N. 142 - Ottobre 2019
(CLXXIII)
curdi, popolo fiero ma dimenticato
l'ennesimo
imperdonabile
errore
dell'occidente
di
Gian
Marco
Boellisi
Il
7
ottobre
2019
il
presidente
statunitense
Donald
Trump
ha
annunciato
attraverso
alcuni
tweet
la
propria
volontà
di
ritirare
il
contingente
militare
americano
attualmente
in
Siria,
presente
nel
paese
da
svariati
anni
a
fianco
delle
milizie
curde
e in
generale
delle
cosiddette
Forze
Democratiche
Siriane
(SDF)
per
combattere
lo
Stato
Islamico
(IS).
Ciò
ha
dato
inizio
letteralmente
a
una
delle
più
rapide,
violente
e
inaspettate
escalation
militari
degli
ultimi
anni.
Infatti
pochi
giorni
dopo,
a
seguito
di
questo
annuncio,
forze
appartenenti
all’esercito
turco
hanno
oltrepassato
il
confine
siriano
per
fronteggiare
le
forze
di
sicurezza
curde
in
uno
scontro
a
dir
poco
impari.
Da
allora
gli
scontri
non
si
sono
fermati,
mostrando
a
tutto
il
mondo
quanto
l’irresponsabilità
del
paese
più
volte
definito
“Leader
del
mondo
libero”
possa
portare
un
intero
popolo
sull’orlo
della
rovina.
È
quindi
importante
analizzare
quanto
successo
in
Siria
nelle
ultime
settimane,
cosa
ha
portato
a
questa
catena
di
eventi
e
soprattutto
dove
potranno
portare.
Partiamo
da
una
breve
digressione
storica
sulle
origini
del
popolo
curdo.
I
curdi
sono
un
gruppo
etnico
presente
in
Medio
Oriente
dall’alba
dei
tempi,
di
cui
fanno
parte
tra
i 35
e i
40
milioni
di
persone.
Nonostante
i
vari
tentativi
fallaci
nell’arco
della
storia,
essi
risultano
il
più
grande
gruppo
etnico
sulla
Terra
senza
uno
stato
sovrano.
I
curdi
si
dividono
in 4
nazioni,
ovvero
Turchia
(dove
ne
risiede
la
maggior
parte,
circa
20
milioni),
Iraq,
Siria
e in
parte
anche
in
Iran.
Nel
corso
degli
anni
sono
stati
svariati
i
tentativi
da
parte
del
popolo
curdo
di
acquisire
una
statualità
concreta
e
definita.
I
primi
sforzi
risalgono
al
1923,
quando,
con
il
trattato
di
Losanna,
Francia
e
Gran
Bretagna
tradirono
le
promesse
fatte
durante
il
Primo
Conflitto
Mondiale
ai
curdi
in
chiave
anti-turca
e,
al
posto
di
donare
loro
uno
stato,
ridisegnarono
la
cartina
dell’intero
Medio
Oriente
guardando
i
propri
interessi,
spartendosi
tra
loro
risorse,
territori,
nazioni.
Un
altro
tentativo
venne
fatto
nel
1946,
quando
venne
fondata
la
Repubblica
di
Mahabad
in
Iran.
Questa
tuttavia
durò
solamente
11
mesi,
avendo
ottenuto
il
supporto
dell’Unione
Sovietica
in
un
primo
istante
per
poi
essere
abbandonata
anche
da
quest’ultima,
essendo
Mosca
accordatasi
con
il
governo
di
Teheran
per
le
concessioni
petrolifere
della
regione.
Da
allora
i
curdi
hanno
patito
ogni
tipologia
di
persecuzione
nei
relativi
stati
di
residenza,
con
oltremodo
scarso
interesse
da
parte
di
tutta
la
comunità
internazionale.
Da
non
dimenticare
il
gravissimo
episodio
accaduto
nel
1988,
quando
l’inutile
conflitto
tra
Iran
e
Iraq
ormai
volgeva
al
termine.
Infatti
in
questa
data
Saddam
Hussein
avviò
lo
sterminio
sistematico
dei
curdi
iracheni,
il
cui
episodio
più
macabro
fu
l’attacco
di
Halabja
perpetrato
con
gas
nervino
Sarin,
che
reclamò
la
vita
di
oltre
5.000
persone.
