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N. 30 - Giugno 2010 (LXI)

GEOGRAFIA DANTESCA e realtà del viaggio
Geografia e cosmologia dantesca - parte iII

di Giuseppe Maiorano

 

Se c’è un argomento che è stato ed è tuttora notevolmente sottovalutato rispetto alla sua importanza, alla sua antichità, alla profondità dei suoi significati storici, artistici, filosofici, religiosi, questo è il ‘Bosco Sacro’ o ‘Parco dei Mostri’ di Bomarzo, in provincia di Viterbo.

 

La ricerca dei motivi ispiratori, dell’epoca e delle modalità di realizzazione di questo eccezionale complesso di sculture e architetture in peperino, è stata in genere confinata entro spazi e tempi alquanto ridotti e compressi rispetto alle effettive dimensioni del fenomeno in esame, secondo uno schema di studi specialistici che, se utili per analisi settoriali ed approfondimenti tematici di qualunque genere e ampiezza, qui con la loro parcellizzazione non riescono a cogliere le molteplici relazioni esistenti a scala superiore, ad un livello fenomenologico più complesso e tale da richiedere una metodologia di indagine realmente interdisciplinare.

 

Autore di importanti pubblicazioni sul ‘Bosco Sacro’ di Bomarzo è Maurizio Calvesi, che si è occupato di tale tema già a partire dal 1956. I volumi ‘Il Sacro Bosco di Bomarzo’ (Lithos Editrice, 1999), ‘Gli incantesimi di Bomarzo. Il Sacro Bosco tra arte e letteratura’, (Bompiani, 2000), ed il successivo ‘Bomarzo, il sacro bosco. Dieci incisioni di Giuliano Vangi’ (Il Cigno Galileo Galilei, 2001) - in vendita al ragguardevole prezzo di 7.700 euro - sono appunto le ultime fatiche di Calvesi sull’argomento.

 

Nonostante i notevoli studi comparativi riferiti alla produzione letteraria compresa tra Medioevo e Rinascimento, le attente puntualizzazioni sia sulla personalità del duca Vicino Orsini, presunto ideatore e committente delle sculture, sia sul coevo ambiente culturale, sulle amicizie e le corrispondenze epistolari intrattenute dal duca con artisti, letterati ed alte cariche politiche e religiose, è evidente che gli ultimi lavori di Calvesi non hanno sostanzialmente mutato il quadro di riferimento, evolutosi solo marginalmente nell’arco di oltre un cinquantennio di studi e pubblicazioni.

 

Un altro notevole contributo alla conoscenza del complesso della Villa Orsini di Bomarzo e dell’annesso giardino rinascimentale è stato quello offerto da Horst Bredekamp con il volume ‘Vicino Orsini und der Heilige Wald von Bomarzo’, pubblicato nel 1985 in due tomi in lingua tedesca, riproposto nel 1989 in traduzione italiana dalle Edizioni dell’Elefante col titolo ‘Vicino Orsini e il Bosco Sacro di Bomarzo’, dotato di un ricco apparato illustrativo e documentario.

 

Ma anche il benemerito lavoro di paziente analisi e di sintesi interpretativa prodotto da Bredekamp, pur contribuendo con nuovi dati e documenti all’approfondimento del tema, si è tuttavia mantenuto nell’alveo della tradizionale interpretazione, che vede nella personalità di Vicino Orsini il vero genio ispiratore delle opere di Bomarzo.

 

Nel 2006 veniva stampato il primo ed unico numero dei ‘Quaderni di Bomarzo’, pubblicato da Davide Ghaleb Editore e curato da Enrico Guidoni, che con questo lavoro avanzava una nuova interessante ma improbabile proposta di attribuzione a Michelangelo considerato quale ‘regista più o meno occulto del progetto’.

