N. 122 - Febbraio 2018
(CLIII)
Il culto dei santi nel Medioevo
vettore fondamentale per un’identità europea
di Piero Nabisso
Nell’Europa
medievale,
il
cristianesimo
fornì
senza
dubbio
un’omogeneità
e
un’identità
culturale
agli
stessi
europei,
ma
al
tempo
stesso
è
opportuno
fare
delle
precisazioni.
In
primo
luogo
non
bisogna
dimenticare
che
il
cristianesimo
è
sorto
e si
è
affermato,
inizialmente,
come
una
religione
di
matrice
orientale;
è
una
religione
che
non
si è
mai
accontentata
di
essere,
soltanto,
una
religione
europea,
perché
ha
sempre
cercato
di
mantenere
la
propria
vocazione
universalistica,
ma
ha
dovuto
molto
spesso
affrontare
il
problema
delle
diversità
sia
nell’antagonismo
con
le
altre
grandi
costellazioni
religiose
dell’età
medievale,
l’Islam
e
l’ebraismo,
sia
nella
lotta
contro
il
paganesimo.
Infine
ha
dovuto
affrontare
il
problema
delle
fratture
interne,
dall’arianesimo
alle
differenti
eresie
che
si
sono
sviluppate
nel
corso
dell’epoca
medievale,
fino
ad
arrivare
allo
scisma
del
1054
tra
Chiesa
d’Occidente
e
Chiesa
d’Oriente
che
ha
portato
a
una
spaccatura,
ancora
tutt’ora
non
ricomposta,
dell’Europa
cristiana
in
due
Chiese.
Il
cristianesimo,
però,
ha
rappresentato,
anche,
uno
dei
mezzi
che
ha
permesso
la
fusione
delle
diverse
culture
dei
romani
e
dei
germani;
secondo
Edward
Gibbon
(History
of
Decline
and
Fall
of
Roman
Empire)
le
origini
dell’Europa
devono
essere
rintracciate
in
questa
commistione
fra
i
popoli
del
Nord,
il
mondo
romano
e il
cristianesimo.
Analoga
risulta
essere
la
posizione
espressa
da
Christopher
Dawson
il
quale
afferma
in
Making
of
Europe
che
la
Chiesa
Cattolica
ha
rappresentato
un
fattore
rilevante
della
storia
dell’Europa,
“l’anello
spirituale
che
ha
congiunto
in
unità
i
discendenti
dei
vinti
romani
coi
loro
barbari
vincitori”,
permettendo,
pertanto,
la
fusione
dell’elemento
germanico
con
quello
romano.
Il
cristianesimo
è
stato,
forse,
il
carattere
più
originale
e
più
potente
perché
è
riuscito,
nel
corso
del
V
secolo,
con
la
sua
capacità
di
affermazione,
con
la
sua
organizzazione,
con
il
suo
clero
e
con
la
sua
legge
a
rappresentare
un
valido
strumento
di
tenuta
morale
e di
ordine
politico
e
sociale
in
grado
di
occupare
quell’enorme
vuoto
istituzionale
che
si
era
venuto
a
creare
in
seguito
alla
caduta
dell’impero
romano
d’Occidente.
Secondo
Gibbon
nessuna
civiltà
evoluta
fu
in
grado
di
uscire
fuori
da
questo
terribile
sconquasso
che
portò
al
“trionfo
della
religione
e
della
barbarie”
in
tutta
l’Europa
Occidentale;
solo
la
religione
cristiana,
in
quanto
forza
più
grezza
rispetto
alla
raffinata
cultura
di
Roma,
riuscì
a
sopravvivere
e,
successivamente,
a
controllare
i
popoli
del
Nord.
La
Chiesa
cristiana
è,
quindi,
riuscita
attraverso
una
potente
organizzazione,
che
ha
elaborato
i
principi
della
religione,
a
diffondersi
in
maniera
capillare
nella
società,
mediante
un’intensa
campagna
di
evangelizzazione
a
lungo
raggio,
e
sul
territorio,
con
la
costruzione
di
una
fitta
rete
di
arcivescovati,
diocesi
e
parrocchie,
ma
anche
di
abbazie
e
conventi.
Secondo
Richard
Hooker
l’età
medievale
ha
visto
l’introduzione
di
una
pratica
culturale
condivisa,
vale
a
dire
il
Cristianesimo,
definito
“la
tecnologia
che
iniziò
la
standardizzazione
delle
diverse
culture
europee”.
