contemporanea
POCHI SECONDI ALLA
MEZZANOTTE
LA CRISI DEI MISSILI DI CUBA / PARTE III
di Matteo Avallone
L’ExComm, tra le opzioni che aveva a
disposizione, scelse di rispondere con
il blocco navale di Cuba. Il termine che
si preferì impiegare fu quello di
“quarantena”, in quanto tecnicamente un
blocco costituiva un atto di guerra. Le
altre alternative vennero scartate
perché troppo rischiose o ritenute
lontane dall’apportare un effetto
immediato.
Un appello alle Nazioni Unite avrebbe
richiesto troppo tempo perché i membri
dell’assemblea giungessero a una
deliberazione. Oltretutto, che l’ONU
possedesse l’hardpower per
costringere i sovietici a una ritirata,
era un’eventualità ritenuta altamente
improbabile. Nel frattempo Krusciov
avrebbe avuto tutto il tempo di
completare lo schieramento delle proprie
forze sull’isola e mettere il mondo di
fronte al fatto compiuto.
All’altro lato dello spettro di
un’azione di risposta vennero
accantonate – per il momento –
l’invasione di Cuba e un attacco aereo
alle postazioni missilistiche, il quale
non avrebbe garantito la distruzione
completa e immediata delle stesse.
Quelle rimanenti, di fronte
all’aggressione, avrebbero potuto
rispondere e lanciare i propri missili a
titolo di rappresaglia, causando
un’escalation.
Si scelse così di mobilitare la flotta e
cingere Cuba con un cordone che
impedisse l’arrivo di ulteriori rinforzi
dall’URSS. Il 22 ottobre, Kennedy si
rivolse alla nazione in un discorso
televisivo nel quale annunciava la
scoperta dei missili e l’inizio della
quarantena su Cuba. Le battute finali
del suo intervento contenevano un duro
ultimatum all’Unione Sovietica perché
ritirasse i missili. La crisi era
ufficialmente cominciata.
Tre giorni dopo, mentre 40.000 soldati
americani si stavano concentrando in
Florida, l’ambasciatore statunitense
Adlai Stevenson mostrò le fotografie
delle installazioni sovietiche a Cuba in
una sessione d’emergenza dell’ONU. Il
suo collega Valerian Zorin, che ne aveva
ripetutamente negato l’esistenza, fu
incalzato in modo magistrale da
Stevenson: «Bene, signore, lasci che
le ponga una semplice domanda:
ambasciatore Zorin, nega che l’URSS stia
installando missili a medio raggio a
Cuba? Sì o no – non aspetti la
traduzione – Sì o no?».
Di fronte alla beffarda replica di Zorin
(«Non siamo in un tribunale
americano, non sono tenuto a una
risposta del tipo “sì o no”»), il
diplomatico americano insistette: «Può
rispondere sì o no. Lei ne ha negato
l’esistenza. Vorrei sapere se ho capito
correttamente. Sono pronto ad attendere
la risposta fino a che l’inferno non
ghiacci, se questa è la sua intenzione.
E sono anche pronto a mostrare le prove
in questa sala».
Cuba era ora assurta al vertice
dell’attenzione e della preoccupazione
mondiali.
Dopo le mosse di Washington fu il turno
di Mosca. Toccava ora a Krusciov
reagire. Alle ore 21 di venerdì 26
ottobre il Dipartimento di Stato
ricevette una proposta che assicurava il
ritiro dei missili a fronte della
garanzia americana di non invadere Cuba.
Tredici ore più tardi giunse una nuova
offerta: se gli USA avessero ritirato i
missili Jupiter in Turchia, l’URSS
avrebbe restituito il favore facendo lo
stesso con i propri installati a Cuba.
Ma, mentre i politici lavoravano a una
faticosa composizione diplomatica della
crisi, le lancette del Doomsday Clock
sembravano avanzare spinte dagli eventi,
quasi fossero animate di vita propria.
Il mattino del 27 ottobre un Lockheed
U-2 pilotato dal maggiore Rudolf
Anderson fu abbattuto da un missile
terra-aria sovietico mentre sorvolava
Cuba. Nel pomeriggio alcuni RF-8A della
marina rischiarono la stessa sorte
quando vennero bersagliati dalla
contraerea durante voli di ricognizione
a bassa quota. I militari chiesero un
immediato attacco di ritorsione, ma
Kennedy resistette alle pressioni.
In quegli stessi attimi, anche a Mosca
Krusciov si trovava sui carboni ardenti.
Aveva appena ricevuto una lettera da
Castro nella quale il leader della
rivoluzione cubana lo esortava a
“eliminare per sempre il pericolo di
un’aggressione imperialista attraverso
un atto di chiara e legittima difesa,
per quanto dura e terribile la soluzione
potesse rivelarsi”.
Quel giorno la guerra sembrava l’esito
più probabile del confronto. Poco prima,
John Edgar Hoover, il direttore
dell’FBI, aveva informato i membri dell’ExComm
che i diplomatici sovietici a New York
stavano bruciando i loro documenti,
segnale che lo scoppio delle ostilità
era ormai dato per imminente. Il Comando
Aereo Strategico americano mise tutte le
unità in stato di massima allerta a
DEFCON 2. La discesa al successivo grado
di prontezza operativa, DEFCON 1,
avrebbe significato la guerra.
