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N. 81 - Settembre 2014 (CXII)

Cecilia o la Dama con l’ermellino
abbigliamento e iconografiA: Nuove scoperte - Parte I

di Elisabetta Gnignera

 

Il presente saggio, edito in anteprima assoluta in questa sede, è stato redatto tra l’ottobre 2012 e il gennaio 2013 sulla base delle nuovissime scoperte di Pascal Cotte rese note nel volume dal titolo Lumière on The Lady with an Ermine (edizione inglese) / Lumière sur La Dame à l’Hermine (edizione francese), Vinci Editions.

 

Nel volume di Cotte, vengono appunto illustrate le numerose scoperte emerse grazie alla sofisticatissima tecnica di scansione e analisi multispettrale delle immagini, definita come Layer Amplification Method (LAM) e utilizzata dal laboratorio Lumière Technology Multispectral Institute, Genève-Paris di cui Cotte è direttore scientifico e socio insieme a Jean Penicaut. Tale tecnologia, ideata da Cotte, consente di vedere “strato per strato”, qualsiasi traccia rilevabile sotto la superficie pittorica esterna come ad esempio: modifiche, cancellature, presenza di spolvero (tecnica usata per riportare un disegno tracciato su un foglio di carta su un’altra superficie) etc.

 

Sulla base delle scoperte che Pascal Cotte mi ha sottoposto nel corso di circa due anni di studi condivisi, ho potuto elaborare (oltre ad una serie di contributi vestimentarii (relativi cioè all’ abbigliamento) ai quali rimando, in quanto riferiti tra l’altro, a nuovi dettagli di costume scoperti da Cotte e preesistenti alla versione definitiva del dipinto (Cotte, 2014, pp. 21-23, 78 -87, 171, 178, 182, 217), una circostanziata tesi suffragata da puntuali riferimenti documentari, circa la possibile e originaria ispirazione iconografica, sottesa alla versione finale del dipinto de La Dama con l’ermellino.

 

Stando alle recenti scoperte di Pascal Cotte, la versione nota del dipinto, rappresenterebbe infatti il risultato finale di alcune revisioni e rifacimenti da parte di Leonardo, tra i quali, Cotte annovera la successiva aggiunta di un esemplare della famiglia dei mustelidi (donnola? Furetto?) poi mutato in ermellino, la cui dimensione e posizione fu modificata in fieri dal Maestro toscano. Il presente saggio edito qui in tre parti in anteprima assoluta, costituisce pertanto la versione integrale dell’estratto sintetico dal titolo Summary for dating Conclusions by Elisabetta Gnignera incluso alle pagine 276-78 del volume di Cotte: Lumière on The Lady with an Ermine (edizione inglese)/Lumière sur La Dame à l’Hermine (edizione francese).

 

Analizzando il costume de La Dama con l’ermellino e tenendo anche conto delle tracce di dettagli abbigliamentari preesistenti rispetto all'ultima versione conosciuta del dipinto (Cotte, 2014, p.114, 118, 146, 158-159, 164-165, 170-182, 201-204) si può affermare che sia l'acconciatura, sia gli abiti, risentono delle fogge in voga presso la corte milanese nel decennio 1490-1499; in generale per quanto riguarda la versione definitiva dell'opera, ritengo di poter collocare almeno intorno al 1491 e/o a seguire, i dettagli di costume raffigurati, essendo appena precoce, per la versione definitiva dell'opera, la datazione (generalmente proposta) agli anni 1489-1490.

 

Nonostante la compresenza dell’acconciatura di matrice spagnola detta trenzado (in uso anche alla corte di Napoli), e del manto, sempre di matrice spagnola, conosciuto in Italia come sbernia ed indossato alla moda spagnola su una sola spalla – come era d’uso nelle occorrenze celebrative, e come raffigurato nel ritratto di nostra pertinenza – mi inducano a proporre il 1491, anno di ingresso di Beatrice d’Este alla corte sforzesca, quale spartiacque vestimentario che segna la adozione diffusa e definitiva di tali fogge presso la corte milanese, non possiamo non tenere conto del fatto che Cecilia Gallerani, nei mesi intercorsi tra l’ arrivo di Isabella d’Aragona (gennaio 1489) e quello di Beatrice d’Este (gennaio 1491) presso la corte sforzesca, pare avesse adottato quasi istantaneamente alla loro comparsa, quelle fogge abbigliamentarie di matrice spagnola cosiddette alla catalana che comprendevano presumibilmente la sbernia, il coazzone (la lunga coda o treccia di capelli) ed il trenzale (il velo o la rete che avvolgeva il coazzone).

