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[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 157 / GENNAIO 2021 (CLXXXVIII)


contemporanea

POCHI SECONDI ALLA MEZZANOTTE
LA CRISI DEI MISSILI DI CUBA / PARTE III

di Matteo Avallone

 

L’ExComm, tra le opzioni che aveva a disposizione, scelse di rispondere con il blocco navale di Cuba. Il termine che si preferì impiegare fu quello di “quarantena”, in quanto tecnicamente un blocco costituiva un atto di guerra. Le altre alternative vennero scartate perché troppo rischiose o ritenute lontane dall’apportare un effetto immediato.

 

Un appello alle Nazioni Unite avrebbe richiesto troppo tempo perché i membri dell’assemblea giungessero a una deliberazione. Oltretutto, che l’ONU possedesse l’hardpower per costringere i sovietici a una ritirata, era un’eventualità ritenuta altamente improbabile. Nel frattempo Krusciov avrebbe avuto tutto il tempo di completare lo schieramento delle proprie forze sull’isola e mettere il mondo di fronte al fatto compiuto.

 

All’altro lato dello spettro di un’azione di risposta vennero accantonate – per il momento – l’invasione di Cuba e un attacco aereo alle postazioni missilistiche, il quale non avrebbe garantito la distruzione completa e immediata delle stesse. Quelle rimanenti, di fronte all’aggressione, avrebbero potuto rispondere e lanciare i propri missili a titolo di rappresaglia, causando un’escalation.

 

Si scelse così di mobilitare la flotta e cingere Cuba con un cordone che impedisse l’arrivo di ulteriori rinforzi dall’URSS. Il 22 ottobre, Kennedy si rivolse alla nazione in un discorso televisivo nel quale annunciava la scoperta dei missili e l’inizio della quarantena su Cuba. Le battute finali del suo intervento contenevano un duro ultimatum all’Unione Sovietica perché ritirasse i missili. La crisi era ufficialmente cominciata.

 

Tre giorni dopo, mentre 40.000 soldati americani si stavano concentrando in Florida, l’ambasciatore statunitense Adlai Stevenson mostrò le fotografie delle installazioni sovietiche a Cuba in una sessione d’emergenza dell’ONU. Il suo collega Valerian Zorin, che ne aveva ripetutamente negato l’esistenza, fu incalzato in modo magistrale da Stevenson: «Bene, signore, lasci che le ponga una semplice domanda: ambasciatore Zorin, nega che l’URSS stia installando missili a medio raggio a Cuba? Sì o no – non aspetti la traduzione – Sì o no?».

 

Di fronte alla beffarda replica di Zorin («Non siamo in un tribunale americano, non sono tenuto a una risposta del tipo “sì o no”»), il diplomatico americano insistette: «Può rispondere sì o no. Lei ne ha negato l’esistenza. Vorrei sapere se ho capito correttamente. Sono pronto ad attendere la risposta fino a che l’inferno non ghiacci, se questa è la sua intenzione. E sono anche pronto a mostrare le prove in questa sala».

 

Cuba era ora assurta al vertice dell’attenzione e della preoccupazione mondiali.

 

Dopo le mosse di Washington fu il turno di Mosca. Toccava ora a Krusciov reagire. Alle ore 21 di venerdì 26 ottobre il Dipartimento di Stato ricevette una proposta che assicurava il ritiro dei missili a fronte della garanzia americana di non invadere Cuba.

Tredici ore più tardi giunse una nuova offerta: se gli USA avessero ritirato i missili Jupiter in Turchia, l’URSS avrebbe restituito il favore facendo lo stesso con i propri installati a Cuba. Ma, mentre i politici lavoravano a una faticosa composizione diplomatica della crisi, le lancette del Doomsday Clock sembravano avanzare spinte dagli eventi, quasi fossero animate di vita propria.