Alla
fine
delle
operazioni
di
Saddam
nella
regione
si
stimarono
oltre
100.000
morti.
Nel
recente
passato,
già
all’interno
del
contesto
della
guerra
civile
siriana
e in
generale
alla
lotta
dello
stato
islamico,
il
Kurdistan
iracheno
aveva
votato
in
un
referendum
il
25
dicembre
2017
per
ottenere
la
propria
indipendenza
da
Baghdad.
Questa,
come
non
è
difficile
immaginare,
non
è
mai
stata
concessa
dal
governo
nonostante
la
liberazione
dell’Iraq
settentrionale
dall’IS
fosse
stata
anche
in
buona
parte
merito
delle
forze
di
sicurezza
curde.
Questo
tributo
di
sangue
è
stato
pagato
lautamente
anche
sul
fronte
siriano,
dove
da
alcuni
anni
le
forze
curde
occupano
circa
un
quarto
del
territorio
totale
nel
nord-est
del
paese,
compresi
gli
importanti
pozzi
di
petrolio
al
di
là
dell’Eufrate,
avendo
creato
di
fatto
un
proto-stato
all’interno
dei
confini
della
Siria
di
Bashar
al-Assad.
In
questi
anni
sono
stati
i
curdi
a
combattere
in
prima
fila
i
miliziani
dell’IS
mentre
le
potenze
occidentali
non
hanno
voluto
immischiarsi
politicamente
nell’ennesimo
ginepraio
mediorientale
e
decidevano
di
fornire
solamente
supporto
aereo
e
nulla
più.
Sono
state
le
YPG,
le
Unità
curde
di
Protezione
Popolare,
a
conquistare,
nel
2017,
Mosul,
la
roccaforte
irachena
dell’IS
dalla
quale
Abu
Bakr
al-Baghdadi
lanciò
il
suo
discorso
dando
vita
allo
stato
islamico,
e
anche
Raqqa,
la
capitale
stessa
dell’IS.
È
importante
non
dimenticare
mai
come
gli
osservatori
internazionali
parlino
di
circa
11.000
curdi,
tra
combattenti
e
civili,
caduti
dal
2014
ad
oggi
negli
scontri
contro
lo
stato
islamico.
Queste,
tuttavia,
sono
solamente
stime
non
definitive.
In
un
conflitto
che
dura
da 8
anni
e
che
conta
ormai
quasi
500.000
morti
fare
una
stima
precisa
dei
caduti
delle
varie
fazioni
belligeranti
risulta
quanto
mai
complesso.
Come
possiamo
vedere
da
questa
breve
analisi,
l’intera
storia
dei
curdi
è
stata
dominata
da
lotte
per
la
propria
indipendenza
e da
tradimenti
perpetrati
dalle
grandi
potenze
di
turno.
Ed è
proprio
in
questo
contesto
che
si
inseriscono
le
dichiarazioni
dell’inquilino
della
Casa
Bianca.
Le
sue
parole
hanno
destato
stupore
e
incredulità
non
solo
tra
le
cancellerie
di
tutto
il
mondo,
ma
anche
all’interno
del
suo
stesso
governo
ed
establishment.
Questi
vedono
senza
mezzi
termini
la
decisione
del
presidente
come
fortemente
destabilizzante
per
l’intera
regione,
soprattutto
per
gli
obiettivi
a
medio
e
lungo
termine
che
gli
Stati
Uniti
si
erano
posti
quando
avevano
deciso
di
intervenire
in
Siria.
Il
ritiro
delle
forze
americane
e
tutte
le
conseguenze
a
cui
ciò
porterà
distrugge
in
pochi
giorni
il
sottilissimo
equilibrio
creatosi
dopo
anni
e
anni
di
ostilità
tra
le
fazioni.
Ora
che
le
carte
sono
state
mischiate
nuovamente,
il
tavolo
dei
giocatori
si
ritroverà
privato
di
un
importante
protagonista.
È
dal
dicembre
2018
che
Donald
Trump
ha
il
chiodo
fisso
del
ritiro
delle
proprie
truppe
dalla
Siria.
Infatti
è
proprio
in
questa
data
che
il
presidente
americano
annunciò
la
sconfitta
dello
stato
islamico,
motivo
per
cui
iniziò
a
ritenere
superflua
una
permanenza
ulteriore
delle
proprie
forze
nell’area.