 

Di ciò ci dà notizia il corrispondente estense Giacomo Trotti secondo cui Isabella d’Aragona pare fosse così ben disposta verso Cecilia Gallerani durante i primi mesi della sua permanenza a corte, da volerla abbigliata alla catalana: «Questa duchessa (Isabella) l’ha vestita alla catalana e la tene (tiene) in palma di mano», scrive il Trotti (Pizzagalli, 2008, p.84). Pertanto, Cecilia Gallerani, rappresenterebbe una “privilegiata” che ha potuto fregiarsi sicuramente in anticipo, rispetto ad altre dame, di tali fogge di matrice spagnola (coazzone, trenzale e sbernia) raffigurate nel dipinto e adottate alla corte aragonese di Napoli ancora prima del 1491 quando, la loro adozione in area milanese è ancora occasionale perché legata alle mode spagnoleggianti importate da Isabella d’Aragona, la quale entrò alla corte sforzesca nel gennaio del 1489 appunto, in occasione del suo matrimonio con Gian Galeazzo Sforza. Successivamente, a partire dal gennaio 1491, con l’ingresso di Beatrice d’Este, possiamo dire, usando termini attuali, che quello che era un trend, una tendenza nell’abbigliamento, diventa invece una vera e propria moda.

 

Coerentemente alla elaborazione di una ipotesi plausibile di datazione, ritengo inoltre opportuno esporre delle riflessioni complementari a riguardo della singolare scelta iconografica operata da Leonardo da Vinci nel ritrarre (la presunta) Cecilia Gallerani. Grazie alle fondamentali evidenze messe in luce da Pascal Cotte riguardo alla successiva aggiunta e ai rifacimenti vari dell’ ermellino (Cotte, 2014,pp. 147-154, 208-216), ho potuto riconsiderare più dettagliatamente i simbolismi sottesi alla rappresentazione di esemplari della famiglia dei mustelidi quali furetti e donnole.

 

Secondo Pascal Cotte, infatti, la iconografia definitiva, ovvero l’ultima versione conosciuta della Dama con l’ermellino, appare essere stata modificata in precedenza, in quanto, se la primissima versione del dipinto era priva di qualsiasi animale e più simile ad un ritratto di corte tout court [Figura 1], una delle versioni successive – così come messa in luce da Cotte – presentava, al posto dell’ attuale ermellino, un esemplare della stessa specie ma di dimensioni ridotte.

 

Tale esemplare, avrebbe a mio avviso potuto racchiudere un preciso riferimento ad un episodio mitico che, se debitamente traslato nelle vicissitudini della corte sforzesca sullo scorcio del Quattrocento, sarebbe stato forse troppo scopertamente allusivo delle vicende in corso in quel momento presso la corte stessa. Mi riferisco al progressivo allontanamento di Cecilia Gallerani, la quale, in veste di amante e madre di un figlio naturale di Ludovico (Cesare Sforza Visconti), rappresentava una “presenza” imbarazzante a corte e la cui “marginalizzazione”, sotto l’impulso di Beatrice d’Este, sarebbe stata messa in luce proprio da una scelta iconografica ben precisa, alludente ad alcune versioni del medesimo mito greco della Nascita di Ercole, riecheggiate sia nella Iliade di Omero (Iliade 19,100 ss.), che nella metamorfosi ovidiana di Galanthis: giovane fantesca trasformata in donnola così come narrato da Ovidio sempre in relazione all’episodio della Nascita di Ercole (Ovidio, Metamorfosi, 9, 281-323).

 

Differenti versioni di tale mito, concorrono a creare indicativamente il seguente “plot” (trama) funzionale, a mio avviso, a veicolare il messaggio iconografico di Leonardo da Vinci: Zeus, afflitto dalle miserie che minacciavano il genere umano, decise di procreare un eroe, che potesse salvaguardare gli uomini.

