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N. 142 - Ottobre 2019 (CLXXIII)

curdi, popolo fiero ma dimenticato

l'ennesimo imperdonabile errore dell'occidente

di Gian Marco Boellisi

 

Il 7 ottobre 2019 il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato attraverso alcuni tweet la propria volontà di ritirare il contingente militare americano attualmente in Siria, presente nel paese da svariati anni a fianco delle milizie curde e in generale delle cosiddette Forze Democratiche Siriane (SDF) per combattere lo Stato Islamico (IS).

 

Ciò ha dato inizio letteralmente a una delle più rapide, violente e inaspettate escalation militari degli ultimi anni. Infatti pochi giorni dopo, a seguito di questo annuncio, forze appartenenti all’esercito turco hanno oltrepassato il confine siriano per fronteggiare le forze di sicurezza curde in uno scontro a dir poco impari. Da allora gli scontri non si sono fermati, mostrando a tutto il mondo quanto l’irresponsabilità del paese più volte definito “Leader del mondo libero” possa portare un intero popolo sull’orlo della rovina.

 

È quindi importante analizzare quanto successo in Siria nelle ultime settimane, cosa ha portato a questa catena di eventi e soprattutto dove potranno portare.

 

Partiamo da una breve digressione storica sulle origini del popolo curdo. I curdi sono un gruppo etnico presente in Medio Oriente dall’alba dei tempi, di cui fanno parte tra i 35 e i 40 milioni di persone. Nonostante i vari tentativi fallaci nell’arco della storia, essi risultano il più grande gruppo etnico sulla Terra senza uno stato sovrano.

 

I curdi si dividono in 4 nazioni, ovvero Turchia (dove ne risiede la maggior parte, circa 20 milioni), Iraq, Siria e in parte anche in Iran. Nel corso degli anni sono stati svariati i tentativi da parte del popolo curdo di acquisire una statualità concreta e definita.

 

I primi sforzi risalgono al 1923, quando, con il trattato di Losanna, Francia e Gran Bretagna tradirono le promesse fatte durante il Primo Conflitto Mondiale ai curdi in chiave anti-turca e, al posto di donare loro uno stato, ridisegnarono la cartina dell’intero Medio Oriente guardando i propri interessi, spartendosi tra loro risorse, territori, nazioni.

 

Un altro tentativo venne fatto nel 1946, quando venne fondata la Repubblica di Mahabad in Iran. Questa tuttavia durò solamente 11 mesi, avendo ottenuto il supporto dell’Unione Sovietica in un primo istante per poi essere abbandonata anche da quest’ultima, essendo Mosca accordatasi con il governo di Teheran per le concessioni petrolifere della regione.

 

Da allora i curdi hanno patito ogni tipologia di persecuzione nei relativi stati di residenza, con oltremodo scarso interesse da parte di tutta la comunità internazionale. Da non dimenticare il gravissimo episodio accaduto nel 1988, quando l’inutile conflitto tra Iran e Iraq ormai volgeva al termine. Infatti in questa data Saddam Hussein avviò lo sterminio sistematico dei curdi iracheni, il cui episodio più macabro fu l’attacco di Halabja perpetrato con gas nervino Sarin, che reclamò la vita di oltre 5.000 persone. Alla fine delle operazioni di Saddam nella regione si stimarono oltre 100.000 morti.

 

Nel recente passato, già all’interno del contesto della guerra civile siriana e in generale alla lotta dello stato islamico, il Kurdistan iracheno aveva votato in un referendum il 25 dicembre 2017 per ottenere la propria indipendenza da Baghdad. Questa, come non è difficile immaginare, non è mai stata concessa dal governo nonostante la liberazione dell’Iraq settentrionale dall’IS fosse stata anche in buona parte merito delle forze di sicurezza curde.

 

Questo tributo di sangue è stato pagato lautamente anche sul fronte siriano, dove da alcuni anni le forze curde occupano circa un quarto del territorio totale nel nord-est del paese, compresi gli importanti pozzi di petrolio al di là dell’Eufrate, avendo creato di fatto un proto-stato all’interno dei confini della Siria di Bashar al-Assad. In questi anni sono stati i curdi a combattere in prima fila i miliziani dell’IS mentre le potenze occidentali non hanno voluto immischiarsi politicamente nell’ennesimo ginepraio mediorientale e decidevano di fornire solamente supporto aereo e nulla più.