Nonostante
non
fosse
stato
effettuato
un
massiccio
dispiegamento
di
forze,
gli
Stati
Uniti
sono,
o
forse
è
meglio
ormai
dire
erano,
presenti
in
Siria
dal
2014
in
poi.
Il
personale
qui
era
composto
da
circa
un
migliaio
di
soldati
delle
forze
speciali,
il
cui
compito
era
di
supportare,
addestrare
e
coadiuvare
le
forze
di
sicurezza
curde.
Trump
nel
2018
era
appena
uscito
dal
Mid-Term
indebolito,
avendo
perso
la
Camera
ai
democratici,
così
probabilmente
decise
di
voler
riguadagnare
consensi
in
maniera
rapida
e
indolore.
Infatti
tra
le
varie
promesse
elettorali
di
Trump
vi
sono
sempre
state
sia
la
sconfitta
dell’IS
sia
il
ritiro
completo
delle
truppe
statunitensi
dai
teatri
di
conflitto
mediorientale,
vero
e
proprio
salasso
per
l’economia
d’oltreoceano.
Nonostante
questa
convinzione
del
tutto
malriposta,
il
presidente
americano
fu
dissuaso
dalla
sua
stessa
amministrazione,
nonché
dal
Pentagono
e
dalla
C.I.A.,
come
confermato
da
svariate
testate
statunitensi,
dall’agire
in
questo
senso,
convincendolo
invece
di
optare
per
un
ritiro
graduale
delle
proprie
truppe.
Questo
in
modo
che
le
forze
di
sicurezza
curde
potessero
divenire
col
tempo
autonome
e
indipendenti
nella
loro
lotta
contro
lo
stato
islamico.
Nel
corso
dei
mesi
successivi
Trump
ha
provato
a
mediare
con
il
governo
turco
per
creare
un’area
cuscinetto
tra
Turchia
e
Siria
a
gestione
congiunta,
ma
le
tensioni
tra
Washington
e
Ankara
hanno
prevalso
traducendosi
in
un
nulla
di
fatto.
Questi
dissapori
hanno
avuto
il
loro
apice
la
scorsa
estate,
quando
è
arrivata
conferma
ufficiale
da
parte
della
Turchia
dell’acquisto
di
batterie
dei
missili
terra-aria
S-400
di
produzione
russa,
cosa
che
ha
causato
anche
la
sospensione
della
Turchia
dal
programma
F-35.
Nonostante
il
temporeggiamento
di
10
mesi,
era
prevedibile
che
Donald
Trump
tornasse
sui
suoi
passi
in
merito
alla
sconfitta
dell’IS.
Non
per
niente,
le
elezioni
del
2020
sono
sempre
più
vicine
ed è
in
questo
contesto
che
si
inquadra
l’annuncio
del
7
ottobre
scorso.
Sin
dalle
prime
ore
dopo
la
dichiarazione,
la
sensazione
percepita
sia
dalle
varie
cancellerie
estere
sia
dalla
gente
comune
nei
confronti
dei
curdi
è
stata
quella
di
essere
di
fronte
a un
vero
e
proprio
tradimento.
Armati
e
finanziati
sin
dal
2014
per
combattere
le
forze
dello
stato
islamico
(e
anche
le
forze
filo-russe
del
presidente
Assad),
i
curdi
sono
stati
usati
per
combattere
una
guerra
in
cui
i
paesi
occidentali
non
volevano
essere
coinvolti
per
le
conseguenze
sulle
proprie
economie
e
sul
consenso
interno.
Ancora
peggio,
durante
tutti
questi
anni
è
stato
fatto
credere
ai
curdi
che
se
avessero
combattuto
nelle
desolate
lande
del
deserto
siriano
alla
fine
del
conflitto
si
sarebbero
potuti
presentare
come
un
attore
alla
pari
al
tavolo
degli
accordi
di
pace
per
finalmente
ottenere
un
pezzo
di
terra
che
potessero
chiamare
casa.
Ora
invece
sono
stati
abbandonati
ancora
una
volta,
per
di
più
a
fronteggiare
le
forze
del
secondo
esercito
della
NATO.
È
lecito
ricordare
infatti
che
la
Turchia
vanta
un
esercito
con
più
di
400.000
effettivi
nonché
tecnologie
moderne
al
proprio
servizio
fornite
prontamente
negli
anni
da
tutte
le
nazioni
occidentali
(Germania
in
primis).
