Sulla cultura
umanistico-rinascimentale
l’offuscamento del passato
di
Federica Ambroso
Tra
la fine del Trecento e l’inizio del
Quattrocento, si diffuse
progressivamente in tutta Europa una
nuova visione del mondo che scosse
dalle fondamenta le convinzioni che
per secoli non erano mai state messe
in dubbio, e riportò in auge
l’interesse per la cultura, aprendo
gli occhi a un mondo da troppo tempo
stagnante nelle tenebre
dell’ignoranza.
Mentre nel Medioevo la struttura
sociale gerarchica e statica e
l’economia chiusa trovarono un
corrispettivo in una visione statica
della realtà, teocentrista, permeata
dalla religiosità, nel Rinascimento
i nuovi ceti comunali si
indirizzarono verso
l’antropocentrismo, rivalutando la
figura umana e l’importanza di
sondare la realtà per conoscere ciò
che è al di là del già conosciuto.
Innanzitutto, si intese appunto far
luce sulla dignità dell’uomo, essere
libero per natura, protagonista
della storia; Pico della Mirandola,
nella sua De hominis dignitate,
lo definì persino “creatore di se
stesso”.
L’uomo rinascimentale è “faber
fortunae suae”, e ha diritto di
essere felice in questa vita,
godendo appieno dei beni materiali
senza sensi di colpa, senza
vergogna. Egli è quindi un uomo
spregiudicato, che si dedica alla
vita attiva, orgoglioso di ciò che è
e può fare, impiegando le sue
risorse in quanto mezzi che Dio ha
messo a disposizione per la sua
felicità.
La
tensione al trascendente tipica
della visione medievale implicava
invece la svalutazione della vita
terrena; il fine della vita umana
era unicamente il raggiungimento
della salvezza eterna, ostacolato
dal peso della carne, del peccato.
L’uomo doveva quindi mortificarsi
con digiuno, punizioni, preghiera.
Questa visione ascetica portava
inevitabilmente a disprezzare il
mondo in quanto legato alla vita
terrena; un’importante testimonianza
di ciò ci è fornita dall’opera di
Innocenzo III, il De contemptu
mundi.
Mentre l’ideale dell’uomo medievale
era il monaco, quindi uno stile di
vita contemplativo, nel Rinascimento
esso è un uomo che va oltre i vecchi
orizzonti, vivendo attivamente: il
banchiere, il mercante, il capitano
di ventura, il navigatore…
L’esaltazione dell’uomo e dei valori
terreni era stato un tema ampiamente
trattato dai classici, e gli
intellettuali del Rinascimento non
poterono che ritrovare i loro ideali
nelle opere antiche. Si diffuse così
l’amore per i modelli greci e
latini, che incentivò la loro
riscoperta. L’approccio a queste
opere fu innovativo, profondamente
diverso da quello medievale. Nel
Medioevo si riconosceva il valore
dei classici, ma se ne dava una
lettura allegorica, cristianizzata,
che mirava a cogliere significati
nascosti concordi con i dogmi
cristiani, che avrebbero dovuto
prefigurare e anticipare le verità
del Cristianesimo; si ricordi ad
esempio che Virgilio fu a lungo
ritenuto annunciatore della venuta
di Cristo, per il contenuto della IV
Bucolica, che profetizzava la
nascita di un puer che
avrebbe portato una nuova età
dell’oro. I classici erano
sottoposti a una sorta di “censura”
che doveva renderli compatibili con
gli ideali cristiani, ed erano
fortemente attualizzati.
Nel
Rinascimento, più precisamente
durante l’Umanesimo, invece, la
lettura dei classici fu di tipo
storico; gli umanisti cercarono di
cogliere l’autentico significato di
quelle opere, di recuperarle nella
loro fisionomia autentica e
originaria, collocandole nel
contesto dell’epoca in cui erano
state prodotte, vale a dire
storicizzandole. Gli umanisti,
chiamati così proprio perché
definirono la letteratura classica
“humanae litterae” in quanto,
come scrisse Leonardo da Vinci,
“formano l’uomo completo”, credevano
nella superiorità degli antichi, e
cercavano nelle loro opere verità
insuperabili.
