N. 61 - Gennaio 2013
(XCII)
IL COMMERCIO NELL’EUROPA CAROLINGIA
tra curtes e i mercati settimanali
di Alessandro Valenzano
In
Europa
occidentale,
tra
VIII
e XI
secolo,
si
diffonde
un
nuovo
modello
di
organizzazione
fondiaria,
detto
sistema
curtense.
La
curtis,
o
azienda
agricola,
si
consolida
in
Francia
con
la
salita
al
trono
di
Carlo
Magno.
Già
negli
ultimi
secoli
dell’impero
romano
si
notavano
segni
di
un’evoluzione
nella
gestione
delle
terre
e
con
la
riforma
carolingia
si
migliorò
definitivamente
il
sistema
gestionale
dei
latifondi.
La
peculiarità
del
sistema
curtense,
che
lo
distinse
da
quello
delle
ville
tardoromane,
stava
nella
divisione
dell’azienda
in
due
parti:
la
pars
dominica,
ovvero
le
terre
gestite
direttamente
dal
padrone,
e la
pars
massaricia,
quell’insieme
di
terre
e
campi
assegnati
dal
padrone,
a
famiglie
di
coltivatori.
I
villani
che
lavoravano
le
terre
del
signore
spesso
stipulavano
un
contratto
economico
detto
libellum,
che
li
metteva
in
condizione
di
lavorare
le
terre
patronali
in
cambio
di
un
canone.
All’interno
della
villa,
come
era
chiamata
la
curtis
in
Francia,
c’era
la
necessità
di
sfamare
tanta
gente,
ma
la
scarsità
dei
commerci,
rispetto
all’età
romana,
rendeva
più
arduo
lo
scambio
di
beni.
Nell’azienda
si
produceva
tutto
ciò
che
serviva
per
la
sopravvivenza,
compresi
attrezzi
da
lavoro
e
abiti.
Questa
prevalente
esigenza
all’autoconsumo,
però,
non
deve
far
pensare
a
un’economia
“chiusa”,
come
molti
credono.
La
curtis
era
in
mano
a
re,
enti
ecclesiastici,
ricchi
proprietari
terrieri
e
nobili
che
possedevano
di
solito
un
gran
numero
di
curtes,
anche
molto
distanti
fra
loro.
Le
rendite
erano
consumate
sul
posto,
ma
le
eccedenze
di
produzione,
spesso,
venivano
convogliate
nelle
altre
curtes
padronali,
anche
a
grande
distanza.
Questa
propensione
allo
scambio
tra
curtes
è
testimoniata
da
alcuni
scavi
condotti
in
Toscana.
I
dati
forniscono
spunti
che
screditano
la
tesi,
sostenuta
fino
alla
fine
del
Novecento,
di
un
economia
curtense
“chiusa”.
Uno
dei
più
importanti
esempi
è lo
scavo
condotto
a
Campiglia
Marittima
(GR)
che
attesta
la
presenza
sul
territorio
di
catene
curtensi.
Il
sito
di
Campiglia
Marittima
non
è
definibile
come
centro
curtense.
L’assenza
di
magazzini
ha
fatto
pensare
più
ad
un
centro
produttivo
che
ad
uno
di
stoccaggio.
Infatti
le
tracce
di
allevamento
e di
macellazione
di
maiali
avvalorano
questa
tesi,
indicando
il
sito
come
anello
di
una
catena
di
centri
collegati
a
una
curtis
più
grande.
Spesso
gli
allodieri
riuscivano
a
caratterizzare,
in
base
al
tipo
di
terreno,
ciascuna
proprietà
con
poche
e
specializzate
colture
e
attività
artigianali.
Questo
rendeva
possibile
organizzare
le
diverse
aziende
agricole
come
un’unica
catena
produttiva.
Così
strutturata
la
gestione
della
curtis
implicava
lo
sviluppo
di
un
sostrato
commerciale
necessario
alla
fruizione
e
alla
rendita
dell’intera
proprietà
allodiera.
Il
commercio
curtense,
che
derivava
da
questa
originale
strutturazione
territoriale,
era
scandito
da
transazioni
monetarie.
Ma
l’errore
comune
è
quello
di
credere
in
un
ritorno
al
baratto.
Secondo
le
fonti,
nel
IX e
nel
X
secolo,
gli
allodieri
preferivano
ricevere
dai
contadini
canoni
in
natura,
invece
che
una
somma
monetaria,
perché
vendendo
i
prodotti
ricevuti
ricavavano
una
maggiore
remunerazione
pecuniaria.
Questa
prassi,
però,
non
deve
far
pensare
ad
un’
assenza
monetaria:
la
moneta
non
ha
mai
cessato
di
esistere!
Nei
villaggi
limitrofi
alla
curtis,
dove
risiedevano
i
liberi
coltivatori
e i
villani
dipendenti
dell’azienda,
ogni
settimana
aveva
il
suo
giorno
di
mercato,
nel
quale
la
famiglia
contadina
riusciva
a
vendere
le
proprie
eccedenze
della
produzione.
Spesso
succedeva
che
il
contadino
coltivasse
abusivamente,
all’insaputa
del
proprietario,
piccole
porzioni
di
terra
sottratte
all’incolto.