La
storia
dell’Europa
altomedievale
è
legata,
quindi,
all’acquisizione
da
parte
degli
europei
di
una
comune
visione
del
mondo,
quella
cristiana,
e
proprio
questa
religione
ha
rappresentato
il
collante
che
ha
permesso
il
compattamento
del
gruppo
multilinguistico
e
multiculturale
in
un’unica
popolazione,
quella
europea.
Il
Cristianesimo
è
stato
molto
più
di
un
semplice
orientamento
religioso,
ha
rappresentato
anche
un’istituzione
(la
Chiesa
cristiana),
ed
inoltre,
prima
della
nascita
delle
università,
anche
il
punto
di
riferimento
e
l’unica
forza
organizzativa
sia
sul
piano
culturale
(all’interno
dei
monasteri
e
nelle
sedi
episcopali)
sia
su
quello
linguistico
(la
lingua
ufficiale
era
il
latino),
e,
infine,
ha
esercitato
una
forte
influenza
sull’uomo
medievale
per
tutto
quello
che
era
inerente
la
concezione
del
tempo
e
dello
spazio.
Il
modo
di
percepire
queste
due
categorie
definisce
le
coordinate
culturali
fondamentali
di
un’epoca:
per
gran
parte
dell’epoca
medievale
il
tempo
apparteneva
unicamente
a
Dio,
era
il
tempo
della
Chiesa,
scandito
dalle
ore
canoniche
e
dal
suono
delle
campane
che
le
annunciavano
e
che
obbedivano
alle
esigenze
della
liturgia
e
non
a
quelle
della
produzione
economica
(almeno
in
questa
fase
l’ora
come
unità
produttiva
non
esisteva).
Lo
spazio
assoluto,
contenente
i
vari
corpi,
era
identificato
con
Dio,
pertanto
era
uno
spazio
che
non
risultava
essere
sotto
il
controllo
dell’uomo.
I
viaggi
erano
pericolosi,
difficili
e
lenti;
i
viaggiatori
assumevano,
prevalentemente,
l’aspetto
o di
guerrieri
(soprattutto
cavalieri)
o
dei
pellegrini
cristiani
che
si
recavano
in
visita
a
Roma
o a
santuari
o ad
altri
luoghi
di
culto.
I
pellegrinaggi
erano,
e
sono
ancora
oggi,
finalizzati
prevalentemente
al
culto
dei
santi.
Robert
Bartlett
in
The
Making
of
Europe:
Conquest,
Colonization,
and
Cultural
Change,
950-1350,
nonostante
le
critiche
di
minimalismo
rivolte
da
Chris
Wickham
e da
Miri
Rubin,
ritiene
il
vocabolario
dei
nomi
di
persona
e
l’universalità
dei
santi
i
fattori
primari
dell’omogeneizzazione
culturale
della
Cristianità
Latina.
A
partire
dalla
seconda
metà
del
V
secolo
e
fino
ad
arrivare
al
secolo
XII
la
storia
della
santità
in
Occidente
ha
abbracciato
realtà
periferiche
o
del
tutto
estranee
rispetto
al
territorio
dell’impero
romano:
dalla
Gallia
alle
isole
Britanniche,
da
queste
alla
Germania,
all’Europa
centrale
ed
orientale
e
alla
Scandinavia.
I
santi,
secondo
l’ottica
dell’uomo
cristiano
medievale,
erano
considerati
come
dei
leaders,
che
avevano
la
propria
dimora
in
una
sorta
di
“senato
celeste”,
ma
che
erano
ugualmente
presenti
sulla
terra,
come
guide
e
come
protettori
invisibili;
essendo
esistiti
realmente
come
uomini
in
carne
ed
ossa,
erano
la
dimostrazione
della
vittoria
e
del
dominio
dello
spirito
sulla
natura
e
sul
corpo.
Il
culto
dei
santi
ha
rappresentato
parte
integrante
del
comune
senso
religioso
dell’epoca
compresa
tra
il
Tardoantico
e il
Pieno
Medioevo.
Santuari
e
chiese
sono
divenute
centrali
di
energia
miracolosa,
istituite
e
gestite
dal
clero
e
dai
monaci
sulle
tombe
dei
grandi
santi
taumaturghi,
luoghi
elettivi
di
comunicazione
tra
la
terra
e il
cielo,
generatori
della
strutturazione
spaziale
e
temporale
della
società,
in
quanto
meta
privilegiata
dei
pellegrinaggi
e
fulcro
delle
celebrazioni
liturgiche;
insomma
questi
poli
di
una
nuova
geografia
sociale
hanno
permesso
la
fissazione
della
potenza
dell’invisibile
attraverso
la
sua
rappresentazione
efficace
in
oggetti
semiofori
(immagini,
reliquie).