 

Il mattino del 27 ottobre un Lockheed U-2 pilotato dal maggiore Rudolf Anderson fu abbattuto da un missile terra-aria sovietico mentre sorvolava Cuba. Nel pomeriggio alcuni RF-8A della marina rischiarono la stessa sorte quando vennero bersagliati dalla contraerea durante voli di ricognizione a bassa quota. I militari chiesero un immediato attacco di ritorsione, ma Kennedy resistette alle pressioni.

 

In quegli stessi attimi, anche a Mosca Krusciov si trovava sui carboni ardenti. Aveva appena ricevuto una lettera da Castro nella quale il leader della rivoluzione cubana lo esortava a “eliminare per sempre il pericolo di un’aggressione imperialista attraverso un atto di chiara e legittima difesa, per quanto dura e terribile la soluzione potesse rivelarsi”.

 

Quel giorno la guerra sembrava l’esito più probabile del confronto. Poco prima, John Edgar Hoover, il direttore dell’FBI, aveva informato i membri dell’ExComm che i diplomatici sovietici a New York stavano bruciando i loro documenti, segnale che lo scoppio delle ostilità era ormai dato per imminente. Il Comando Aereo Strategico americano mise tutte le unità in stato di massima allerta a DEFCON 2. La discesa al successivo grado di prontezza operativa, DEFCON 1, avrebbe significato la guerra.

 

Nel frattempo molte navi sovietiche si stavano avvicinando al limite della zona di quarantena. All’insaputa degli americani alcuni gruppi erano scortati da sottomarini armati di siluri a testata nucleare. Per il lancio delle loro armi i comandanti dei battelli potevano incredibilmente decidere in autonomia senza richiedere un’autorizzazione al comando di Mosca.

 

Quando il B-59 fu fatto oggetto di un lancio di cariche di profondità “di avvertimento” da parte della squadra della portaerei USS Randolph, il suo capitano Valentin Grigorievitch Savitsky, interpretandolo come un atto ostile, decise di lanciare le proprie armi. Solo l’opposizione di uno degli altri due ufficiali evitò di appiccare la scintilla che avrebbe portato alla fine del mondo. Alla fine di quella giornata il Ministro della Difesa americano Robert McNamara si fermò a osservare il tramonto mentre usciva dalla Casa Bianca. Nelle sue memorie ammise di aver pensato che quello sarebbe stato l’ultimo sabato della sua vita.

 

La mattina del 28 ottobre la tensione iniziò a calare. Il contatto tra le forze armate delle due superpotenze era ormai così stretto che la guerra poteva ormai scoppiare per il minimo incidente, indipendentemente dalla volontà di pace dei due contendenti.

 

I sovietici avevano ormai completato lo schieramento previsto a Cuba e molte loro postazioni sulla costa erano equipaggiate con missili nucleari tattici a corto raggio. Una forza di invasione proveniente dalla Florida avrebbe corso il serio rischio di venire annientata prima ancora di giungere in vista delle spiagge cubane.

 

Sia Kennedy che Krusciov sapevano che più tempo passava e più diveniva difficile mantenere il controllo sugli apparati militari e governativi delle rispettive nazioni. Per salvare la pace dovevano agire in fretta. E ognuno doveva necessariamente rinunciare a qualcosa. Il leader del Cremlino, usando una calzante metafora, scrisse che la crisi assomigliava a una fune con un nodo nel mezzo: continuando a tirarne le estremità il nodo si sarebbe stretto sempre di più. Oltre un certo punto, solamente una spada avrebbe potuto troncarlo. Ma se i due avversari avessero allentato la presa, allora il nodo si sarebbe sciolto.

