermerebbe
l’esistenza
nel
Lazio
della
antichissima
tradizione
dei
boschi
sacri,
all’interno
dei
quali
sarebbero
avvenute
sfide
cruente
e
riti
funebri
collegati
alla
conquista
della
sovranità
attraverso
il
duello
tra
i
due
pretendenti
alla
massima
carica
politica
e
religiosa,
secondo
un
diritto
consuetudinario
rintracciabile
alle
radici
del
costume
italico.
c)
archeologia.
Resti
di
un
interessante
monumento
di
età
etrusco-romana
a
pianta
quadrata
sono
chiaramente
visibili
alla
base
del
campanile
della
chiesa
parrocchiale
di
Bomarzo,
in
pieno
centro
storico
e a
pochi
passi
dal
‘Castello’,
o
‘Palazzo
Orsini’
-
normalmente
considerato
la
parte
alta
della
‘Villa
Orsini’
con
annesso
giardino
rinascimentale.
Pur
costituendo
una
testimonianza
di
particolare
importanza
per
la
datazione
e
l’interpretazione
tanto
del
centro
abitato
situato
sul
colle
quanto
del
complesso
storico-artistico
posto
a
valle,
essi
tuttavia
risultano
spesso
ignorati
da
quanti
si
occupano
di
Bomarzo.
Analogo
scarso
interesse
hanno
suscitato
i
resti
di
un
cospicuo
tratto
di
mura
urbane,
anch’essi
ben
visibili
lungo
la
strada
comunale
che
conduce
verso
la
frazione
di
Mugnano
e
l’alveo
del
Tevere:
strutture
rilevate
e
segnalate
alla
competente
Soprintendenza
Archeologica
e da
attribuire
verosimilmente
al
citato
insediamento
etrusco
di
Velzna/Volsinii.
Un’altra
porzione
del
primitivo
abitato
etrusco
è
invece
localizzabile
sulla
vicina
collina
di
Pianmiano,
dove
vecchi
e
nuovi
scavi
hanno
accertato
l’esistenza
di
un
insediamento
a
partire
almeno
dal
VI
secolo
a.C.
d)
architettura.
Il
cosiddetto
‘tempietto
di
Giulia
Farnese’,
anomala
costruzione
il
cui
basamento
è
stato
ottenuto
modellando
la
pietra
locale
‘in
situ’,
in
analogia
con
le
circostanti
sculture
del
parco
ed
il
menzionato
masso
preistorico,
è
costruito
integralmente
con
materiali
lapidei
locali
e
non
presenta
i
caratteri
dell’edificio
sacro
rinascimentale.
La
pianta
mostra
i
rapporti
metrici
canonici
del
tempio
tuscanico
descritto
da
Vitruvio.
Nel
pavimento
della
piccola
cella
interna
è
stata
rilevata
e
fotografata
una
‘fossetta
votiva’,
interpretabile
come
‘bothros’
o
‘mundus’
per
offerte
agli
dei
inferi,
poi
riempita
di
malta
cementizia
dai
proprietari
del
complesso.
La
costruzione
incarna
piuttosto
un
modello
di
edificio
religioso
di
età
ellenistica,
il
cui
prospetto
principale
mostra
un
timpano
triangolare
‘sfondato’
in
modo
caratteristico
da
un
arco
a
tutto
sesto,
secondo
una
tipologia
detta
ad
‘arco
siriaco’
che
si
ritrova
comunemente
in
edifici
religiosi
o di
pubblica
utilità
del
Mediterraneo
orientale
in
età
ellenistica
e
romana
(tempio
di
Bargylia
in
Caria,
attuale
Turchia;
ginnasio
di
Sardi;
tempio
di
Adriano
ad
Efeso;
tombe
rupestri
di
Petra
in
Giordania;
tempio
delle
Muse
a
Cirene,
in
Libia;
peristilio
del
Palazzo
di
Diocleziano
a
Spalato).
e)
geomorfologia.
Il
lungo
crinale
montuoso,
alla
cui
estremità
sorge
il
centro
storico
di
Bomarzo
con
la
caratteristica
mole
del
Castello
o
Palazzo
Orsini,
risulta
attualmente
interrotto
per
oltre
200
metri
di
lunghezza,
pur
costituendo
in
origine
una
formazione
geologica
unitaria,
come
infatti
rivelano
le
curve
di
livello
riportate
sulle
carte
topografiche
dell’IGM
-
circa
300
metri
s.l.m.