La
tomba
del
santo
era
considerata,
quindi,
come
il
luogo
di
manifestazione
privilegiato
dell’unità
possibile
tra
umano
e
divino,
che
la
morte,
cioè
l’unione
dell’anima
a
Dio,
non
poteva
interrompere
ma
solo
potenziare.
Peter
Brown
in
La
formazione
dell’Europa
Cristiana.
Universalismo
e
diversità,
considera
di
particolare
rilevanza
il
culto
dei
santi
perché,
secondo
il
suo
parere,
ha
contribuito
ad
imporre
un
volto
cristiano
al
mondo
naturale,
in
quanto
creatore
di
abitudini
religiose
che
potevano
essere
osservate,
indistintamente,
da
tutti
i
membri
della
popolazione
cristiana.
Queste
abitudini
religiose
si
incentravano
sulla
nozione
di
reverentia,
intesa
come
un’attenzione
piena
di
rispetto
verso
i
santi.
Era
un’attenzione
rivolta
prevalentemente
verso
i
principali
santuari
che
erano
diventati
mete
di
pellegrinaggio,
in
quanto
vi
era
la
convinzione
e la
speranza
che,
anche
se i
santi
costituissero
la
“corte
celeste”
di
Dio,
risiedendo
in
cielo,
erano
ugualmente
attivi
e
presenti
sulla
terra
e
bastava
che
il
fedele
rivolgesse
loro
le
giuste
preghiere
per
riuscire
a
soddisfare
quelli
che
erano
i
suoi
bisogni
quotidiani.
Un
esempio
emblematico
in
tal
senso
è il
culto
di
uno
dei
santi
più
popolari
dell’età
medievale,
il
culto
di
San
Martino
(il
santo
nazionale
dei
francesi).
La
sua
figura
ha
rappresentato
appieno
il
simbolo
dell’integrazione
tra
la
tradizione
franca
e
quella
gallo-romana,
perché
ha
favorito
la
creazione
di
uno
stretto
legame
tra
la
Chiesa
e i
guerrieri
franchi,
connubio
che
avrà,
in
seguito,
la
sua
più
completa
dimostrazione
con
l’ascesa
al
potere
della
dinastia
carolingia.
Ex-soldato
dell’impero
romano,
convertitosi
e
battezzatosi
dopo
un
“incontro”
molto
suggestivo
con
Cristo,
sul
finire
del
IV
secolo
Martino
giunse
in
Gallia,
dove
divenne
monaco
e
discepolo
di
Ilario
di
Potiers.
Si
impegnò
in
un’intensa
campagna
di
evangelizzazione,
in
un
territorio
tutt’altro
che
omogeneo
dal
punto
di
vista
religioso,
contro
il
paganesimo
più
difficile
da
estirpare,
quello
che
non
si
rifaceva
alle
divinità
di
Roma,
ma
che
rivolgeva
la
propria
venerazione
ad
alberi
e
fonti,
che
ad
esempio
chiedeva
l’aiuto
del
divino
per
proteggere
il
raccolto
dalla
grandine.
Le
sue
virtutes,
il
suo
potere
efficace
di
santo
“patrono”
si
legarono
indissolubilmente
alla
città
di
Tours,
nella
quale
ricoprì
la
carica
di
vescovo
e
nella
quale
fu
sepolto
alla
sua
morte.
Tours
si
trovava,
intorno
al
460,
in
una
terra
di
nessuno,
in
un
vuoto
politico
tra
il
regno
visigoto
al
Sud
e le
province
di
frontiera,
ormai
senza
guida,
al
Nord
della
Gallia.
Il
santo
e la
sua
tomba
divennero,
quindi,
funzionali
allo
sviluppo
e
all’acquisizione
di
centralità
da
parte
della
città
francese,
anche
grazie
alla
costruzione
di
una
gigantesca
basilica
per
pellegrini,
arricchita
con
mosaici
raffiguranti
i
miracoli
del
santo
e
indici
efficacissimi
della
potentia
di
Martino,
la
cui
anima
era
sì
nelle
mani
di
Dio,
ma
era
sempre
presente
il
suo
potere
di
guarire
e di
punire.
Il
culto
ha,
quindi,
determinato
delle
profonde
trasformazioni
nell’organizzazione
dello
spazio
delle
città
e
delle
campagne.