 

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Figura 1

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Simulazione grafica di una delle prime versioni del dipinto, quando era assente l’animaletto poi inserito e modificato nelle dimensioni e nella posizione, prima di approdare alla versione definitiva del dipinto. Questa simulazione grafica è basata sulle scoperte di Pascal Cotte, rese note nel volume Lumière on The Lady with an Ermine (edizione inglese) / Lumière sur La Dame à l’Hermine (edizione francese), Vinci Editions. Immagine: courtesy Pascal Cotte

 

Come madre di questo eroe scelse Alcmèna “la forte”, che sorpassava tutte le donne di allora per la bellezza del volto e per la robustezza del corpo. Alcmèna era sposa di Anfitrione, re di Tirinto, e nipote perciò di Perseo. Zeus si recò a Tebe per vedere la bella Alcmèna, in esilio con il marito nella città perché bandito dal suo regno e, prendendo le sembianze di Anfitrione, riuscì nell’intento di unirsi ad Alcmèna, procreando in questo modo Eracle (l’Ercole romano). Nei giorni appena precedenti il parto di Alcmèna, Zeus aveva proclamato apertamente a tutti gli altri dèi: Ascoltatemi dèi e dee, che io possa esprimere ciò che il cuore mi detta! Oggi Ilizia, la dea protettrice dei parti, farà venire alla luce un uomo del mio sangue, che regnerà su tutte le genti limitrofe! (Iliade, 19, 100ss).

 

La moglie Hera, fingendo di non credervi, fece giurare a Zeus che “l’uomo del suo sangue”, nato in quel giorno, e caduto ai piedi di una donna, avrebbe realmente regnato su coloro che gli stavano intorno. Zeus, non intendendo l’astuzia, giurò.

Dunque Hera, protettrice dei parti, lasciò in fretta l’Olimpo e si recò ad Argo dove Nicippe, figlia di Pelope e moglie di Stenelo, figlio di Perseo, era al settimo mese di gravidanza. Le fece partorire il figlio prematuramente e fece ritardare le doglie ad Alcmèna. Dopo aver allontanato da Alcmèna, Ilithyia, la dea della nascita, annunciò a Zeus che era nato l’uomo che avrebbe regnato su tutti gli Argivi: Euristeo, figlio di Stenelo. Allora Zeus afferrò per i capelli Ate, la dea dell’ inganno, e la scagliò giù dall’Olimpo, in mezzo agli uomini.

 

Nonostante l’inganno perpetrato, secondo la credenza, pare che Eracle venisse alla luce comunque in quello stesso giorno. Nel vestibolo del palazzo in cui giaceva Alcmèna con le doglie, in compagnia delle tre Moire: le dee del destino di ogni uomo, che tenevano le gambe incrociate e le mani posate ferme sulle ginocchia per impedire ad Alcmèna di partorire, passò improvvisamente di là una donnola. Le dee si spaventarono, alzarono le mani e ciò che era occluso si aprì...

 

Alcmèna allora fece uscire da sé Eracle ed Ificle: figlio di Anfitrione e più giovane del suddetto di una notte. Infine, secondo una delle varie versioni del mito, Zeus ed Hera concordarono che Euristeo fosse il Signore dell’Argolide e che Eracle sarebbe stato in suo servizio fino al compimento per lui di dodici fatiche: dopo ciò avrebbe ottenuto l’immortalità che gli spettava.

 

In quanto alla trasformazione di Galanthis (o Galinthia, dal greco galè/donnola) in donnola, secondo una delle versioni del mito greco, si tratterebbe della bionda serva di Alcmèna che la assistette, durante la gestazione di Eracle. Per volere di Hera – gelosa della futura nascita di Eracle – il parto di Alcmèna viene ostacolato da Ilithyie, la dea della nascita, e dalle tre Moire, le quali impedivano fisicamente ad Alcmèna di partorire. Galanthis, riuscì a salvare la sua padrona Alcmèna facendo credere alle dee che il parto fosse avvenuto.

 

Còlte dalla sorpresa, le Moire ritrassero le loro mani, permettendo ad Alcmèna di partorire. Le dee (ma secondo altre versioni, la stessa Hera...) si vendicarono con Galanthis dell’inganno subito, trasformandola in donnola.

 

La trasformazione di Galinthia in donnola, narrata nel mito greco, viene riproposta in parte modificata, nelle Metamorfosi di Ovidio dove è soprattutto il riso di Galanthis, a provocare la rabbia della dea: Galanthis, vedendo la dea Lucina con le dita intrecciate sulle ginocchia, le annuncia che Alcmèna ha appena partorito. La sorpresa fa sciogliere le mani a Lucina cosicché anche Alcmèna si possa immediatamente liberare e sgravare. Compiaciuta del buon esito del suo stratagemma, Galanthis ride: e la dea, inesorabile, si vendica su di lei, trasformandola in una donnola.