A
seguito
dell’invasione
turca
del
nord
della
Siria,
Trump
ha
cercato
con
il
suo
solito
atteggiamento
di
ricucire
lo
strappo
appena
provocato.
Da
un
lato
ha
tentato
di
rassicurare
la
comunità
internazionale,
affermando
in
un
primo
momento
di
essere
“pronto
a
spazzare
via
l'economia
turca”
qualora
venissero
messe
in
atto
“azioni
off
limits”
per
poi
passare
ai
fatti
imponendo
dazi
sull’acciaio
turco.
Dall’altro
ha
cercato
di
giustificare
in
maniera
quanto
mai
ridicola
la
sua
decisione
di
ritirarsi
dalla
Siria,
affermando
che
i
curdi
“non
hanno
combattuto
nella
seconda
guerra
mondiale
o in
Normandia”
e
che
quindi
le
cose
è
giusto
che
siano
andate
così.
A
parte
la
distanza
di
4.000
km
che
separa
la
regione
d’origine
dei
curdi
dalla
Normandia,
queste
affermazioni
si
commentano
da
sole.
L’arte
millenaria
del
bastone
e
della
carota
coniugata
secondo
Donald
Trump.
Nonostante
questo
atteggiamento
che
poco
si
addice
a un
inquilino
della
Casa
Bianca,
tale
strategia
non
è da
imputare
meramente
alla
personalità
di
Trump.
Nella
loro
storia
gli
Stati
Uniti
non
sono
stati
estranei
a
questo
tipo
di
giochetti,
ovvero
coltivare
rapporti
economici
e
militari
con
gruppi
ribelli
e
paramilitari
per
un
certo
periodo
di
tempo
per
poi
lasciarli
al
loro
destino
una
volta
consumata
la
loro
utilità.
Un
esempio
fra
tutti
è
l’invasione
sovietica
dell’Afghanistan
(1979-1989),
dove
gli
Stati
Uniti
armarono
i
mujahiddin
in
chiave
antisovietica
per
poi
abbandonarli
a
fine
conflitto.
Tanta
fu
la
presa
di
distanze
nei
confronti
del
popolo
afgano
che
Washington
richiamò
il
proprio
personale
diplomatico
da
Kabul,
lasciando
il
paese
dopo
10
anni
di
guerra
alla
mercé
dei
talebani.
Sappiamo
tutti
poi
com’è
finita
quella
storia
l’11
settembre
del
2001.
Al
di
là
degli
interessi
politici
di
questa
o
quella
amministrazione,
il
ritiro
delle
forze
statunitensi
dal
conflitto
siriano
può
essere
inquadrato
in
quel
processo
che
ha
preso
il
via
con
l’amministrazione
Obama
di
dosaggio
e
centellinamento
del
coinvolgimento
di
Washington
in
teatri
di
conflitto
esteri.
Infatti
da
un
po’
di
anni
a
questa
parte
i
vertici
americani
si
stanno
sempre
più
domandando
in
quali
scenari
valga
la
pena
essere
coinvolti
e in
quali
no,
essendo
le
risorse
a
disposizione
dell’economia
americana,
e
quindi
della
sua
macchina
da
guerra,
non
più
abbondanti
come
alcuni
decenni
fa.
La
crisi
economica
del
2008,
l’affermarsi
di
un
mondo
multipolare
e
l’aumento
delle
minacce
asimmetriche
ha
reso
gli
Stati
Uniti
una
potenza
in
declino,
la
quale
per
mantenere
il
suo
status
di
primato
mondiale
deve
decidere
con
parsimonia
dove
impiegare
le
proprie
forze
e in
che
misura
farlo.
Il
rischio
di
una
non
oculata
gestione
dei
propri
impegni
militari
non
è
altro
che
il
cosiddetto
overstreching,
ovvero
l’impiego
di
risorse
maggiori
nei
conflitti
di
quelle
che
si
hanno
a
disposizione.
È un
fenomeno
già
visto
nel
corso
della
storia,
basti
pensare
a
tutti
i
più
grandi
imperi
della
storia,
Roma
in
primis.
Tutti
sono
caduti
in
questa
trappola
e
Washington
sta
vivendo
un
momento
cruciale
in
tal
senso.
L’altro
protagonista
di
questa
vicenda
è la
Turchia
di
Recep
Erdogan.