 

Le ultime iniziative editoriali in ordine di tempo sono costituite dal volume ‘Bomarzo. Il Sacro Bosco’, a cura di Sabine Frommel, edito da Electa nel 2009, che raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Bomarzo nel settembre 2007, ed il volume ‘Bomarzo: il Sacro Bosco. Fortuna critica e documenti’, edito sempre nel 2009 da Ginevra Bentivoglio Editoria, che pubblica importanti documenti relativi alla presenza degli Orsini nel Lazio e promuove una attenta riflessione sulla fortuna critica del celebre parco.

 

Una diversa attribuzione e più antica datazione, tuttavia, erano state avanzate sin dal 1990 in alcuni brevi articoli - curati dal sottoscritto - nei quali si indicava una originale soluzione ai problemi interpretativi ed attributivi di tale complesso, tentando di chiarire soprattutto quei punti che mostravano evidenti incoerenze e contraddizioni. Con la nuova interpretazione, sorretta da una prospettiva nettamente interdisciplinare, si ampliavano notevolmente le coordinate storiche e geografiche della ricerca, si estendevano i limiti del quadro di riferimento sia in senso temporale - risalendo indietro di oltre 3.000 anni rispetto all’età di Vicino Orsini - sia in senso spaziale, muovendosi verso gli estremi confini dell’Europa e del Mediterraneo.

 

Inoltre, se le ricerche storiche e filologiche di Calvesi, Bredekamp e degli altri studiosi che si sono dedicati alla questione - definita da qualcuno ‘paradosso di Bomarzo’ – hanno indagato ed analizzato ogni possibile elemento di interesse, collegamento, evento, dato e documento esistente, ottenendo spesso risultati pregevoli, qual’è in sostanza il punto debole di queste ricerche?

 

La risposta è apparentemente semplice: la relazione di dipendenza delle opere di Bomarzo da un presunto preesistente modello letterario, artistico o filosofico, va completamente rovesciata, individuando nell’originale complesso artistico ed architettonico di Bomarzo il vero unico prototipo, preesistente alle creazioni di età medievale e rinascimentale.

 

Le intuizioni di alcuni degli studiosi prima citati si possono quindi considerare in qualche modo valide, ma andrebbero praticamente ribaltate rispetto alla realtà storica dei fatti, alla sequenza degli avvenimenti, alle effettive motivazioni e alle modalità di ideazione e realizzazione delle opere presenti a Bomarzo.

 

Se pertanto il campo di indagine fosse stato ampliato sino ad abbracciare le prime testimonianze epigrafiche e letterarie dei boschi sacri, quali si ritrovano ad esempio in Egitto nelle ‘Lamentazioni di Ipuwer’ - testo della fine del terzo millennio a.C. in cui si menziona la creazione e la dedica di ‘boschetti’ alle divinità egizie - oppure esteso alla letteratura escatologica dei popoli nordici di età vichinga o posteriore, che nella visione infernale dell’anonimo poema norreno ‘Solarljod’ o nella descrizione dell’apocalittico ‘Ragnarök’ trova sorprendenti agganci con il nostro tema, sarebbe stato possibile istituire da subito importanti collegamenti in grado di valorizzare uno dei caratteri che si presentano con immediatezza e quasi banale evidenza: la ‘sacralità’ del sito.

 

Perché allora tutte le principali linee di ricerca, letteraria e non, si sono mantenute per mezzo secolo nel solco di una consolidata ma univoca tradizione di studi sull’argomento? Perché non si sono spinte oltre? Anche qui la risposta è semplice: le scienze storiche ed archeologiche, la ricerca filologica, la stessa critica d’arte, sono spesso confinate entro ‘griglie’ metodologiche evolutesi gradualmente sulla base di successivi apporti di indubbio valore per sé stessi, ma purtroppo sempre più settoriali e ‘monodisciplinari’, tanto più approfonditi e specializzati quanto più indipendenti ed isolati dal contesto.