In
questo
modo
la
famiglia
contadina
riusciva
anche
ad
assicurarsi
piccoli
introiti,
che
gli
permettevano
l’acquisto
di
nuovi
attrezzi,
di
utensili
per
la
casa
e di
alimenti
nuovi
per
variare
la
dieta.
“Inoltre
i
censi
imposti
ai
coloni
comprendevano
quasi
sempre
una
quota,
sia
pur
minoritaria,
versata
in
denaro.”
Il
commercio
curtense
era
basato
su
scambi
di
ogni
genere
in
base
alle
esigenze
della
curtis
ed
erano
improntati
su
brevi
e
medie
distanze;
i
tempi
erano
ormai
cambiati
da
quando
i
mercanti
romani
attraversavano
in
lungo
e in
largo
l’Impero
per
approvvigionare
di
ottime
merci
tutti
gli
strati
sociali.
Con
la
Renovatio
Imperii
carolingia
non
c’era
più
la
necessità
di
viaggiare
su
lunghe
distanze:
ogni
regione
territoriale,
pubblica
o
privata,
aveva
un
proprio
flusso
commerciale
interno
che
bastava
per
la
sopravvivenza.
L’uomo
carolingio
non
aveva
la
necessità
di
spostarsi
su
lunghe
distanze
perché
poteva
rifornirsi
di
cibo
e
materiali
all’interno
del
feudo
nel
quale
viveva.
Tuttavia
non
bisogna
dimenticarsi
che
tra
l’VIII
e l’
XI
secolo
ancora
avvenivano
scambi
su
lunghe
distanze;
nel
Nord
Europa,
lungo
i
fiumi
dell’Est
Europa
e in
Asia,
i
mercanti
arabi,
bizantini,
slavi
e
vichinghi
erano
attivissimi
e
intenti
in
forme
di
commercio
più
articolate.
L’Europa
carolingia,
a
differenza
degli
emporia
vichinghi
e
dei
bazar
arabi,
non
conosceva
più
la
figura
del
mercante
e
utilizzava
negli
scambi
monete
di
bronzo
e
d’argento,
che
sostituirono
quelle
auree.
La
figura
del
mercante,
dedito
agli
affari
come
era
in
età
romana,
non
esisteva
più.
Ora
era
il
villano
che
s’improvvisava
commerciante
secondo
le
circostanze.
“La
vendita
e
l’acquisto
non
erano
più
l’occupazione
primaria
di
nessuno,
ma
erano
solo
espedienti
ai
quali
si
faceva
ricorso
quando
la
necessità
lo
imponeva.”
La
società
occidentale
carolingia
aveva
un
forte
carattere
agricolo.
La
terra
era
l’unica
fonte
di
sostentamento
e il
solo
requisito
di
ricchezza.
Tutti
vivevano
dei
prodotti
agricoli,
sia
che
li
ottenessero
col
proprio
lavoro
sia
che
si
limitassero
a
percepirli
sotto
forma
di
canoni.
Nei
mercati
dei
villaggi
venivano
scambiati
beni
di
prima
necessità:
il
grano,
la
legna,
i
cereali,
i
legumi,
le
uova,
gli
animali,
la
lana
e i
manufatti
prodotti
nei
laboratori
artigianali
e
nei
“ginecei”
locali.
Tra
queste
produzioni
artigianali
c’erano
le
forme
vascolari
ceramiche,
indispensabili
per
la
vita
quotidiana,
che
venivano
utilizzate
per
mangiare
per
cucinare
per
conservare
e
trasportare
prodotti.
Le
ceramiche,
a
differenza
dei
secoli
precedenti,
erano
di
fattura
grezza
e
prodotte
localmente.
Di
tutti
i
beni
scambiati
il
più
raro
era
il
sale,
un
condimento
necessario,
che
si
trovava
solo
in
alcune
regioni:
lo
spostamento
diveniva
attività
inevitabile
pur
di
procurarselo.
Il
commercio
curtense,
quindi,
continuava
a
mantenere
una
buona
circolazione
sia
sui
percorsi
viari
che
lungo
i
corsi
d’acqua.
I
mercati
locali,
dall’inizio
del
IX
secolo,
si
moltiplicarono.
Ogni
villaggio
aveva
il
suo,
previsto
una
volta
a
settimana
e
composto
da
strutture
provvisorie,
ma
rifornito
di
tutti
i
beni
di
prima
necessità.
I
banchi
dei
commercianti
soddisfacevano
i
bisogni
familiari
della
popolazione
circostante
e,
con
ogni
probabilità,
anche
quella
necessità
di
socievolezza
che
è
propria
di
tutti
gli
uomini
di
ogni
epoca.
Lo
scambio
costituiva
l’unica
distrazione
offerta
da
una
società
costretta
al
lavoro
della
terra.
Il
divieto
che
Carlo
Magno
impose
ai
servi
dei
suoi
possedimenti,
di
“vagare
per
i
mercati”,
dimostra
che
questi
erano
attratti
soprattutto
dal
desiderio
di
divertirsi
e
socializzare.
Sicuramente
ogni
area
territoriale
ha
avuto
le
sue
peculiarità
storiche.
Non
si
può
affermare
che
c’è
una
lineare
evoluzione
della
storia
da
un’economia
“naturale”
ad
una
“monetaria”
e di
conseguenza
da
forme
di
commercio
“aperto”
a
forme
“chiuse”.
Riferimenti
bibliografici:
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Dizionario
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Medioevo,
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