Definito
da
molti
il
nuovo
sultano
di
Istanbul,
Erdogan
ha
colto
un’opportunità
che
attendeva
da
lungo
tempo.
Non
è un
segreto
infatti
che
gli
occhi
della
Turchia
fossero
puntati
oltre
il
confine
siriano.
Basti
pensare
che
già
in
passato
il
governo
di
Ankara
aveva
intrapreso
operazioni
militari
nei
territori
di
Damasco,
ovvero
“Scudo
dell’Eufrate”
nel
2016
e
“Ramo
d’Ulivo”
nel
2018,
per
ritagliarsi
una
sempre
maggiore
voce
all’interno
delle
dinamiche
del
conflitto,
sempre
in
funzione
anti
curda.
A
seguito
dell’annuncio
di
Trump,
nella
notte
tra
l’8
e il
9
ottobre,
truppe
regolari
e
milizie
islamiste
filo
turche
hanno
varcato
il
confine
siriano
per
dare
inizio
alla
cosiddetta
operazione
“Sorgente
di
pace”.
Qui
sono
entrate
subito
in
scontro
aperto
con
le
Forze
Democratiche
Siriane
(SDF),
una
coalizione
a
maggioranza
curda
di
cui
fanno
parte
le
Unità
curde
di
Protezione
Popolare
(YPG).
Queste
ultime
in
particolar
modo
sono
tra
gli
obiettivi
principali
di
Ankara,
poiché
considerate
vere
e
proprie
organizzazioni
terroristiche
affiliate
al
Partito
dei
Lavoratori
del
Kurdistan
(PKK),
movimento
politico
interno
alla
Turchia
in
conflitto
con
il
governo
centrale
da
oltre
trent’anni.
Questo
scontro,
tra
fasi
di
violenza
alterna
sia
da
parte
turca
che
da
parte
curda,
ha
causato
nel
tempo
oltre
40.000
morti,
il
tutto
dovuto
a un
timore
costante
da
parte
dell’autorità
centrale
turca
di
una
secessione
della
regione
a
maggioranza
curda,
la
quale
conta
più
di
20
milioni
di
abitanti.
Gli
obiettivi
militari
della
Turchia
coinvolgono
la
popolazione
curda
della
regione,
anche
se
dedurre
le
intenzioni
ultime
di
Ankara
è
molto
difficile.
Sicuramente
uno
dei
traguardi
a
medio
termine
di
Erdogan
è la
creazione
di
una
zona
cuscinetto
larga
circa
30
km a
ridosso
del
confine
siriano
dove
eliminare
definitivamente
la
presenza
curda.
In
questo
modo
la
Turchia
creerebbe
una
zona
di
“buffer”
tra
i
propri
confini
e i
territori
storicamente
occupati
dai
curdi.
Per
garantirsi
il
controllo
di
questa
regione,
il
sultano
probabilmente
ha
in
mente
di
spostarvi
i
3,6
milioni
di
rifugiati
siriani
riversatisi
in
Turchia
dall’inizio
della
guerra.
Non
bisogna
dimenticare
infatti
che
la
Turchia
è
stato
il
paese
maggiormente
colpito
dal
flusso
di
profughi
dall’inizio
del
conflitto.
Essendo
questi
rifugiati
di
maggioranza
araba,
per
Erdogan
sarebbe
un’assicurazione
a
lungo
termine
lungo
tutto
il
proprio
confine
sud.
Tuttavia
l’obiettivo
ultimo
sarebbe
di
gran
lunga
peggiore,
ovvero
la
distruzione
di
ogni
prospettiva
di
uno
stato
curdo
unificato.
Spostando
i
rifugiati
siriani,
l’intenzione
di
Erdogan
è
quella
di
creare
una
frammentazione
etnica
all’interno
del
territorio
curdo
così
da
evitare
nel
prossimo
futuro
una
qualsiasi
sorta
di
unificazione
avvallata
dalla
comunità
internazionale.
Un
altro
obiettivo,
questa
volta
sul
fronte
interno,
sarebbe
quello
di
aumentare
i
consensi
del
partito
al
potere
e di
distrarre
in
qualche
modo
l’opinione
pubblica
dai
vari
problemi
del
quotidiano.