 

I ripetuti appelli alla cooperazione interdisciplinare spesso si risolvono nel demandare semplicemente ad altri studiosi ulteriori indagini, anch’esse di natura specialistica. Ciò che occorre è soprattutto una rete di collegamenti ‘trasversali’ tra le diverse discipline, ma anche l’elaborazione di metodologie più duttili e meno cristallizzate, in grado di ammettere, come auspicato ad esempio da Feyerabend, procedimenti non sempre canonici, percorsi di indagine ai limiti dell’ortodossia ufficiale, ipotesi di lavoro apparentemente paradossali, fino alla rivalutazione di ipotesi e teorie già rigettate e finite nell’oblio (è il caso della teoria eliocentrica).

 

Nel caso di Bomarzo, tuttavia, sembra sia mancata una generale ‘acutezza’ di visione, di capacità di penetrazione del problema, probabilmente offuscata da uno stratificato e persistente accumulo di preconcetti e luoghi comuni.

 

Va ancora bene quando le mani degli uomini costruiscono le piramidi, quando si scavano canali e si fanno boschetti per gli dei…’. Così il citato Ipuwer, notabile egizio vissuto intorno al 2100 a.C., riferiva in un passo delle sue ‘Lamentazioni’, allorquando si assisteva al crollo dell’Antico Regno ed alla conseguente crisi economica e sociale del cosiddetto ‘Primo Periodo Intermedio’.

 

La vetusta tradizione dei boschi e delle piante sacre, diffusasi anche in Grecia e nel Vicino Oriente antico – un valido riferimento è l’Asklepieion dell’isola di Kos con annesso bosco sacro - poi confluita nel ‘lucus’ e ‘nemus’ in ambito etrusco-romano e, in genere, italico, può essere assunta come punto di partenza per tentare una ricostruzione di questo variegato ‘mosaico’, giuntoci alquanto lacunoso e frammentario dopo una serie di complesse vicende storiche. E’ proprio l’attributo della ‘sacralità’, piuttosto che del ‘meraviglioso’ o del ‘mostruoso’ - categorie con cui viene in genere connotato il sito in esame - ad indicare una diversa direzione di ricerca.

 

A prospettare l’ipotesi di una destinazione cultuale del sito era stata l’individuazione e la segnalazione alla competente Soprintendenza Archeologica, già nel 1983, di alcune testimonianze di ‘arte rupestre’ consistenti in vaschette, canaline, fossette o ‘coppelle’, ricavate direttamente nella pietra locale, il peperino, e distribuite in modo apparentemente casuale nell’area del Bosco Sacro. Tali lavorazioni, di difficile datazione, rinviavano comunque a pratiche religiose di età preistorica e protostorica, includenti l’offerta di vittime sacrificali alla divinità.

 

L’ipotesi dell’esistenza a Bomarzo di un antico santuario veniva ulteriormente confermata, qualche anno dopo, dal rinvenimento fortuito di due grandi massi con tracce di lavorazione - uno dei quali chiaramente adattato ad altare sacrificale e dotato di letto di deposizione funebre – e con la chiara rappresentazione di simboli astrali incisi sul prospetto principale, databili tra l’Eneolitico e il Bronzo Antico, ossia approssimativamente tra quarto e terzo millennio a.C.

 

I confronti istituiti con altri siti archeologici, in relazione sia alla tipologia e cronologia dell’arte rupestre, sia alle affinità toponomastiche – ad esempio il ‘colle sacro’ di Bonnannaro in Sardegna, quello di Luine in Valcamonica, le cime Bo e Momarzo nel Biellese - hanno fornito ulteriori importanti elementi a favore dell’ipotesi in esame.

 

Ma un’altra questione si poneva subito all’attenzione: quali relazioni potevano esistere tra le preesistenze archeologiche prima descritte e le creazioni in pietra attribuite a Vicino Orsini?

 

Era possibile che le sculture realizzate dal duca si fossero ispirate ad eventuali formazioni geologiche presenti nel parco, aventi sembianze antropomorfe o zoomorfe?

