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N. 29 - Maggio 2010 (LX)

GEOGRAFIA DANTESCA E REALTà DEL VIAGGIO
Geografia e cosmologia dantesca - parte iI

di Giuseppe Maiorano

 

È noto che le opere dell’Alighieri, e in particolare la Commedia, racchiudono un vasto insieme di nozioni scientifiche afferenti a varie discipline - geografia, astronomia, fisica, matematica - innestate su una solida base di cultura filosofica, da cui scaturisce una visione dell’Universo o ‘cosmologia’ in grado di contemperare cultura classica e sapere scientifico, di dominare settori del sapere tra loro distanti e talvolta apparentemente inconciliabili.

 

L’individuazione di un modello generale capace di spiegare la realtà fisica dell’Universo, la sua materia costitutiva, le relazioni geometriche e matematiche tra i corpi celesti, i loro movimenti e le regole che vi presiedono, è stata una costante ricerca dell'uomo sin dall’antichità. Principale riferimento nel medioevo era il celebre trattato di Tolomeo detto ‘Almagesto’ (II sec. d.C.), in cui, perfezionando i precedenti modelli messi a punto da Eudosso (IV sec. a.C.), Aristotele (IV sec. a.C.) ed Ipparco (II sec. a.C.), si era pervenuti ad un modello geocentrico complessivo dell’Universo, basato su una serie di sfere concentriche caratterizzate da velocità, cicli ed assi variabili, ma calcolati in modo da avvicinarsi alla realtà con notevole approssimazione.

 

Ciò consentiva, in sostanza, di prevedere le future posizioni dei corpi celesti, di costruire calendari e, in particolare, di fare valutazioni preventive sui possibili influssi posititi o negativi esercitati dagli astri sugli uomini e sulle vicende umane.


Uno dei principali problemi dell’astronomia antica era costituito dalla presenza di evidenti irregolarità nei movimenti dei pianeti, che, rispetto alle stelle, sembravano fermarsi o persino andare a ritroso (retrogradazione). Per risolvere tali difficoltà, insite nel sistema geocentrico, ogni pianeta si pensava fissato all’equatore della sfera corrispondente, quindi una combinazione di rotazioni eccentriche, di cicli ed epicicli di periodo variabile era in grado di giustificare le apparenti irregolarità.


Gli astronomi arabi, tra cui il già citato Alfragano, Albatenio, Alpetragio ed altri, elaborarono ulteriormente l’opera di Tolomeo, giungendo alla compilazione di tavole astronomiche di notevole precisione e fondando grandi osservatori astronomici a Bagdad e Damasco. In particolare Dante si rifà al modello elaborato da Alpetragio (Conv. II, V, 16; V.N. II, 1-2) dotato di grande semplicità ed insieme di grande esattezza, in cui si ammette l’esistenza di nove sfere concentriche, l’ultima delle quali, la più veloce, trasmette a quelle sottostanti il moto diurno da oriente ad occidente, mentre il fenomeno della retrogradazione è spiegato con una sorta di slittamento nella trasmissione della rotazione tra le diverse sfere (Conv. II, XIV, 10-11). Queste considerazioni generali sulla ‘cosmologia’ e, in particolare, sulla ‘astronomia’ in Dante, sono fondamentali per comprendere il viaggio che l’autore-attore Dante compie nell’aldilà e per seguirne la scansione spaziale e temporale, riferibile a spazi e tempi che risultano in definitiva realisticamente determinati.


In realtà, già verso la fine dell’800 e la prima metà del ‘900 una nutrita schiera di studiosi, astronomi e matematici, tra cui Angelitti, Capasso, Moore, si erano occupati della questione della corrispondenza tra i dati astronomici e cronologici desumibili dal poema e la reale situazione riscontrabile in un preciso momento storico ed una determinata posizione geografica, indicando due sole epoche in cui tale condizione può essere soddisfatta: la settimana dall’8 al 14 aprile 1300, oppure la settimana dal 25 al 31 marzo 1301. In tal senso la veridicità dei dati astronomici non fa che confermare la supposta realtà del viaggio e la verosimiglianza delle indicazioni topografiche riscontrabili nel testo: l’una senza l’altra non parrebbe aver senso, nè tale sforzo si giustificherebbe in base ad un semplice capriccio o esercizio di bravura, e ciò a maggior ragione se il viaggio fosse puro frutto della fantasia dell’autore ovvero ricordo di una improvvisa visione o di un sogno.