Non
è un
segreto
infatti
che
l’inflazione
in
Turchia
è
cresciuta
del
16,3%
nel
2018,
mentre
le
stime
del
Ministero
dell’Economia
parlano
di
una
crescita
del
PIL
dello
0,5%
per
il
2019.
Inoltre
una
voce
di
spesa
considerevole
sulle
casse
dello
stato
sono
i 37
miliardi
di
dollari
spesi
dal
2011
in
poi
nella
gestione
dei
profughi
di
guerra
siriani.
A
causa
di
queste
spese
negli
ultimi
anni
si è
potuto
assistere
a
una
vera
e
propria
polarizzazione
dell’opinione
pubblica
turca
nei
confronti
dei
rifugiati
siriani,
considerati
delle
autentiche
sanguisughe
dell’economia
anatolica.
La
volontà
di
liberarsi
il
prima
possibile
di
questa
fiumana
di
persone
è
anche
uno
dei
motivi
per
cui
Erdogan
ha
minacciato
Bruxelles
nelle
prime
ore
successive
all’invasione
di
riversare
centinaia
di
migliaia
di
profughi
verso
l’Europa
Occidentale
qualora
vengano
presi
provvedimenti
economici
o
politici
nei
confronti
di
Ankara,
rendendo
così
reale
uno
degli
incubi
peggiori
di
tutte
le
cancellerie
del
Vecchio
Continente.
Oltre
alle
cause
che
hanno
portato
a
questa
infausta
azione
militare,
è
interessante
anche
analizzare
le
possibili
conseguenze
a
cui
si
potrà
giungere.
Innanzitutto
l’intervento
turco
ha
mostrato
al
mondo
quanto
gli
Stati
Uniti
contino
sempre
meno
nella
regione
e
invece
al
contrario
quanto
si
stiano
affermando
svariate
potenze
regionali
minori
ma
comunque
importanti
(Turchia,
Iran).
Alcuni
analisti
hanno
supposto
che
Trump
abbia
fatto
l’annuncio
del
ritiro
per
favorire
in
comune
accordo
segreto
la
Turchia
nel
contesto
siriano.
Questo
come
segno
di
buona
volontà
per
ricucire
i
rapporti
con
Ankara
dopo
la
vendita
dei
missili
S-400
da
parte
della
Russia.
Ciò
tuttavia
allontanerebbe
gli
Stati
Uniti
dall’ottenere
uno
dei
suoi
obiettivi
cardine
nella
regione,
ovvero
combattere
l’influenza
di
Teheran
in
Medio
Oriente.
Infatti
abbandonare
il
campo
in
Siria
significa
solamente
lasciare
libero
il
corridoio
che
dall’Iran
arriva
in
Libano
passando
per
Siria
e
Iraq,
creando
così
una
congiunzione
territoriale
di
vitale
importanza
per
tutte
le
milizie
sciite
della
regione.
In
questa
maniera
non
solo
la
politica
di
contenimento
statunitense
verrebbe
completamente
vanificata,
ma
porterebbe
a
essere
sempre
più
accerchiati
i
principali
alleati
di
Washington
nella
regione,
ovvero
Israele
e
Arabia
Saudita.
Un
altro
rischio
è
che
gli
innumerevoli
prigionieri
appartenenti
all’IS
detenuti
attualmente
nei
campi
di
prigionia
dei
curdi
durante
il
caos
del
conflitto
riescano
a
scappare
e a
riorganizzarsi
per
riprendere
la
lotta
armata,
sia
in
Medio
Oriente
che
all’estero.
Infatti
è
improbabile
che
questi
miliziani
liberati
rimangano
nel
deserto
siriano,
dove
ormai
la
loro
guerra
è
persa,
ma è
invece
molto
verosimile
che
si
spostino
verso
altre
nazioni
dove
il
califfato
ha
attecchito
ma
deficita
ancora
di
organizzazione
oppure
in
nazioni
occidentali
dove
poter
riprendere
la
scia
di
attentati
a
cui
i
telegiornali
ci
avevano
abituato
fino
a
qualche
anno
fa.
Per
quanto
in
questo
momento
possa
sembrare
in
una
posizione
di
forza,
la
Turchia
si è
esposta
molto
intraprendendo
l’azione
militare
in
Siria.
In
primis
politicamente
presso
la
comunità
internazionale,
perdendo
molta
credibilità
nei
confronti
dei
suoi
partner
esteri.