 

Nella ricerca di possibili elementi di continuità tra le età antiche e la fase rinascimentale del Bosco Sacro, emersero ben presto nuovi dati, che ribadivano l’ipotesi di una sua prolungata destinazione cultuale. Infatti, l’identificazione di caratteri etruschi, incisi sulla superficie di alcune sculture, suggeriva una evidente retrodatazione non solo del sito in quanto tale, ma delle stesse opere di scultura e di architettura disseminate nel parco. Le raffigurazioni di divinità e di eroi semidivini, come la coppia di giganti in lotta - Ercole e Caco, oppure Ercole e Anteo - databile tra il III ed il I secolo a.C., erano verosimilmente riferibili ad un ‘lucus’ di tradizione etrusco-romana, la cui denominazione si era miracolosamente conservata, attraverso la fase rinascimentale, fino ai nostri giorni.

 

Un ulteriore interessante riferimento, a tale proposito, poteva essere individuato nel racconto dell’ottavo libro dell’Eneide di Virgilio, con la descrizione dell’arrivo dell’eroe troiano alla reggia del re Evandro e l’incontro dei due capi presso l’antico altare eretto nel ‘bosco sacro’ a ricordo della vittoria di Ercole sul gigante Caco (Eneide, VIII 79-306) - episodio che trovava pertanto una precisa corrispondenza nel citato gruppo di giganti in lotta tra le sculture del parco di Bomarzo.

 

Circa i caratteri dell’alfabeto etrusco individuati sulla superficie di alcune sculture e leggibili con difficoltà, dato il loro cattivo stato di conservazione, la maggior parte delle iscrizioni sembra riferirsi allo scomparso ‘Fanu Veltune’, o ‘Santuario di Veltuna’, fondamentale centro di culto e di riunione delle genti etrusche, sede dell’annuale concilio dei rappresentanti delle grandi città-stato, come Tarquinia, Cere, Volsinii. Secondo la testimonianza di autorevoli fonti, presso tale santuario si svolgevano feste religiose, gare sportive, nonché atti politici ed amministrativi, come l’elezione della suprema carica politico-religiosa della nazione etrusca, lo ‘zilath’.

 

Si potrebbe quindi sostenere che proprio l’equivoco storico, prodottosi molti secoli dopo con l’insediamento della famiglia Orsini a Bomarzo e l’attribuzione della progettazione e dell’esecuzione del complesso al duca Vicino Orsini, avrebbe contribuito ad occultare e a cancellare, in modo quasi irreversibile, il ricordo del massimo santuario d’Etruria – quello che si potrebbe forse definire un caso di ‘falso’ al contrario. Risulta invece verosimile assegnare l’esecuzione della maggior parte dei manufatti esistenti nel Bosco Sacro alla fase finale della produzione artistica etrusca.

 

In particolare, tali opere si daterebbero, come già accennato, tra il III ed il I secolo a.C., arco temporale ricadente nell’età ellenistica, durante la quale la ormai decadente civiltà etrusca mostrava, nelle sue residue espressioni artistiche, un costante ricorso a simbologie legate al mondo ultraterreno quale conseguenza del declino economico e sociale della nazione etrusca in seguito alla sconfitta militare e all’occupazione dei propri territori da parte dell’inarrestabile potenza romana.

 

Non a caso un intervento dell’architetto Giuseppe Zander al convegno ‘I Farnese: trecento anni di storia’, svoltosi a Gradoli nell’ottobre 1987 e pubblicato nel Bollettino del Centro Studi e Ricerche sul Territorio Farnesiano nel 1990 (nn.7 e 8 dei ‘Quaderni di Gradoli’) - testo quasi mai citato dagli studiosi di Bomarzo - aveva come tema ‘Le statue nei giardini secondo la consuetudine romana. Il rinnovarsi di una tradizione antica al tempo dei Farnese’. Egli individuava nelle sculture all’aperto di Bomarzo una inconfondibile iconografia di impronta classicheggiante e la presenza di una ‘forte tradizione antica’.