 

Sono state le YPG, le Unità curde di Protezione Popolare, a conquistare, nel 2017, Mosul, la roccaforte irachena dell’IS dalla quale Abu Bakr al-Baghdadi lanciò il suo discorso dando vita allo stato islamico, e anche Raqqa, la capitale stessa dell’IS.

 

È importante non dimenticare mai come gli osservatori internazionali parlino di circa 11.000 curdi, tra combattenti e civili, caduti dal 2014 ad oggi negli scontri contro lo stato islamico. Queste, tuttavia, sono solamente stime non definitive. In un conflitto che dura da 8 anni e che conta ormai quasi 500.000 morti fare una stima precisa dei caduti delle varie fazioni belligeranti risulta quanto mai complesso.

 

Come possiamo vedere da questa breve analisi, l’intera storia dei curdi è stata dominata da lotte per la propria indipendenza e da tradimenti perpetrati dalle grandi potenze di turno. Ed è proprio in questo contesto che si inseriscono le dichiarazioni dell’inquilino della Casa Bianca. Le sue parole hanno destato stupore e incredulità non solo tra le cancellerie di tutto il mondo, ma anche all’interno del suo stesso governo ed establishment.

 

Questi vedono senza mezzi termini la decisione del presidente come fortemente destabilizzante per l’intera regione, soprattutto per gli obiettivi a medio e lungo termine che gli Stati Uniti si erano posti quando avevano deciso di intervenire in Siria. Il ritiro delle forze americane e tutte le conseguenze a cui ciò porterà distrugge in pochi giorni il sottilissimo equilibrio creatosi dopo anni e anni di ostilità tra le fazioni. Ora che le carte sono state mischiate nuovamente, il tavolo dei giocatori si ritroverà privato di un importante protagonista.

 

È dal dicembre 2018 che Donald Trump ha il chiodo fisso del ritiro delle proprie truppe dalla Siria. Infatti è proprio in questa data che il presidente americano annunciò la sconfitta dello stato islamico, motivo per cui iniziò a ritenere superflua una permanenza ulteriore delle proprie forze nell’area. Nonostante non fosse stato effettuato un massiccio dispiegamento di forze, gli Stati Uniti sono, o forse è meglio ormai dire erano, presenti in Siria dal 2014 in poi. Il personale qui era composto da circa un migliaio di soldati delle forze speciali, il cui compito era di supportare, addestrare e coadiuvare le forze di sicurezza curde.

 

Trump nel 2018 era appena uscito dal Mid-Term indebolito, avendo perso la Camera ai democratici, così probabilmente decise di voler riguadagnare consensi in maniera rapida e indolore. Infatti tra le varie promesse elettorali di Trump vi sono sempre state sia la sconfitta dell’IS sia il ritiro completo delle truppe statunitensi dai teatri di conflitto mediorientale, vero e proprio salasso per l’economia d’oltreoceano.

 

Nonostante questa convinzione del tutto malriposta, il presidente americano fu dissuaso dalla sua stessa amministrazione, nonché dal Pentagono e dalla C.I.A., come confermato da svariate testate statunitensi, dall’agire in questo senso, convincendolo invece di optare per un ritiro graduale delle proprie truppe. Questo in modo che le forze di sicurezza curde potessero divenire col tempo autonome e indipendenti nella loro lotta contro lo stato islamico. Nel corso dei mesi successivi Trump ha provato a mediare con il governo turco per creare un’area cuscinetto tra Turchia e Siria a gestione congiunta, ma le tensioni tra Washington e Ankara hanno prevalso traducendosi in un nulla di fatto. Questi dissapori hanno avuto il loro apice la scorsa estate, quando è arrivata conferma ufficiale da parte della Turchia dell’acquisto di batterie dei missili terra-aria S-400 di produzione russa, cosa che ha causato anche la sospensione della Turchia dal programma F-35.