Così
come
a
Tours
lo
spazio
è
stato
organizzato
intorno
ai
luoghi
della
devozione
al
santo,
fino
a
divenire
“la
città
di
Martino”,
lo
stesso
è
accaduto
in
molte
aree
europee
e
non,
ad
esempio
a
Roma
con
il
culto
dei
santi
Pietro
e
Paolo,
in
Terrasanta
e a
Santiago
de
Compostela
con
il
culto
di
San
Giacomo.
San
Giacomo
(il
santo
nazionale
di
Spagna)
è
l’apostolo
che
secondo
la
tradizione
avrebbe
portato
il
cristianesimo
in
Spagna,
che
dopo
esser
morto
in
Palestina
(decapitato
dagli
ebrei)
il
suo
corpo
sarebbe
stato
trasportato
da
una
barca
guidata
da
un
angelo
fino
alle
coste
della
Galizia,
per
essere
seppellito
a
Santiago
de
Compostela,
una
città
spagnola
situata
al
confine
dell’Europa
Occidentale,
nel
Finisterre
galiziano,
dove
secondo
la
concezione
dell’uomo
medievale
terminava
la
terra
conosciuta
e
cominciava
il
misterioso
e
insondabile
Oceano
Atlantico.
Compostela,
era
sì
una
meta
di
pellegrinaggio,
ma
rappresentava
anche
simbolicamente,
proprio
per
questa
sua
collocazione
geografica
alle
estreme
propaggini
dell’Europa
Occidentale,
la
sede
del
regno
dei
morti,
il
punto
di
arrivo
della
Via
Lattea,
battezzata
cammino
di
San
Giacomo,
il
luogo
della
grande
raccolta
delle
anime
dei
defunti
dirette
nel
regno
dei
morti,
e
San
Giacomo
rappresentava,
da
questo
punto
di
vista,
la
guida
giusta.
La
leggenda
narra
che
un
eremita,
guidato
da
una
stella,
avrebbe
riscoperto
proprio
a
Compostela
la
tomba
dell’apostolo
Giacomo,
un
santo
con
capacità
taumaturgiche
ed
esorciste;
per
l’uomo
medievale
era
presente
nell’ora
della
morte,
durante
il
tempo
del
passaggio
dell’anima
dalla
terra
verso
il
cielo,
nel
regno
dei
morti
e in
occasione
della
resurrezione
finale.
Il
pellegrinaggio
che
ne
scaturì,
al
di
là
del
mero
aspetto
religioso,
rappresentò
un
fondamentale
vettore
di
latinizzazione
nella
Reconquista
spagnola
perché
si
andò
sviluppando
l’idea
di
un
Occidente
baluardo
della
cristianità
e la
presenza
delle
spoglie
di
San
Giacomo
in
Galizia
costituì
l’evidente
dimostrazione
che
la
Penisola
Iberica
appartenesse
all’Occidente
cristiano,
e
come,
di
conseguenza,
fosse
necessario
cacciare
i
Mori.
Questo
incentivò
l’elaborazione
e la
formazione
di
un’identità
cristiana
che
doveva
spingere
tutti
gli
“europei”
a
porsi
a
difesa
della
fede
e a
porre
fine
alla
dominazione
islamica;
rappresentò,
quindi,
l’agglutinante
religioso
e
spirituale
capace
di
infondere
coraggio
e
forza
ai
cristiani
nella
lotta
contro
gli
infedeli.
Il
carattere
della
crociata
si
unì,
quindi,
anche
a
quello
della
venerazione
dell’apostolo,
che
fu
raffigurato
nell’iconografia
come
un
pellegrino,
ma
anche,
e
soprattutto
in
questa
fase,
come
un
santo
guerriero
mentre
combatte
a
cavallo
calpestando
con
gli
zoccoli
del
destriero
i
saraceni
nemici
della
fede.
Divenne,
insomma,
il
Matamoros,
un’immagine
che
scomparirà
dopo
la
vittoriosa
battaglia
di
Las
Navas
(1212)
e
che
ricomparirà,
tre
secoli
dopo,
in
America
Latina,
sotto
forma
di
Mataindios,
venendo,
quindi,
associato
alla
colonizzazione
del
Nuovo
Mondo.
Insomma
non
si
ha
altro
che
un
continuo
ripetersi
della
storia:
l’elemento
religioso
(in
questo
caso
il
culto
dei
santi)
è
risultato
essere
funzionale
alla
formazione
di
una
forte
identità
unitaria
cristiana,
ma
strettamente
legato,
anche,
ad
aspetti
politico-militari.