Si
ebbe così un cambiamento
quantitativo e qualitativo:
quantitativo perché si diffuse una
maggior conoscenza dei classici e
della letteratura greca, grazie
anche all’arrivo di dotti greci
spinti in Italia dalla minaccia dei
Turchi, che recavano con sé opere
antiche, qualitativo perché si cercò
di comprendere appieno l’autentico
pensiero degli antichi. A questo
proposito nacque una nuova
disciplina, la filologia, la scienza
della parola, che rappresentò un
forte elemento di stacco con il
passato medievale; grazie a essa, lo
studioso Lorenzo Valla fu in grado
di dimostrare la falsità della
famosa “Donazione di Costantino”,
sulla quale i papi avevano basato la
loro aspirazione a estendere il loro
dominio territoriale.
Un’altra importante novità del
Rinascimento fu la laicizzazione
della cultura: essa iniziò a essere
considerata autonoma dalla Chiesa, e
gli intellettuali rivendicarono il
diritto alla libera ricerca. Nel
Medioevo, la figura
dell’intellettuale si identificava
con quella del chierico, e non
esisteva il concetto di originalità
creativa. Il copista doveva
riprendere gli insegnamenti del
passato riproducendoli come erano
stati tramandati, in quanto essi
erano depositari dell’auctoritas,
un’autorità della tradizione che
non poteva essere messa in
discussione. Si pensava che la
verità fosse stata data una volta
per tutte, e la conoscenza si
identificava con l’accettazione di
tale verità. Sulla base della
Scolastica, si riteneva che la fede
cristiana si basasse sui fondamenti
della religione; la religione aveva
un primato sulla cultura, e il
sapere doveva essere sistemato in un
ordine unitario che rispecchiasse
quello del mondo, subordinato alla
legge di Dio.
Nel
Rinascimento si diffuse una nuova
figura di intellettuale: il
cortigiano, una figura laica, legata
alla corte di un signore. Gli
intellettuali potevano essere
accolti a corte da un mecenate, un
signore che si circondava di artisti
che davano lustro allo Stato e li
manteneva in cambio dei loro
servigi. Tuttavia, la figura
dell’intellettuale di corte
presentava anche alcuni aspetti
negativi: la corte era una “gabbia
dorata”, l’intellettuale viveva
immerso nel lusso, negli agi, ma non
aveva la possibilità di partecipare
attivamente alla vita politica ed
era subordinato alla volontà del
signore, condizionato da lui; chiuso
in quel mondo abbagliante e
raffinato, si disinteressava del
mondo esterno, fino a diventare
sprezzante e indifferente verso il
popolo.
La
diffusione della cultura nel
Rinascimento si dovette anche e
soprattutto all’invenzione della
stampa a caratteri mobili a opera di
Johann Gutenberg. I libri stampati
erano meno costosi, più maneggevoli,
facilmente reperibili, e questo
all’apparenza consentì una maggior
circolazione degli scritti e della
cultura umanistica, anche se in
realtà bisogna ricordare che la
maggior parte della popolazione era
analfabeta, quindi si venne a creare
più che altro un aristocraticismo
della cultura umanistica, dimostrato
dal proliferare di accademie di
letterati italiani, come l’Accademia
aldina.
L’interesse rinascimentale per
l’uomo e la natura fu alla base del
progresso scientifico caratteristico
di quel periodo. Anche la scienza
infatti rivendicò l’autonomia dalla
Chiesa; gli scienziati vollero
condurre un’osservazione diretta
della natura, mettendo in
discussione l’autorità della
tradizione che non si era mai osato
mettere in dubbio nel Medioevo,
cercando di riprodurre
“artificialmente” la natura e
misurare matematicamente ciò che si
vede.