 

Nonostante il temporeggiamento di 10 mesi, era prevedibile che Donald Trump tornasse sui suoi passi in merito alla sconfitta dell’IS. Non per niente, le elezioni del 2020 sono sempre più vicine ed è in questo contesto che si inquadra l’annuncio del 7 ottobre scorso. Sin dalle prime ore dopo la dichiarazione, la sensazione percepita sia dalle varie cancellerie estere sia dalla gente comune nei confronti dei curdi è stata quella di essere di fronte a un vero e proprio tradimento.

 

Armati e finanziati sin dal 2014 per combattere le forze dello stato islamico (e anche le forze filo-russe del presidente Assad), i curdi sono stati usati per combattere una guerra in cui i paesi occidentali non volevano essere coinvolti per le conseguenze sulle proprie economie e sul consenso interno. Ancora peggio, durante tutti questi anni è stato fatto credere ai curdi che se avessero combattuto nelle desolate lande del deserto siriano alla fine del conflitto si sarebbero potuti presentare come un attore alla pari al tavolo degli accordi di pace per finalmente ottenere un pezzo di terra che potessero chiamare casa. Ora invece sono stati abbandonati ancora una volta, per di più a fronteggiare le forze del secondo esercito della NATO. È lecito ricordare infatti che la Turchia vanta un esercito con più di 400.000 effettivi nonché tecnologie moderne al proprio servizio fornite prontamente negli anni da tutte le nazioni occidentali (Germania in primis).

 

A seguito dell’invasione turca del nord della Siria, Trump ha cercato con il suo solito atteggiamento di ricucire lo strappo appena provocato. Da un lato ha tentato di rassicurare la comunità internazionale, affermando in un primo momento di essere “pronto a spazzare via l'economia turca” qualora venissero messe in atto “azioni off limits” per poi passare ai fatti imponendo dazi sull’acciaio turco. Dall’altro ha cercato di giustificare in maniera quanto mai ridicola la sua decisione di ritirarsi dalla Siria, affermando che i curdi “non hanno combattuto nella seconda guerra mondiale o in Normandia” e che quindi le cose è giusto che siano andate così.

 

A parte la distanza di 4.000 km che separa la regione d’origine dei curdi dalla Normandia, queste affermazioni si commentano da sole. L’arte millenaria del bastone e della carota coniugata secondo Donald Trump.

 

Nonostante questo atteggiamento che poco si addice a un inquilino della Casa Bianca, tale strategia non è da imputare meramente alla personalità di Trump. Nella loro storia gli Stati Uniti non sono stati estranei a questo tipo di giochetti, ovvero coltivare rapporti economici e militari con gruppi ribelli e paramilitari per un certo periodo di tempo per poi lasciarli al loro destino una volta consumata la loro utilità.

 

Un esempio fra tutti è l’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979-1989), dove gli Stati Uniti armarono i mujahiddin in chiave antisovietica per poi abbandonarli a fine conflitto. Tanta fu la presa di distanze nei confronti del popolo afgano che Washington richiamò il proprio personale diplomatico da Kabul, lasciando il paese dopo 10 anni di guerra alla mercé dei talebani. Sappiamo tutti poi com’è finita quella storia l’11 settembre del 2001.

 

Al di là degli interessi politici di questa o quella amministrazione, il ritiro delle forze statunitensi dal conflitto siriano può essere inquadrato in quel processo che ha preso il via con l’amministrazione Obama di dosaggio e centellinamento del coinvolgimento di Washington in teatri di conflitto esteri. Infatti da un po’ di anni a questa parte i vertici americani si stanno sempre più domandando in quali scenari valga la pena essere coinvolti e in quali no, essendo le risorse a disposizione dell’economia americana, e quindi della sua macchina da guerra, non più abbondanti come alcuni decenni fa.

 

La crisi economica del 2008, l’affermarsi di un mondo multipolare e l’aumento delle minacce asimmetriche ha reso gli Stati Uniti una potenza in declino, la quale per mantenere il suo status di primato mondiale deve decidere con parsimonia dove impiegare le proprie forze e in che misura farlo. Il rischio di una non oculata gestione dei propri impegni militari non è altro che il cosiddetto overstreching, ovvero l’impiego di risorse maggiori nei conflitti di quelle che si hanno a disposizione. È un fenomeno già visto nel corso della storia, basti pensare a tutti i più grandi imperi della storia, Roma in primis. Tutti sono caduti in questa trappola e Washington sta vivendo un momento cruciale in tal senso.