 

Alle dieci di mattina il segretario del PCUS annunciò la rimozione dei suoi missili da Cuba. Il presidente americano in cambio accettò pubblicamente la prima offerta sovietica, impegnandosi a rispettare la sovranità di Cuba. In segreto incaricò il fratello Robert di recarsi all’ambasciata sovietica per accettare la seconda. Gli USA, all’insaputa dell’opinione pubblica, avrebbero scambiato i missili in Turchia e in Italia con quelli sull’isola di Castro. Le navi sovietiche ricevettero l’ordine di invertire la rotta e meno di un mese dopo la quarantena su Cuba venne annullata. Lo scampato pericolo ebbe se non altro l’effetto di indurre le due superpotenze a una maggiore cooperazione.

 

Il 20 giugno 1963 venne attivata una “linea rossa” per garantire una maggiore celerità nello scambio di informazioni in caso di nuove situazioni di crisi. Poi, nell’ottobre dello stesso anno, entrò in vigore l’accordo di Mosca, che introduceva una parziale messa al bando degli esperimenti nucleari. La guerra fredda avrebbe visto altri momenti di tensione, ma la sua fase più acuta e drammatica era ormai superata.

 

Esistono molti modi per interpretare gli eventi oggi racchiusi nella definizione di “crisi dei missili cubani”. Uno dei più affascinanti è quello di osservarli attraverso le lenti della “teoria dei giochi”, un modello di matematica applicata in grado di analizzare il comportamento e le decisioni di due soggetti che, in una situazione di confronto, agiscono in vista del massimo guadagno individuale.

 

A partire dagli anni Venti del Novecento grandi menti come quelle di John von Neumann, Emil Borel, Oskar Morgenstern e John Nash dedicarono un’enorme quantità di tempo ed energia alla definizione di una teoria universale in grado di spiegare il comportamento umano, incastrandolo, a volte a viva forza, entro la ferrea gabbia di una struttura logica. Una ramificazione della teoria dei giochi, il “dilemma del prigioniero” sembra descrivere con sorprendente attinenza la dinamica e gli esiti della corsa agli armamenti nucleari intrapresa dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica.

 

Eppure, riguardo al senso di quei fatidici tredici giorni che nell’ottobre del 1962 rischiarono di portare il mondo alla distruzione, qualcosa continua a sfuggire. Sembra esistere un sottofondo che sconfina in spiegazioni più emotive e incredibilmente più inquietanti.

 

Il filosofo inglese Bertrand Russell potrebbe aver colto nel segno, quando pronunciò le seguenti parole: «Il rischio calcolato è una politica mutuata da un’attività sportiva pratica, a quanto mi dicono, da alcuni giovani degenerati. Questo sport… consiste nel percorrere un lungo rettilineo… su due auto lanciate a folle velocità l’una contro l’altra… Man mano che i due veicoli si avvicinano, la distruzione reciproca diventa sempre più imminente. Quando uno dei giocatori sterza per primo dalla linea bianca, l’altro, superandolo, gli urla: “coniglio!” e quello che ha sterzato diventa oggetto di scherno… Talvolta, il gioco può essere condotto [da eminenti uomini di Stato] senza conseguenze, ma prima o poi… arriva il momento in cui nessuno dei due se la sente di incassare l’urlo beffardo dell’altro. A quel punto, i leader di entrambi gli schieramenti trascineranno il mondo verso la distruzione”.

 

Una nazione non è in fondo troppo dissimile da un individuo. Condivide con esso un carattere, un orgoglio, un ruolo pubblico e un prestigio che tende a voler difendere a prescindere da fattori di ragionevolezza e dalle conseguenze che ne potrebbero scaturire. Alcune settimane dopo la crisi Kennedy ammise: «Se avessimo invaso Cuba, sono certo che i sovietici avrebbero reagito. Avrebbero dovuto farlo, come noi nelle stesse condizioni. Ogni grande potenza ha degli obblighi inesorabili ai quali non può sottrarsi».