Topografia reale del viaggio ultraterreno


Prescindendo dalla distribuzione dei peccati e delle pene - la cosiddetta ‘topografia morale’, costruita secondo uno schema essenzialmente aristotelico - occorre affrontare un nuovo importante aspetto del viaggio ultraterreno descritto da Dante: l’effettiva e puntuale realtà geografica e topografica del percorso, sperimentabile dal vivo in un territorio precisamente individuato e, in effetti, sottoposto a verifiche pratiche ‘in situ’ già da più di una decina di anni.


La letteratura pagana delle discese agli Inferi, o ‘catabasi’, effettuate da mitici eroi quali Ercole, Orfeo, Ulisse, Enea - ma già presente nella mitologia sumera con il viaggio dell'eroe Gilgamesh - e quella cristiana delle visioni apocalittiche, dei viaggi e dei rapimenti mistici, tra cui l’Apocalisse di Giovanni, la Visione di S.Paolo, la Navigazione di S.Brandano, il Purgatorio di S.Patrizio, la Visione di Tundalo, il De Babilonia civitate infernali etc., o ancora il testo arabo del Libro della Scala, che narra la salita al cielo di Maometto ma contiene anche una breve descrizione dell’Inferno e delle sue pene, sono opere dalle quali, in varia misura, Dante potrebbe aver desunto elementi storici e geografici per la composizione del suo poema.

 

Esse tuttavia in nessun modo costituiscono la fonte primaria di ispirazione della Commedia, nè mostrano una struttura topografica ed una caratterizzazione geomorfologica assimilabili a quelle che si rilevano nel poema dantesco. Tale caratterizzazione ci induce piuttosto a prendere in seria considerazione le osservazioni fatte da Nardi, Neppi Modona e De Ruyt – in seguito rielaborate da Marthe Dozon - circa l'importante ruolo che la cultura etrusca, dominata dall'idea del viaggio ultraterreno dei defunti, ha avuto nella composizione della Commedia.
A tale proposito, la morfologia del territorio dell'alto Lazio è costituita essenzialmente da formazioni di origine vulcanica ricadenti in due importanti complessi, quello cimino a sud e quello vulsino a nord, con rilievi poco elevati, separati da vallate strette e scoscese.

 

Le caratteristiche geologiche, l'idrologia, la vegetazione, i colori, le trasformazioni antropiche - tra cui le tipiche tagliate etrusche e le suggestive necropoli rupestri - sono elementi che si possono ritrovare, con maggiore o minore evidenza in numerosi brani del poema, fino a costituire una sorta di ‘substrato latente’ che sembra attraversare tutta la prima cantica ed affiorare in più punti durante la narrazione. Non solo i boschi, le forre, i torrenti, le cascate, ma in particolare il fenomeno delle sorgenti minerali, legato all’origine vulcanica dell’area, hanno favorito l’interpretazione di alcune indicazioni toponomastiche – come ‘bulicame’ di Inf. XII, 117, Inf. XII, 128 e Inf. XIV, 79, e ‘acqua rossa’ di Inf. XIV, 134, località molto prossime a Viterbo - in modo tale da ricollegarsi alle ipotesi di carattere archeologico, formulate sul vicino ‘Bosco Sacro’ o ‘Parco dei Mostri’ di Bomarzo e sulla genesi delle sue sculture in pietra, come più avanti riferito.


L’itinerario si svolge, come già accennato, tra i centri abitati di Viterbo e Bomarzo, più precisamente tra l’area archeologica di Ferento-Acqua Rossa e il citato ‘Bosco Sacro’, lungo gli alvei dell’omonimo torrente Acqua Rossa e del torrente Vezza, affluente del Tevere, per una lunghezza totale di circa 16 Km.


La ricostruzione del percorso dantesco ha avuto quindi come capisaldi i suddetti siti, riconoscendo in essi, da un lato, l’omonima sorgente e cascata di acqua ferruginosa - ancora oggi utilizzata dagli abitanti del luogo – e, dall’altro, le sculture del Nettuno con cornucopia e dell’Ercole del gruppo di Ercole e Caco (o Ercole e Anteo) di Bomarzo, che coinciderebbero rispettivamente con le figure dei due giganti Nembrot e Fialte di Inf. XXXI, 70-96.


L’individuazione di ulteriori dati ed elementi topografici, geomorfologici e persino architettonici, descritti nel poema e riconducibili a concrete strutture presenti nel territorio - ad esempio il teatro romano di Ferento, corrispondente alla descrizione dantesca della Città di Dite (canti VIII, IX e X), oppure il vallone ed il suolo cosparso di membra spezzate di dannati (canti XXIX, XXXII e XXXIV) equivalente alla probabile dispersione di frammenti scultorei a Bomarzo in età medievale – hanno contribuito alla formazione di due ‘blocchi’ di canti dell’Inferno relativi a due realtà topografiche ben individuate, situate alle estremità est ed ovest del percorso, entro il quale i citati torrenti Acqua Rossa e Vezza costituiscono l’elemento di continuità, sia fisica che narrativa.