 

L’altro protagonista di questa vicenda è la Turchia di Recep Erdogan. Definito da molti il nuovo sultano di Istanbul, Erdogan ha colto un’opportunità che attendeva da lungo tempo. Non è un segreto infatti che gli occhi della Turchia fossero puntati oltre il confine siriano. Basti pensare che già in passato il governo di Ankara aveva intrapreso operazioni militari nei territori di Damasco, ovvero “Scudo dell’Eufrate” nel 2016 e “Ramo d’Ulivo” nel 2018, per ritagliarsi una sempre maggiore voce all’interno delle dinamiche del conflitto, sempre in funzione anti curda.

 

A seguito dell’annuncio di Trump, nella notte tra l’8 e il 9 ottobre, truppe regolari e milizie islamiste filo turche hanno varcato il confine siriano per dare inizio alla cosiddetta operazione “Sorgente di pace”. Qui sono entrate subito in scontro aperto con le Forze Democratiche Siriane (SDF), una coalizione a maggioranza curda di cui fanno parte le Unità curde di Protezione Popolare (YPG).

 

Queste ultime in particolar modo sono tra gli obiettivi principali di Ankara, poiché considerate vere e proprie organizzazioni terroristiche affiliate al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), movimento politico interno alla Turchia in conflitto con il governo centrale da oltre trent’anni. Questo scontro, tra fasi di violenza alterna sia da parte turca che da parte curda, ha causato nel tempo oltre 40.000 morti, il tutto dovuto a un timore costante da parte dell’autorità centrale turca di una secessione della regione a maggioranza curda, la quale conta più di 20 milioni di abitanti.

 

Gli obiettivi militari della Turchia coinvolgono la popolazione curda della regione, anche se dedurre le intenzioni ultime di Ankara è molto difficile. Sicuramente uno dei traguardi a medio termine di Erdogan è la creazione di una zona cuscinetto larga circa 30 km a ridosso del confine siriano dove eliminare definitivamente la presenza curda. In questo modo la Turchia creerebbe una zona di “buffer” tra i propri confini e i territori storicamente occupati dai curdi.

 

Per garantirsi il controllo di questa regione, il sultano probabilmente ha in mente di spostarvi i 3,6 milioni di rifugiati siriani riversatisi in Turchia dall’inizio della guerra. Non bisogna dimenticare infatti che la Turchia è stato il paese maggiormente colpito dal flusso di profughi dall’inizio del conflitto. Essendo questi rifugiati di maggioranza araba, per Erdogan sarebbe un’assicurazione a lungo termine lungo tutto il proprio confine sud. Tuttavia l’obiettivo ultimo sarebbe di gran lunga peggiore, ovvero la distruzione di ogni prospettiva di uno stato curdo unificato. Spostando i rifugiati siriani, l’intenzione di Erdogan è quella di creare una frammentazione etnica all’interno del territorio curdo così da evitare nel prossimo futuro una qualsiasi sorta di unificazione avvallata dalla comunità internazionale.

 

Un altro obiettivo, questa volta sul fronte interno, sarebbe quello di aumentare i consensi del partito al potere e di distrarre in qualche modo l’opinione pubblica dai vari problemi del quotidiano. Non è un segreto infatti che l’inflazione in Turchia è cresciuta del 16,3% nel 2018, mentre le stime del Ministero dell’Economia parlano di una crescita del PIL dello 0,5% per il 2019. Inoltre una voce di spesa considerevole sulle casse dello stato sono i 37 miliardi di dollari spesi dal 2011 in poi nella gestione dei profughi di guerra siriani.

 

A causa di queste spese negli ultimi anni si è potuto assistere a una vera e propria polarizzazione dell’opinione pubblica turca nei confronti dei rifugiati siriani, considerati delle autentiche sanguisughe dell’economia anatolica. La volontà di liberarsi il prima possibile di questa fiumana di persone è anche uno dei motivi per cui Erdogan ha minacciato Bruxelles nelle prime ore successive all’invasione di riversare centinaia di migliaia di profughi verso l’Europa Occidentale qualora vengano presi provvedimenti economici o politici nei confronti di Ankara, rendendo così reale uno degli incubi peggiori di tutte le cancellerie del Vecchio Continente.