 

Nel corso degli studi e delle ricerche sulle realizzazioni di Bomarzo, si era osservato che i temi dell’oltretomba e le figure demoniache rinviavano, a loro volta, ad un importante ‘topos’ della tradizione classica e medievale: il viaggio agli inferi. Così, la compresenza a Bomarzo del tema infernale e del Bosco Sacro giustificavano un ulteriore confronto con quella che viene generalmente considerata l’opera fondamentale della letteratura italiana: la ‘Commedia’ dantesca, o ‘Divina Commedia’.

 

Nonostante la comparazione apparisse a prima vista improbabile, tuttavia, le analisi e le successive verifiche sul campo, inclusa l’esplorazione dei luoghi in prossimità del parco, hanno via via prodotto risultati sempre più importanti e convincenti.

 

Infatti, la morfologia dei luoghi esplorati nel raggio di una dozzina di chilometri, le caratteristiche ambientali, geologiche e idrogeologiche, le relazioni spaziali in termini di distanze, dislivelli, pendenze, hanno trovato una sorprendente corrispondenza con gli ambienti e le situazioni narrate nella prima cantica del poema dantesco, ossia il viaggio attraverso la valle infernale.

 

Sono così risultati oggettivamente localizzabili e fisicamente percepibili molti elementi descritti da Dante, come la città di Dite, corrispondente al teatro romano di Ferento, gli ‘avelli’, visibili come sarcofagi nello stesso teatro, il fiume infernale Flegetonte, coincidente con i torrenti Acqua Rossa e Vezza, i giganti Nembrot e Fialte, corrispondenti al Nettuno con cornucopia e l’Ercole del già menzionato gruppo scultoreo.

 

L’ipotesi dell’esistenza di un percorso reale e documentabile del viaggio dantesco, relativamente alla prima parte del poema, darebbe coerentemente ragione dell’indiscusso realismo attribuito appunto alla prima cantica.

 

Ma è soprattutto l’improvvisa apparizione dei ‘colossi di pietra’ del Bosco Sacro, appartenuti all’antico santuario etrusco nella sua fase finale, successiva alla distruzione delle duemila statue bronzee che lo decoravano, a giustificare lo stupore del poeta, il riferimento alla ‘mirabile visione’ e l’insorgere del tono profetico, che ricorre apertamente in molti passi del poema.

 

Sotto questo profilo, dunque, il contenuto narrativo della Commedia dantesca assume un significato ed un valore alquanto diversi da quelli tradizionalmente ad essa attribuiti, mentre viene notevolmente evidenziato lo sforzo di adattamento del dato reale, oggettivo, alle esigenze dei contenuti poetici, filosofici, morali, scientifici.

 

Ma i riferimenti letterari delle sculture di Bomarzo sembrano andare anche al di là dello stesso poema dantesco, interessando, oltre le numerose opere letterarie analizzate da Calvesi, testi medievali quali l’anonimo ‘Liber Mostrorum’, databile al IX secolo, o il citato ‘Solarljod’ della letteratura scandinava, o ancora l’originale componimento quattrocentesco del frate Francesco Colonna, la ’Hypnerotomachia Poliphili’, opera spesso citata come potenziale fonte di ispirazione del Bosco Sacro e che invece, nella prospettiva qui suggerita, andrebbe a collocarsi tra le opere letterarie dedicate a questo incredibile ed enigmatico sito, la cui identità pertanto risulterebbe tanto deformato e snaturato da scomparire dalla memoria storica dell’uomo contemporaneo.

 

Ulteriori conferme alla validità delle interpretazioni e delle ipotesi ricostruttive, qui formulate, sono scaturite recentemente dall’individuazione e comparazione di vari elementi, afferenti a diversi ambiti di ricerca - ma sempre tra loro strettamente interrelati - che si possono schematizzare e raggruppare nei seguenti settori di indagine:

 

a) toponomastica. L’idronimo ‘Vezza’, che designa il già menzionato torrente che attraversa il territorio di Bomarzo, è chiaramente confrontabile con l’etrusco ‘Velzna’, originaria denominazione della città di Volsinii, oggi arbitrariamente localizzata ad Orvieto insieme al santuario pan-etrusco di Veltuna. In quest’ultimo termine, inoltre, le due sillabe finali ‘tuna’ rinviano alla forma nominale ‘tina/tuna’, segnalata dal linguista e antropologo americano Merritt Ruhlen come forma comune alla maggior parte delle lingue amerindie col significato di ‘figlio, bambino’, a sua volta riconducibile ad una delle ‘radici universali’ individuate dallo stesso Ruhlen nella maggioranza delle famiglie linguistiche del mondo, cioè ‘tik’, che vale ‘uno, dito’. Così, tra l’altro, è possibile ipotizzare un apparentamento se non una identificazione delle due principali divinità etrusche, appunto il citato ‘Veltuna’ e l’enigmatico ‘Tinia’ - assimilabile allo Zeus greco – in quanto teonimi equivalenti sia per gli aspetti linguistici (a meno della sillaba iniziale) sia per i loro attributi e la posizione preminente che occupano nel pantheon etrusco.

 

b) iconografia. Un utile raffronto è stato istituito tra i segni incisi sul grande masso preistorico, prima descritto, caratterizzato da simboli astrali e da un ‘letto funebre’ ottenuto lavorando direttamente la pietra ‘in situ’, e l’iconografia di alcuni sigilli e tavolette del III millennio a.C. dalla Valle dell’Indo (Harappa, Mohenjodaro) con analoghi simboli astrali interpretati quali segni della ‘regalità’. Ciò confermerebbe l’esistenza nel Lazio della antichissima tradizione dei boschi sacri, all’interno dei quali sarebbero avvenute sfide cruente e riti funebri collegati alla conquista della sovranità attraverso il duello tra i due pretendenti alla massima carica politica e religiosa, secondo un diritto consuetudinario rintracciabile alle radici del costume italico.

 

c) archeologia. Resti di un interessante monumento di età etrusco-romana a pianta quadrata sono chiaramente visibili alla base del campanile della chiesa parrocchiale di Bomarzo, in pieno centro storico e a pochi passi dal ‘Castello’, o ‘Palazzo Orsini’ - normalmente considerato la parte alta della ‘Villa Orsini’ con annesso giardino rinascimentale. Pur costituendo una testimonianza di particolare importanza per la datazione e l’interpretazione tanto del centro abitato situato sul colle quanto del complesso storico-artistico posto a valle, essi tuttavia risultano spesso ignorati da quanti si occupano di Bomarzo. Analogo scarso interesse hanno suscitato i resti di un cospicuo tratto di mura urbane, anch’essi ben visibili lungo la strada comunale che conduce verso la frazione di Mugnano e l’alveo del Tevere: strutture rilevate e segnalate alla competente Soprintendenza Archeologica e da attribuire verosimilmente al citato insediamento etrusco di Velzna/Volsinii. Un’altra porzione del primitivo abitato etrusco è invece localizzabile sulla vicina collina di Pianmiano, dove vecchi e nuovi scavi hanno accertato l’esistenza di un insediamento a partire almeno dal VI secolo a.C.

 

d) architettura. Il cosiddetto ‘tempietto di Giulia Farnese’, anomala costruzione il cui basamento è stato ottenuto modellando la pietra locale ‘in situ’, in analogia con le circostanti sculture del parco ed il menzionato masso preistorico, è costruito integralmente con materiali lapidei locali e non presenta i caratteri dell’edificio sacro rinascimentale. La pianta mostra i rapporti metrici canonici del tempio tuscanico descritto da Vitruvio. Nel pavimento della piccola cella interna è stata rilevata e fotografata una ‘fossetta votiva’, interpretabile come ‘bothros’ o ‘mundus’ per offerte agli dei inferi, poi riempita di malta cementizia dai proprietari del complesso. La costruzione incarna piuttosto un modello di edificio religioso di età ellenistica, il cui prospetto principale mostra un timpano triangolare ‘sfondato’ in modo caratteristico da un arco a tutto sesto, secondo una tipologia detta ad ‘arco siriaco’ che si ritrova comunemente in edifici religiosi o di pubblica utilità del Mediterraneo orientale in età ellenistica e romana (tempio di Bargylia in Caria, attuale Turchia; ginnasio di Sardi; tempio di Adriano ad Efeso; tombe rupestri di Petra in Giordania; tempio delle Muse a Cirene, in Libia; peristilio del Palazzo di Diocleziano a Spalato).