 

è bene sottolineare come proprio le Metamorfoseos di Ovidio, appaiano del resto, tra i testi posseduti da Leonardo da Vinci ed elencati nel Codice di Madrid II (1503-1505) ai fogli 2v-3r sotto la dicitura: “Ricordo de’ libri ch’io lascio serrati nel cassone” (Vecce, 1992, pp. 257-61).

 

Proprio in Ovidio, nell’episodio relativo alla nascita di Ercole, è presente l’eco di un’antica credenza, secondo la quale la donnola concepisce per mezzo dell’orecchio e partorisce dalla bocca: oltretutto, la persistenza letteraria di tale, antica simbologìa, è attestata ad esempio, in un passaggio contenuto nel poema Mondo Nuovo, di Tommaso Stigliani stampato a Roma nel 1628 dove si legge: Perché sì come mal può far difesa / Co’ piè il leone, e coll’armata bocca: / Poiché segli è dentro l’orecchio appresa / La donnola, che’l cerebro gli tocca... (Stigliani, 1628, p.69, corsivo mio).

 

Tale, radicata credenza, è alla base della successiva analogia con la Vergine Maria di cui la donnola divenne l’allegoria; infatti, se Galanthis, per mezzo di parole menzognere (recepite dalle dee attraverso le orecchie), ha aiutato a partorire Alcmèna, la Vergine Maria, attraverso le parole dell’Angelo accettò di concepire il figlio di Dio.

 

L'evidente affinità della posa della Dama con l’ermellino con quella ascritta tradizionalmente – specie nella tradizione figurativa toscana e, in particolare, in quella fiorentina [Figura 2] – alle Vergini annunciate in ascolto dell’angelo annunciante (ma in una posizione meno consueta rispetto a quella assunta dalle Vergini annunciate: ovvero rivolta verso la destra e non verso la sinistra dell’ osservatore...) sembra essere stata còlta – ma inconsapevolmente – anche dal fiorentino Bernardo Bellincioni, poeta di corte e autore del sonetto Sopra il ritratto di Madonna Cecilia, qual fece Leonardo, composto entro il 1492 anno della sua morte: [...] L’onore è tuo, sebben con sua pittura / La fa che par che ascolti e non favella: [...] (Bellincioni, 1876, I, sonetto XLV,p. 72, corsivo mio), scrive il Bellincioni a proposito del ritratto della Gallerani.

 

Ai conoscitori della temperie culturale propria delle corti italiane del Quattrocento maturo, non può

sfuggire quanto, questa ipotesi di una colta “riattualizzazione” del mito, incontri il gusto dell’ epoca per i motti, i rebus e i giochi di parole, così cari al coevo milieu nobiliare ed intellettuale. Dei “rebus figurativi” sparsi nei manoscritti di Leonardo si è altrove e autorevolmente parlato, riferendosi a «una serie nutrita di brevi successioni di icone i cui significati primari degli oggetti rappresentati danno luogo ad un testo di senso compiuto e di significato affatto diverso, quel che oggi potrebbe essere chiamato “rebus” [...].

 

Il metodo delle invenzioni di Leonardo è, per così dire, più scientifico: vengono rappresentati oggetti di ben delimitati ambiti semantici: gli animali e le piante dei bestiari e degli erbarii [...].

 

Resta aperta la questione della finalità dei “rebus” di Leonardo, e della loro effettiva utilizzazione. Oltre il puro e semplice divertimento privato, possiamo leggere in quell’unione ingegnosa di icone un gioco collettivo, attuato nello spazio della corte, affine al gioco degli enigmi, degli indovinelli, scambiati con biglietti e cartigli [...]» (Vecce, 1995, pp. 174-175).

 

Decodificando, grazie alle scoperte di Pascal Cotte, quello che era forse l’originale intento dell’artista di dipingere una donnola, della stessa famiglia e molto simile all’ermellino, ma più minuta dello stesso, [Figura3] lo “svolgimento”della narrazione dal punto di vista simbolico sarebbe sorprendentemente dirompente e pericolosamente allusivo.