 

Oltre alle cause che hanno portato a questa infausta azione militare, è interessante anche analizzare le possibili conseguenze a cui si potrà giungere. Innanzitutto l’intervento turco ha mostrato al mondo quanto gli Stati Uniti contino sempre meno nella regione e invece al contrario quanto si stiano affermando svariate potenze regionali minori ma comunque importanti (Turchia, Iran).

 

Alcuni analisti hanno supposto che Trump abbia fatto l’annuncio del ritiro per favorire in comune accordo segreto la Turchia nel contesto siriano. Questo come segno di buona volontà per ricucire i rapporti con Ankara dopo la vendita dei missili S-400 da parte della Russia. Ciò tuttavia allontanerebbe gli Stati Uniti dall’ottenere uno dei suoi obiettivi cardine nella regione, ovvero combattere l’influenza di Teheran in Medio Oriente. Infatti abbandonare il campo in Siria significa solamente lasciare libero il corridoio che dall’Iran arriva in Libano passando per Siria e Iraq, creando così una congiunzione territoriale di vitale importanza per tutte le milizie sciite della regione.

 

In questa maniera non solo la politica di contenimento statunitense verrebbe completamente vanificata, ma porterebbe a essere sempre più accerchiati i principali alleati di Washington nella regione, ovvero Israele e Arabia Saudita.

 

Un altro rischio è che gli innumerevoli prigionieri appartenenti all’IS detenuti attualmente nei campi di prigionia dei curdi durante il caos del conflitto riescano a scappare e a riorganizzarsi per riprendere la lotta armata, sia in Medio Oriente che all’estero. Infatti è improbabile che questi miliziani liberati rimangano nel deserto siriano, dove ormai la loro guerra è persa, ma è invece molto verosimile che si spostino verso altre nazioni dove il califfato ha attecchito ma deficita ancora di organizzazione oppure in nazioni occidentali dove poter riprendere la scia di attentati a cui i telegiornali ci avevano abituato fino a qualche anno fa.

 

Per quanto in questo momento possa sembrare in una posizione di forza, la Turchia si è esposta molto intraprendendo l’azione militare in Siria. In primis politicamente presso la comunità internazionale, perdendo molta credibilità nei confronti dei suoi partner esteri. In secundis, Ankara sopravvaluta la solidità della propria economia a medio e a lungo termine. Infatti è altamente improbabile che la Turchia possa sostenere un conflitto prolungato con i curdi date le sue scarne risorse economiche. Questo è uno dei motivi per i quali sin dalle prime fasi dell’offensiva Erdogan si è avvalso delle milizie islamiste filo-turche già presenti in Siria, fornendo solamente supporto con artiglieria e aviazione.

 

Questo legame tra le milizie ed Erdogan non è mai stato chiarito del tutto, tant’è che ancora oggi rimangono senza risposta le domande sollevate dalle immagini fornite dall’Intelligence russa di camion di petrolio dell’IS in viaggio verso il confine turco. Le ombre su questo legame ancora oggi mancano di una appropriata attenzione. Da ultimo, il rischio più grande per Erdogan sono i curdi che risiedono all’interno dei propri confini. Essendo la zona del conflitto ampiamente popolata da civili, è molto facile che questi vengano coinvolti negli scontri e che ne rimangano vittime. Questo potrebbe indurre i curdi presenti nel sud della Turchia a riprendere la lotta armata come in passato con azioni terroristiche contro il governo centrale, creando una catena di violenza veramente difficile da spezzare.

 

Tuttavia ciò che sarà l’outcome finale dell’intervento armato turco è stato in parte deciso nella notte tra il 13 e il 14 ottobre. In questa data infatti, rappresentanti dei curdi e del governo di Damasco si sono incontrati presso la base aerea russa di Latakia per giungere a un accordo. Il luogo dell’accordo in sé può già far intendere molte cose.

 

Dopo appena una settimana di combattimenti, i curdi, consapevoli della loro inferiorità sul campo ma soprattutto dell’assenza di un partner internazionale che perorasse la propria causa, si sono rivolti all’unico attore nella regione interessato al raggiungimento di un accordo. Non è un segreto infatti che Assad abbia progettato per lungo tempo di tornare in possesso del nord-est siriano occupato da curdi e americani. Questo accordo ha siglato il sogno del presidente siriano, ponendo fine alla separazione de facto (ma mai de iure) della Siria curda. Già in passato Assad aveva tentato di accordarsi con i curdi, i quali però avevano rifiutato le condizioni del presidente pensando di poter pretendere di più grazie alla protezione statunitense. Niente di più sbagliato.