 

e) geomorfologia. Il lungo crinale montuoso, alla cui estremità sorge il centro storico di Bomarzo con la caratteristica mole del Castello o Palazzo Orsini, risulta attualmente interrotto per oltre 200 metri di lunghezza, pur costituendo in origine una formazione geologica unitaria, come infatti rivelano le curve di livello riportate sulle carte topografiche dell’IGM - circa 300 metri s.l.m. - dove si osserva una pendenza piuttosto costante lungo lo sviluppo di tale crinale. Lo sbancamento di centinaia di migliaia di metri cubi di roccia deve essere stato dettato da esigenze di difesa militare e soprattutto di isolamento della porzione terminale del crinale, sagomata a roccaforte con alte pareti a strapiombo, tali da assicurare una elevato grado di difendibilità. La natura artificiale del ‘taglio’ è testimoniata da alcune tracce di estrazione di blocchi squadrati come quelli visibili nelle antiche cave di pietra. Una ulteriore conferma è costituita dalla imponente merlatura, chiaramente visibile nelle porzioni di collina rimaste libere dalle costruzioni aggiunte in epoche successive, ottenuta ‘a risparmio’ modellando la roccaforte durante la medesima fase di sbancamento della collina. Il progetto e l’esecuzione di tali interventi vanno indubbiamente attribuiti ad una organizzazione politica ed economica di gran lunga più potente di quella ascrivibile ad una ricca famiglia romana del Rinascimento.

 

f) letteratura. L’incipit della Commedia dantesca sembra racchiudere dati ‘spaziali’ oltre che ‘temporali’, giacché, insieme alla data del viaggio, fornirebbe indicazioni topografiche utili per individuare, ‘a metà del percorso tra Roma e Firenze’, quel bosco’ o ‘selva’ in cui il poeta può ‘ritrovare sé stesso’, dopo avere deviato dal ‘percorso rettilineo della via Cassia’. Tale interpretazione appare coerente con quanto già detto in merito alla presenza di Dante nel territorio compreso tra Viterbo e Bomarzo.

 

Infine, un indizio cruciale è forse desumibile dalla letteratura latina: l’elegia che Properzio dedica proprio al dio ‘Vertumno/Voltumna’, l’etrusco ‘Veltuna’, può fornire una traccia utile per localizzazione del suo santuario. Il ‘te, qui ad vadimonia curris’ del verso 57 dell’elegia, riferito stranamente ad un generico passante diretto al tribunale per un atto di comparizione, appunto in latino ‘vadimonium’, in realtà potrebbe rinviare, in modo più pertinente, ai riti che si svolgevano tradizionalmente presso il lago Vadimone, situato tra Orte e Bomarzo e ritenuto sacro dagli etruschi - come attestato da varie fonti latine - riti che nell’elegia verrebbero appunto definiti ‘vadimonia’, con il ricorso ad una ambigua parafrasi che fa pensare ad una sorta di ‘damnatio memoriae’ intervenuta nei confronti della località sede del principale culto etrusco.

 

A meno che Properzio non volesse, in realtà, tutelare chi frequentava ancora quei riti e venerava tale divinità ai tempi dell’occupazione romana, invece di ammetterne esplicitamente la sopravvivenza ed indicarne oggettivamente il sito.

 

Se così fosse, il modo in cui Properzio ne tratta e lo stesso fatto di aver dedicato una elegia a Vertumno farebbero pensare a qualche forma di coinvolgimento del poeta latino in tali culti.



 

 

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