 

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Figura 2

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Guido di Pietro Trosini (noto come Beato Angelico), dettaglio della Vergine annunciata dalla Annunciazione, 1440-50, affresco. Firenze, convento di San Marco. La postura della Vergine in ascolto dell’angelo, di schietta tradizione toscana, ricorda da vicino quella – specchiata –della Dama con l’Ermellino nella versione iniziale senza ermellino scoperta da Pascal Cotte [Fig. 1]

 

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Figura 3

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Simulazione grafica della presenza di un “piccolo” animale della famiglia dei mustelidi (donnole, furetti, ermellini...) più piccolo di quello raffigurato nella versione definitiva del dipinto e basata sulle scoperte di Pascal Cotte, rese note nel volume Lumière on The Lady with an Ermine (edizione inglese)/Lumière sur La Dame à l’Hermine (edizione francese), Vinci Editions. Immagine: courtesy Pascal Cotte

 

Accogliendo apertamente in questa sede l’ipotesi, espressa in primis da Charles J. Holmes, l’ allora editor del Burlington Magazine, (in seguito direttore della National Gallery di Londra) in una nota editoriale aggiunta all’articolo di A. Edith Hewett, A Newly Discovered Portrait by Ambrogio de Predis, apparso nel Burlington Magazine for Connoisseurs del febbraio 1907 dove così scriveva: «poiché la parola greca per furetto è γαλέη, non è possibile che l’animale fosse introdotto nel dipinto come gioco di parole, di gusto umanistico, sul cognome di Cecilia?» (per la traduzione italiana si veda: Pedretti, 1990,p.169), desidero sottolineare, a questo punto, la pertinenza di una eventuale ed enigmatica allusione figurativa di Leonardo da Vinci, alla donna-donnola (dal greco γαλέη /galè, donnola, appunto), la quale – distraendo il Moro evocato in chiave onomatopeica dalle “Moire” della versione greco-romana del mito – avrebbe consentito la nascita del figlio naturale, novello Ercole.

In questo caso la assonanza, o meglio la coincidenza talvolta, dei nomi dei protagonisti della vicenda mitologica con gli illustri personaggi che ruotano intorno alla figura storica di Cecilia Gallerani, ci porterebbe a formulare almeno due letture che rimandano non soltanto ad un preciso lasso di tempo in cui l’opera sarebbe stata concepita e terminata, ma, anche, a una temperie socioculturale ben delineata, in cui era in corso una vera e propria lotta di potere tra Beatrice d’Este, madre dell’erede legittimo e Cecilia Gallerani, amante del Moro e madre di Cesare, figlio naturale di Ludovico.

 

La prima lettura è a mio avviso, quella secondo cui la donnola del mito (assimilata forse a Cecilia Gallerani?) distraendo ovvero attirando a sé l’ attenzione del Moro (le Moire del mito), ha reso possibile la nascita del figlio Cesare (Eracle il vero eroe? Il primogenito? L’avente diritto alla primogenitura?).

 

Questa lettura sarebbe suffragata, a mio avviso, da un rimando interno al sonetto XX. Del Belincione per risposta all’ antecedente per le rime dove il Bellincioni, rispondendo retoricamente al sonetto precedente XIX. Al signor Lodovico di Paulo Jeronimo del Fiesco, in dialogo, pe il nascimento del signor Cesare, paragona Cesare ad un figlio di Giove, lo Zeus romano, di cui il dio Marte è invidioso; tale accenno ci consente di supporre che possa trattarsi proprio di Ercole in quanto il fratellastro Marte-Ares, figlio di Giove-Zeus e Giunone-Hera, è notoriamente uno dei principali nemici di Ercole-Eracle:

 

[...]

Non fur sì lieti insieme Enea e Dido,

Come l’arbor di Tisbe in la sua prole,

Con l’isola, la qual per l’onde sole,

Disse, da vostra Italia or mi divido.

Da Giove el frutto a noi piove dal Cielo:

A l’alta rocca mia, dice, i’ lo scrissi,

Però che ‘l patre suo me la mantenne.

Cesare ha nome, a lui l’ opre promissi:

Marte invido per me l’ ira ritenne

Quel dì, che Febo il volto par coprissi

[...]

 

(Bellincioni,1876, I, sonetto XX, p.48, corsivo mio)

 

Circa questo brano del sonetto, dove sono nominati Enea e Didone a paragone dell’albero di Tisbe ovvero il gelso-moro, emblema di Ludovico il Moro e l’isola-cecilia-Sicilia, emblema di Cecilia Gallerani, il senso potrebbe essere che Giove ascrisse Ercole tra gli dèi così come fece Ludovico con Cesare; un’altra interpretazione potrebbe essere quella secondo cui Bellincioni stesso incluse Cesare tra gli dèi attraverso i suoi versi e, stando ai versi successivi, Zeus-Ludovico, in virtù di ciò, conservò al Poeta la preminenza.