In
secundis,
Ankara
sopravvaluta
la
solidità
della
propria
economia
a
medio
e a
lungo
termine.
Infatti
è
altamente
improbabile
che
la
Turchia
possa
sostenere
un
conflitto
prolungato
con
i
curdi
date
le
sue
scarne
risorse
economiche.
Questo
è
uno
dei
motivi
per
i
quali
sin
dalle
prime
fasi
dell’offensiva
Erdogan
si è
avvalso
delle
milizie
islamiste
filo-turche
già
presenti
in
Siria,
fornendo
solamente
supporto
con
artiglieria
e
aviazione.
Questo
legame
tra
le
milizie
ed
Erdogan
non
è
mai
stato
chiarito
del
tutto,
tant’è
che
ancora
oggi
rimangono
senza
risposta
le
domande
sollevate
dalle
immagini
fornite
dall’Intelligence
russa
di
camion
di
petrolio
dell’IS
in
viaggio
verso
il
confine
turco.
Le
ombre
su
questo
legame
ancora
oggi
mancano
di
una
appropriata
attenzione.
Da
ultimo,
il
rischio
più
grande
per
Erdogan
sono
i
curdi
che
risiedono
all’interno
dei
propri
confini.
Essendo
la
zona
del
conflitto
ampiamente
popolata
da
civili,
è
molto
facile
che
questi
vengano
coinvolti
negli
scontri
e
che
ne
rimangano
vittime.
Questo
potrebbe
indurre
i
curdi
presenti
nel
sud
della
Turchia
a
riprendere
la
lotta
armata
come
in
passato
con
azioni
terroristiche
contro
il
governo
centrale,
creando
una
catena
di
violenza
veramente
difficile
da
spezzare.
Tuttavia
ciò
che
sarà
l’outcome
finale
dell’intervento
armato
turco
è
stato
in
parte
deciso
nella
notte
tra
il
13 e
il
14
ottobre.
In
questa
data
infatti,
rappresentanti
dei
curdi
e
del
governo
di
Damasco
si
sono
incontrati
presso
la
base
aerea
russa
di
Latakia
per
giungere
a un
accordo.
Il
luogo
dell’accordo
in
sé
può
già
far
intendere
molte
cose.
Dopo
appena
una
settimana
di
combattimenti,
i
curdi,
consapevoli
della
loro
inferiorità
sul
campo
ma
soprattutto
dell’assenza
di
un
partner
internazionale
che
perorasse
la
propria
causa,
si
sono
rivolti
all’unico
attore
nella
regione
interessato
al
raggiungimento
di
un
accordo.
Non
è un
segreto
infatti
che
Assad
abbia
progettato
per
lungo
tempo
di
tornare
in
possesso
del
nord-est
siriano
occupato
da
curdi
e
americani.
Questo
accordo
ha
siglato
il
sogno
del
presidente
siriano,
ponendo
fine
alla
separazione
de
facto
(ma
mai
de
iure)
della
Siria
curda.
Già
in
passato
Assad
aveva
tentato
di
accordarsi
con
i
curdi,
i
quali
però
avevano
rifiutato
le
condizioni
del
presidente
pensando
di
poter
pretendere
di
più
grazie
alla
protezione
statunitense.
Niente
di
più
sbagliato.
L’accordo
siglato
riguarderebbe
le
città
di
Kobane
e
Manbij,
a
ovest
dell'Eufrate,
come
anche
Raqqa
e i
pozzi
petroliferi
nell’estremo
est
del
paese.
Già
poche
ore
dopo
l’accordo
soldati
regolari
di
Damasco,
coadiuvati
sul
campo
da
truppe
di
terra
russe,
hanno
occupato
le
città
e
gli
snodi
principali,
dando
tregua
ai
combattenti
curdi,
i
quali
sono
riusciti
in
certi
punti
del
fronte
anche
a
contrattaccare
le
forze
turche.
In
questa
maniera
non
solo
Assad
ha
praticamente
riunificato
la
quasi
totalità
del
paese,
recuperando
i
preziosi
giacimenti
petroliferi
del
nord,
ma
ha
anche
eliminato
il
problema
dell’occupazione
curda
senza
passare
per
un
aggressore
agli
occhi
della
comunità
internazionale.