 

L’accordo siglato riguarderebbe le città di Kobane e Manbij, a ovest dell'Eufrate, come anche Raqqa e i pozzi petroliferi nell’estremo est del paese. Già poche ore dopo l’accordo soldati regolari di Damasco, coadiuvati sul campo da truppe di terra russe, hanno occupato le città e gli snodi principali, dando tregua ai combattenti curdi, i quali sono riusciti in certi punti del fronte anche a contrattaccare le forze turche.

 

In questa maniera non solo Assad ha praticamente riunificato la quasi totalità del paese, recuperando i preziosi giacimenti petroliferi del nord, ma ha anche eliminato il problema dell’occupazione curda senza passare per un aggressore agli occhi della comunità internazionale.

 

Oltre alla presenza dei militari di Damasco, gli accordi dovrebbero prevedere anche la nascita di una provincia semi-autonoma curda nel nord del paese, sempre però sotto l’autorità del governo centrale di Damasco. Gli estremi di dettaglio non sono ancora noti, tanto che si parla di clausole abbastanza vaghe. Il timore è che Assad si riveli un partner inaffidabile, come dimostrato più volte in passato ai danni di molte milizie che negli anni si sono arrese ma che hanno ottenuto un trattamento tutto fuorché umano. Questa volta però gli occhi del mondo intero sono puntati su Assad, e quindi di riflesso anche su Mosca, ed è lecito sperare in un cambio di rotta almeno sulla questione curda.

 

A seguito degli accordi è emerso più che mai l’affermarsi della Russia come vincitore della contesa con gli altri attori coinvolti nel conflitto. Supportando Assad sin dal principio e mantenendo una politica poco incline alla flessibilità, il Cremlino esce fortemente rafforzato dagli accordi con i curdi, dimostrando al mondo intero di essere uno dei pochi attori internazionali capaci di interloquire con le nazioni e le fazioni in Medio Oriente e diventando così un punto di riferimento per la regione.

 

Era più che naturale che i curdi, abbandonati dagli Stati Uniti e dall’Occidente ancora una volta, si rivolgessero all’unica potenza rimasta in Siria che ne potesse garantire la sopravvivenza. Ad oggi dopo 8 anni di guerra, a parte la Turchia invadente, la Russia rimane l’unica forza internazionale in Siria. Come dice una celebre citazione filosofica, la natura non ama il vuoto, e sembra che lo stesso principio valga anche in politica.

 

In conclusione, il popolo curdo e l’intera comunità internazionale sono stati colti completamente di sorpresa dall’annuncio degli Stati Uniti di ritirarsi dalla Siria. Questa decisione del tutto discutibile ha portato a una catena di eventi di cui ancora non si può vedere la conclusione ma che sicuramente porteranno caos e instabilità nella regione per un periodo indefinito.

 

Gli Stati Uniti si sono macchiati di una colpa molto grave, ovvero abbandonare un alleato essenziale in una regione in cui gli alleati sono ormai cosa rara. Ma al di là di ogni convenienza politica, Washington ha illuso un popolo promettendo di perorare la sua causa al tavolo della comunità internazionale per poi abbandonarlo senza troppi scrupoli quando la sua utilità era volta al termine.

 

La conseguenza più grave per la Casa Bianca, ma di cui ancora si deve rendere conto, è che la sua credibilità nel mondo è ora a rischio più che mai. La cosa grave è che i curdi non sono l’unico popolo usato e dimenticato dagli Stati Uniti o dalle nazioni occidentali. L’elenco potrebbe essere veramente lungo: Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, Yemen, Sudan.

 

Imparare dai propri errori non sembra essere una prerogativa occidentale in questo momento storico né sembra esserlo stata nell’ultimo secolo. Da tutta questa situazione non sembrano uscire vincitori ma solamente sconfitti, e la prima a essere stata sconfitta è la credibilità americana, e quindi di riflesso, purtroppo, anche tutta quella occidentale.



 

 

 

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