-
dove
si
osserva
una
pendenza
piuttosto
costante
lungo
lo
sviluppo
di
tale
crinale.
Lo
sbancamento
di
centinaia
di
migliaia
di
metri
cubi
di
roccia
deve
essere
stato
dettato
da
esigenze
di
difesa
militare
e
soprattutto
di
isolamento
della
porzione
terminale
del
crinale,
sagomata
a
roccaforte
con
alte
pareti
a
strapiombo,
tali
da
assicurare
una
elevato
grado
di
difendibilità.
La
natura
artificiale
del
‘taglio’
è
testimoniata
da
alcune
tracce
di
estrazione
di
blocchi
squadrati
come
quelli
visibili
nelle
antiche
cave
di
pietra.
Una
ulteriore
conferma
è
costituita
dalla
imponente
merlatura,
chiaramente
visibile
nelle
porzioni
di
collina
rimaste
libere
dalle
costruzioni
aggiunte
in
epoche
successive,
ottenuta
‘a
risparmio’
modellando
la
roccaforte
durante
la
medesima
fase
di
sbancamento
della
collina.
Il
progetto
e
l’esecuzione
di
tali
interventi
vanno
indubbiamente
attribuiti
ad
una
organizzazione
politica
ed
economica
di
gran
lunga
più
potente
di
quella
ascrivibile
ad
una
ricca
famiglia
romana
del
Rinascimento.
f)
letteratura.
L’incipit
della
Commedia
dantesca
sembra
racchiudere
dati
‘spaziali’
oltre
che
‘temporali’,
giacché,
insieme
alla
data
del
viaggio,
fornirebbe
indicazioni
topografiche
utili
per
individuare,
‘a
metà
del
percorso
tra
Roma
e
Firenze’,
quel
‘bosco’
o ‘selva’
in
cui
il
poeta
può
‘ritrovare
sé
stesso’,
dopo
avere
deviato
dal
‘percorso
rettilineo
della
via
Cassia’.
Tale
interpretazione
appare
coerente
con
quanto
già
detto
in
merito
alla
presenza
di
Dante
nel
territorio
compreso
tra
Viterbo
e
Bomarzo.
Infine,
un
indizio
cruciale
è
forse
desumibile
dalla
letteratura
latina:
l’elegia
che
Properzio
dedica
proprio
al
dio
‘Vertumno/Voltumna’,
l’etrusco
‘Veltuna’,
può
fornire
una
traccia
utile
per
localizzazione
del
suo
santuario.
Il ‘te,
qui
ad
vadimonia
curris’
del
verso
57
dell’elegia,
riferito
stranamente
ad
un
generico
passante
diretto
al
tribunale
per
un
atto
di
comparizione,
appunto
in
latino
‘vadimonium’,
in
realtà
potrebbe
rinviare,
in
modo
più
pertinente,
ai
riti
che
si
svolgevano
tradizionalmente
presso
il
lago
Vadimone,
situato
tra
Orte
e
Bomarzo
e
ritenuto
sacro
dagli
etruschi
-
come
attestato
da
varie
fonti
latine
-
riti
che
nell’elegia
verrebbero
appunto
definiti
‘vadimonia’,
con
il
ricorso
ad
una
ambigua
parafrasi
che
fa
pensare
ad
una
sorta
di
‘damnatio
memoriae’
intervenuta
nei
confronti
della
località
sede
del
principale
culto
etrusco.
A
meno
che
Properzio
non
volesse,
in
realtà,
tutelare
chi
frequentava
ancora
quei
riti
e
venerava
tale
divinità
ai
tempi
dell’occupazione
romana,
invece
di
ammetterne
esplicitamente
la
sopravvivenza
ed
indicarne
oggettivamente
il
sito.
Se
così
fosse,
il
modo
in
cui
Properzio
ne
tratta
e lo
stesso
fatto
di
aver
dedicato
una
elegia
a
Vertumno
farebbero
pensare
a
qualche
forma
di
coinvolgimento
del
poeta
latino
in
tali
culti.