 

Al contrario Marte, nemico principale di Ercole, è invidioso del Poeta perché egli ha dedicato il poema a Cesare nato nell’anno in cui “Febo si coprì il volto”: indizio importante ai nostri fini, perché nel 1491, anno in cui nacque Cesare Sforza Visconti, figlio naturale del Moro, ci fu effettivamente una eclisse solare annuale l’8 maggio, appena dopo la nascita di Cesare, avvenuta il 3 maggio.

 

Del resto, nell’opera letteraria di Dmitry Merezhkovsky (1865-1941), The Romance of Leonardo da Vinci, romanzo storico in cui appaiono presenti, in filigrana (mancando del tutto l’ apparato bibliografico…), dei riferimenti a vicende e personaggi storicamente plausibili, è incluso un dialogo tra il poeta di corte Bernardo Bellincioni e Ludovico Sforza in riferimento al neonato di Ludovico Sforza e Cecilia Gallerani (Cesare), il quale viene paragonato ad un Ercole nella culla:

 

- Bernardo! Sst! Bernardo!

- Ecco, mio signore.

E il poeta di corte, Bernardo Bellincioni, avanzò con aria misteriosa e servile, e sarebbe caduto in ginocchio a baciare la mano del duca: quest’ultimo, però, lo trattenne.

- Bene? Tutto bene?

- Tutto è bene, mio signore.

- E ‘ stata messa a letto?

- Ieri sera la vidi liberata dal suo fardello.

- Con buon esito ? O devo mandare il mio medico?

- No, la madre sta andando alla perfezione.

- Gloria a Dio! E il bambino?

- Perfetto.

- Maschio o femmina?

- Un figlio maschio. E con una voce! Capelli biondi come sua madre; ma gli occhi neri, ardenti e vispi come quelli di Vostra Grazia. Il sangue principesco fa bella mostra di sé. Un piccolo Ercole! Madonna Cecilia è fuori di sé dalla gioia; e mi ha pregato di informarmi circa il nome che aggraderà a Vostra Eccellenza.
- Ho pensato a questo. Noi lo chiameremo Cesare. Che cosa ne pensate?
- È un bel nome; con un bel suono e di antica origine. Cesare Sforza! Un nome da eroe.

 

(Merejkowski, 1904, p.66: traduzione italiana e corsivo miei).

 

Se tale dialogo fosse stato ispirato all’autore dal sonetto del Bellincioni sopracitato, o da un'eventuale documentazione o fonti originali esistenti e consultate dall’autore per questo episodio, non è stato al momento possibile appurarlo, essendo stato omesso qualsiasi tipo di apparato bibliografico di riferimento; singolare appare però a mio avviso questa concomitanza di allusioni alla figura mitologica di Ercole, presenti sia nel sonetto del Bellincioni, sia nella ipotetica iconografia leonardesca di stampo mitologico sia, infine, nello stesso passo del Merezhkovsky citato supra.

 

Secondo questa lettura, anche la posizione iniziale della presunta donnola con una zampa poggiata/impigliata nelle vesti di Cecilia e l’altra alta e “rampante”, mantenuta anche nella versione successiva con l’ermellino, potrebbe alludere alla tempestività con cui la donnola del mito greco si manifestò alle dee ma anche, forse, alla tempestività con la quale Galantis fu trasformata in donnola...

 

Di certo la posa dell’animale è coerente con gli insegnamenti di Leonardo il quale nel trattato De Pittura così raccomandava: «[...] perché gli è necessario fare i lor moti (della testa) che mostrino vivacità desta, e non addormentata» (Manzi, 1817, p.185). Oltretutto, l’ipotesi, dibattuta da Carlo Pedretti (Pedretti, 1990, pp. 173-175) circa la possibilità che la dama rappresentata fosse stata colta mentre camminava, essendo incompatibile del tutto con la presunta versione iniziale del dipinto, rilevata da Pascal Cotte [Figura 1] prima dell’inserimento della donnola/ermellino, diventa, al contrario altamente probabile per le successive versioni del dipinto, inclusa la definitiva, quando la postura della dama può ricordare il mito di Galanthis, la donnola che con una fugace apparizione presso il vestibolo dove giaceva Alcmèna, si appresta a confondere le dee.

 

Inoltre, tale presenza originaria di una donnola, poi traslata nell’ermellino, parrebbe confermare a posteriori l’intuizione del critico inglese Robert Langton Douglas (Pedretti, 1990, p.174), il quale interpretava l’ermellino, come una sorta di duplice allusione alla effigiata e al committente.

 

Elisabetta Gnignera (specialista di Storia del Costume e delle Acconciature dei secoli XIII-XVI) tutti i diritti riservati ©

 

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