Galileo affermò l’autonomia della
scienza, poiché essa ci dice “come
vadia il cielo”, mentre la fede
“come si vadia al cielo”, intendendo
con ciò che la Bibbia non è un
manuale scientifico, non deve essere
presa alla lettera, né si deve
cercare in essa la spiegazione
scientifica dei fenomeni naturali;
scienza e fede sono due ambiti
separati, che rispondono a diversi
interrogativi dell’uomo.
Il
metodo dell’osservazione diretta dei
fenomeni consentì di ampliare le
conoscenze nel campo della biologia,
della zoologia, della botanica,
dell’anatomia, che fu basata sulla
dissezione dei cadaveri. Importanti
scienziati di quel periodo furono
Andrea Vesalio e Leonardo da Vinci.
Nel
Cinquecento si verificò una vera e
propria rivoluzione nel campo
dell’astronomia: Niccolò Copernico
affermò che era la Terra a girare
intorno al Sole, al contrario di
quanto si era sempre creduto; questa
affermazione ebbe importanti
conseguenze anche sulla visione
dell’uomo e quindi investì anche
l’ambito teologico, morale e
sociale. La rivoluzione scientifica,
iniziata con l’ipotesi eliocentrista,
proseguita con Brahe, Keplero,
Galilei, finì 150 anni dopo, con
Isaac Newton, che portò a compimento
l’immagine meccanica dell’universo.
La
Chiesa, sostenuta dai misoneisti, si
oppose all’emancipazione della
scienza e della cultura, e tentò di
mantenere un controllo sulla
diffusione del sapere; una delle
vittime del dogmatismo fu Giordano
Bruno, bruciato sul rogo con
l’accusa di aver rivendicato
l’autonomia culturale e di non aver
ritrattato.
In
questo clima di evoluzione del
pensiero e di rivalutazione
dell’uomo, si diffuse anche una
nuova concezione realistica e laica
della storia e della politica. Si
iniziò a pensare che tutto ciò che
accadeva dipendesse dai meriti o dai
demeriti degli uomini e dalla sorte,
e che la conoscenza e lo studio del
passato dovessero offrire un
insegnamento. Nel Medioevo, invece,
la storia era concepita in senso
provvidenzialistico: l’uomo era
considerato un attore sulla scena
della storia, tutto ciò che accadeva
doveva dipendere da Dio, regista
delle azioni umane.
Nel
Rinascimento, con l’affermazione
dello Stato moderno, tramontò anche
l’ideale universalistico, mentre si
diffuse una concezione amorale della
politica, i cui principali
teorizzatori furono Niccolò
Machiavelli e Francesco
Guicciardini. Machiavelli affermò
l’autonomia della politica e la
necessità di desacralizzarla,
sostenendo che essa è regolata da
leggi specifiche, distinte da quelle
morali o religiose; lo statista deve
essere spregiudicato, usare al
meglio le sue virtù e mirare
all’ordine dello Stato.
La
politica rinascimentale fu dominata
anche dal contrasto fra utopisti,
desiderosi, sulle orme di Thomas
Moore, di un mondo più giusto, e
realisti, convinti che la giustizia
non si potrà mai realizzare: i primi
accusavano i realisti di essere
cinici conservatori, e di coprire la
loro contrarietà alla giustizia con
il pretesto che essa è difficile da
realizzare, i realisti a loro volta
accusavano gli utopisti di essere
inconcludenti.
In
ogni caso, nel Rinascimento ha preso
avvio un processo di evoluzione
culturale e sociale che ha scosso il
mondo dal torpore del Medioevo, gli
ha lentamente dato colore, ne ha
scoperto pian piano i volti più
nascosti, vincendo le barriere
invisibili dell’ignoto, fendendo il
confine tra dubbio e possibilità,
dimostrando quanto l’uomo possa
essere, grazie al suo intelletto, “faber
fortunae suae”.