 

Pur di non “perdere la faccia” molte nazioni nel corso della storia hanno compiuto scelte folli, al limite dell’autolesionismo. Un elenco sarebbe praticamente infinito. Solo per citare un esempio, nel 1757, Svezia e Prussia si fronteggiarono nella guerra di Pomerania perché il Partito dei Cappelli svedese intendeva umiliare la regina Luisa Ulrika di Prussia, sorella di Federico II. La politica e la diplomazia della seconda metà del Novecento sono molto differenti da quelle del XVIII secolo, ma l’esempio lascia comunque intravedere una ricorrente vena di imponderabile follia nel modo in cui gli Stati gestiscono i propri rapporti.

 

La storia dimostra che la condotta internazionale di uno Stato può essere alterata da elementi irrazionali. E spesso, in particolari condizioni, la politica estera può essere compresa e spiegata solo sovrapponendola a quella interna. Nel gennaio del 1961 Kennedy era giunto a prestare giuramento come 35° presidente degli Stati Uniti anche grazie a una campagna elettorale vinta sulle ali della martellante accusa rivolta all’amministrazione Eisenhower/Nixon di aver consentito ai comunisti l’acquisizione di una base nei Caraibi.

 

Dopo lo smacco della Baia dei Porci, quando fu evidente che i sovietici stavano armando Cuba con missili nucleari proprio sotto il naso degli americani, Kennedy capì sin troppo bene quanto il fatto fosse destabilizzante da un punto di vista politico, molto più che militare. Dopo aver criticato i propri avversari interni sul terreno del contenimento del comunismo non poteva permettersi di dimostrarsi più incapace di essi. Nella prima riunione dell’ExComm, McNamara fornì un punto di vista particolarmente illuminante sul significato dei missili: «Sarò franco. Non credo ci sia un problema militare… Questo è un problema di politica interna».

 

La sua interpretazione era corretta. Kennedy, nella stessa seduta, ammise: «non fa nessuna differenza se si viene spazzati via da un missile lanciato dall’Unione Sovietica o da Cuba. La geografia non conta a tal punto».

 

Abbiamo già visto l’enorme divario nucleare che nel 1962 separava gli USA dall’URSS. Il fatto, spesso citato, dei ridotti tempi di volo di un ipotetico missile lanciato da Cuba non è che un pretesto. Il margine di reazione a un attacco era già stato portato ai minimi termini da altri sistemi d’arma: i sottomarini. All’inizio degli anni Sessanta, le due superpotenze disponevano ormai di una flotta di sommergibili strategici in grado di avvicinarsi alle rispettive coste e lanciare ordigni atomici praticamente senza preavviso.

 

Il governo di Washington si spinse a un soffio da una guerra per mere ragioni di stabilità e prestigio interni. Il gioco – da un punto di vista americano – valse il rischio corso. Kennedy fu pubblicamente percepito come colui che aveva sfidato Krusciov e lo aveva infine costretto ad abbassare lo sguardo, secondo la famosa, ma del tutto infondata frase di Dean Rusk.

 

Ma se la lancetta dei minuti del Doomsday Clock avesse completato il suo ultimo giro, e la guerra termonucleare globale fosse conseguentemente scoppiata, i responsabili non avrebbero avuto che un’unica fortuna: non sarebbe sopravvissuto nessuno per chiamarli di fronte al genere umano a scontare la propria colpa; quella di aver voluto giocare a un gioco mortale, la cui unica mossa vincente è quella di non giocare.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

J.L. Gaddis, La Guerra fredda, Mondadori, Milano 2007.

N. Ferguson, La guerra del mondo, Mondadori, Milano 2008.

E. Galeano, Le vene aperte dell’America Latina, Sperling&Kupfer, Milano 1997.

B. Schwarz, The Real Cuban Missile Crisis, The Atlantic, 2013.

A.M. Schlesinger jr., I mille giorni di J.F. Kennedy alla Casa Bianca, Rizzoli, Milano 1966.

B. Cartosio, Gli Stati Uniti contemporanei, Giunti, Firenze 1992.

T. Judt, Postwar, Laterza, Bari 2017. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]