Oltre
alla
presenza
dei
militari
di
Damasco,
gli
accordi
dovrebbero
prevedere
anche
la
nascita
di
una
provincia
semi-autonoma
curda
nel
nord
del
paese,
sempre
però
sotto
l’autorità
del
governo
centrale
di
Damasco.
Gli
estremi
di
dettaglio
non
sono
ancora
noti,
tanto
che
si
parla
di
clausole
abbastanza
vaghe.
Il
timore
è
che
Assad
si
riveli
un
partner
inaffidabile,
come
dimostrato
più
volte
in
passato
ai
danni
di
molte
milizie
che
negli
anni
si
sono
arrese
ma
che
hanno
ottenuto
un
trattamento
tutto
fuorché
umano.
Questa
volta
però
gli
occhi
del
mondo
intero
sono
puntati
su
Assad,
e
quindi
di
riflesso
anche
su
Mosca,
ed è
lecito
sperare
in
un
cambio
di
rotta
almeno
sulla
questione
curda.
A
seguito
degli
accordi
è
emerso
più
che
mai
l’affermarsi
della
Russia
come
vincitore
della
contesa
con
gli
altri
attori
coinvolti
nel
conflitto.
Supportando
Assad
sin
dal
principio
e
mantenendo
una
politica
poco
incline
alla
flessibilità,
il
Cremlino
esce
fortemente
rafforzato
dagli
accordi
con
i
curdi,
dimostrando
al
mondo
intero
di
essere
uno
dei
pochi
attori
internazionali
capaci
di
interloquire
con
le
nazioni
e le
fazioni
in
Medio
Oriente
e
diventando
così
un
punto
di
riferimento
per
la
regione.
Era
più
che
naturale
che
i
curdi,
abbandonati
dagli
Stati
Uniti
e
dall’Occidente
ancora
una
volta,
si
rivolgessero
all’unica
potenza
rimasta
in
Siria
che
ne
potesse
garantire
la
sopravvivenza.
Ad
oggi
dopo
8
anni
di
guerra,
a
parte
la
Turchia
invadente,
la
Russia
rimane
l’unica
forza
internazionale
in
Siria.
Come
dice
una
celebre
citazione
filosofica,
la
natura
non
ama
il
vuoto,
e
sembra
che
lo
stesso
principio
valga
anche
in
politica.
In
conclusione,
il
popolo
curdo
e
l’intera
comunità
internazionale
sono
stati
colti
completamente
di
sorpresa
dall’annuncio
degli
Stati
Uniti
di
ritirarsi
dalla
Siria.
Questa
decisione
del
tutto
discutibile
ha
portato
a
una
catena
di
eventi
di
cui
ancora
non
si
può
vedere
la
conclusione
ma
che
sicuramente
porteranno
caos
e
instabilità
nella
regione
per
un
periodo
indefinito.
Gli
Stati
Uniti
si
sono
macchiati
di
una
colpa
molto
grave,
ovvero
abbandonare
un
alleato
essenziale
in
una
regione
in
cui
gli
alleati
sono
ormai
cosa
rara.
Ma
al
di
là
di
ogni
convenienza
politica,
Washington
ha
illuso
un
popolo
promettendo
di
perorare
la
sua
causa
al
tavolo
della
comunità
internazionale
per
poi
abbandonarlo
senza
troppi
scrupoli
quando
la
sua
utilità
era
volta
al
termine.
La
conseguenza
più
grave
per
la
Casa
Bianca,
ma
di
cui
ancora
si
deve
rendere
conto,
è
che
la
sua
credibilità
nel
mondo
è
ora
a
rischio
più
che
mai.
La
cosa
grave
è
che
i
curdi
non
sono
l’unico
popolo
usato
e
dimenticato
dagli
Stati
Uniti
o
dalle
nazioni
occidentali.
L’elenco
potrebbe
essere
veramente
lungo:
Iraq,
Afghanistan,
Libia,
Siria,
Yemen,
Sudan.
Imparare
dai
propri
errori
non
sembra
essere
una
prerogativa
occidentale
in
questo
momento
storico
né
sembra
esserlo
stata
nell’ultimo
secolo.
Da
tutta
questa
situazione
non
sembrano
uscire
vincitori
ma
solamente
sconfitti,
e la
prima
a
essere
stata
sconfitta
è la
credibilità
americana,
e
quindi
di
riflesso,
purtroppo,
anche
tutta
quella
occidentale.