 

Tali blocchi sono costituiti dai canti VIII-XIV e XXIX-XXXIV, cui si sono poi aggiunti - relativamente al primo gruppo - i canti XVI e XVII, quelli che descrivono la fragorosa cascata presso cui appare il mostro Gerione, corrispondente alla cascata esistente in prossimità della sorgente dell’Acqua Rossa. Ottenuti così i blocchi VIII-XVII e XXIX-XXXIV, occorreva localizzare i canti iniziali e quelli intermedi, cioè rispettivamente il blocco I-VII e il blocco XVIII-XXVIII. Per questi ultimi, i principali riferimenti topografici sono stati individuati nella presenza e nella conformazione di massi, scogli e ponti antichi - ormai franati - utili per l’attraversamento dei corsi d’acqua, oltre che nelle oggettive difficoltà di avanzamento lungo tale percorso, che rispecchierebbero le difficoltà incontrate da Dante e dalla sua guida in questo punto del tragitto infernale.


Per quanto concerne i primi sette canti, va invece sottolineata in essi la mancanza di elementi collegabili in sequenza con l’itinerario descritto. Inoltre, la distribuzione sporadica e talora ripetitiva di alcuni di tali elementi (si vedano alcune evidenti ripetizioni: la descrizione dei corpi mutilati giacenti riversi al suolo, l’uscita dalla selva del peccato – l’Inferno stesso - e la salita verso la sommità del colle della grazia - il Purgatorio) sembra denunciare un fase primitiva di elaborazione del poema, in cui l’idea generale, oltre che priva di una struttura di tipo ‘itinerante’, appare ancora poco chiara e definita, se è vero che, ad esempio, in questa parte iniziale del poema è frequente il riferimento agli antichi spiriti (anche detti spiriti magni, donne antiche e cavalieri, etc.) che popolano in gran numero l’aldilà, mentre la presenza di personaggi moderni, cioè contemporanei o quasi a Dante, è ridotta a tre figure: Paolo, Francesca e Ciacco. In sostanza, Dante non ha ancora maturato l’idea di strutturare la sua opera, oltre che come espressione di alta poesia, anche come originale ‘strumento’ di riscatto e di difesa dalle accuse e dai torti subiti, nonché come potente mezzo di redenzione etica e politica della società a lui contemporanea, quale appunto diventerà l’opera nella successiva fase di elaborazione.


La concordanza di queste ipotesi con la tradizione della composizione dei primi sette canti dell’Inferno a Firenze, prima dell’esilio, costituisce un ulteriore elemento a favore della nuova interpretazione del viaggio dantesco, qui proposta, e può dare maggiore credibilità anche ad altri documenti trascritti dal Boccaccio, come la citata ‘Epistola di frate Ilaro’, da cui si può tra l’altro desumere che l’originaria concezione del poema prevedeva l’uso del latino al posto del volgare.


Il tanto celebrato ‘realismo dantesco’, pertanto, non risulterebbe solo frutto delle capacità creative dell’autore, ma una caratteristica naturale ed intrinseca alla narrazione, in quanto ispirata e riferita ad un evento realmente accaduto, sebbene interpretato e trasfigurato poeticamente. Anche il realismo dei dati astronomici e dei relativi riferimenti temporali - che daterebbero oggettivamente il viaggio alla primavera del 1300 o del 1301, come prima accennato - assumerebbe una valenza diversa, caricandosi di un effettivo valore di ‘documento’ rimasto finora piuttosto sottovalutato.
Analogamente, le indicazioni metriche riportate nei canti XXIX e XXX, ossia le 22 miglia di circonferenza della nona bolgia e le 11 miglia della decima, appaiono incongruenti con la struttura conica dell’imbuto infernale, indicando un raddoppio delle misure dei raggi e delle circonferenze di anelli infernali contigui - a meno di non trasformare radicalmente la stessa stereometria dell’Inferno.


Infine, le misure espresse nel canto XXX risultano incompatibili con la conformazione ad anello della stessa bolgia, riportando una dimensione trasversale approssimativa di mezzo miglio (Inf. XXX, 86-87) rispetto all’asse longitudinale di ben 11 miglia. La forma che così si ottiene è quella di un lunghissimo ovale a forma di ‘sigaro’...

 

È evidente che ciò traduce emblematicamente - qui come altrove - le difficoltà di traduzione e trasposizione di dati reali in termini più astrattamente allegorici e simbolici.


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