Nel frattempo molte navi sovietiche si
stavano avvicinando al limite della zona
di quarantena. All’insaputa degli
americani alcuni gruppi erano scortati
da sottomarini armati di siluri a
testata nucleare. Per il lancio delle
loro armi i comandanti dei battelli
potevano incredibilmente decidere in
autonomia senza richiedere
un’autorizzazione al comando di Mosca.
Quando il B-59 fu fatto oggetto di un
lancio di cariche di profondità “di
avvertimento” da parte della squadra
della portaerei USS Randolph, il suo
capitano Valentin Grigorievitch Savitsky,
interpretandolo come un atto ostile,
decise di lanciare le proprie armi. Solo
l’opposizione di uno degli altri due
ufficiali evitò di appiccare la
scintilla che avrebbe portato alla fine
del mondo. Alla fine di quella giornata
il Ministro della Difesa americano
Robert McNamara si fermò a osservare il
tramonto mentre usciva dalla Casa
Bianca. Nelle sue memorie ammise di aver
pensato che quello sarebbe stato
l’ultimo sabato della sua vita.
La mattina del 28 ottobre la tensione
iniziò a calare. Il contatto tra le
forze armate delle due superpotenze era
ormai così stretto che la guerra poteva
ormai scoppiare per il minimo incidente,
indipendentemente dalla volontà di pace
dei due contendenti.
I sovietici avevano ormai completato lo
schieramento previsto a Cuba e molte
loro postazioni sulla costa erano
equipaggiate con missili nucleari
tattici a corto raggio. Una forza di
invasione proveniente dalla Florida
avrebbe corso il serio rischio di venire
annientata prima ancora di giungere in
vista delle spiagge cubane.
Sia Kennedy che Krusciov sapevano che
più tempo passava e più diveniva
difficile mantenere il controllo sugli
apparati militari e governativi delle
rispettive nazioni. Per salvare la pace
dovevano agire in fretta. E ognuno
doveva necessariamente rinunciare a
qualcosa. Il leader del Cremlino, usando
una calzante metafora, scrisse che la
crisi assomigliava a una fune con un
nodo nel mezzo: continuando a tirarne le
estremità il nodo si sarebbe stretto
sempre di più. Oltre un certo punto,
solamente una spada avrebbe potuto
troncarlo. Ma se i due avversari
avessero allentato la presa, allora il
nodo si sarebbe sciolto.
Alle dieci di mattina il segretario del
PCUS annunciò la rimozione dei suoi
missili da Cuba. Il presidente americano
in cambio accettò pubblicamente la prima
offerta sovietica, impegnandosi a
rispettare la sovranità di Cuba. In
segreto incaricò il fratello Robert di
recarsi all’ambasciata sovietica per
accettare la seconda. Gli USA,
all’insaputa dell’opinione pubblica,
avrebbero scambiato i missili in Turchia
e in Italia con quelli sull’isola di
Castro. Le navi sovietiche ricevettero
l’ordine di invertire la rotta e meno di
un mese dopo la quarantena su Cuba venne
annullata. Lo scampato pericolo ebbe se
non altro l’effetto di indurre le due
superpotenze a una maggiore
cooperazione.
Il 20 giugno 1963 venne attivata una
“linea rossa” per garantire una maggiore
celerità nello scambio di informazioni
in caso di nuove situazioni di crisi.
Poi, nell’ottobre dello stesso anno,
entrò in vigore l’accordo di Mosca, che
introduceva una parziale messa al bando
degli esperimenti nucleari. La guerra
fredda avrebbe visto altri momenti di
tensione, ma la sua fase più acuta e
drammatica era ormai superata.
Esistono molti modi per interpretare gli
eventi oggi racchiusi nella definizione
di “crisi dei missili cubani”. Uno dei
più affascinanti è quello di osservarli
attraverso le lenti della “teoria dei
giochi”, un modello di matematica
applicata in grado di analizzare il
comportamento e le decisioni di due
soggetti che, in una situazione di
confronto, agiscono in vista del massimo
guadagno individuale.
A partire dagli anni Venti del Novecento
grandi menti come quelle di John von
Neumann, Emil Borel, Oskar Morgenstern e
John Nash dedicarono un’enorme quantità
di tempo ed energia alla definizione di
una teoria universale in grado di
spiegare il comportamento umano,
incastrandolo, a volte a viva forza,
entro la ferrea gabbia di una struttura
logica. Una ramificazione della teoria
dei giochi, il “dilemma del prigioniero”
sembra descrivere con sorprendente
attinenza la dinamica e gli esiti della
corsa agli armamenti nucleari intrapresa
dagli Stati Uniti e dall’Unione
Sovietica.
Eppure, riguardo al senso di quei
fatidici tredici giorni che nell’ottobre
del 1962 rischiarono di portare il mondo
alla distruzione, qualcosa continua a
sfuggire. Sembra esistere un sottofondo
che sconfina in spiegazioni più emotive
e incredibilmente più inquietanti.
Il filosofo inglese Bertrand Russell
potrebbe aver colto nel segno, quando
pronunciò le seguenti parole: «Il
rischio calcolato è una politica mutuata
da un’attività sportiva pratica, a
quanto mi dicono, da alcuni giovani
degenerati. Questo sport… consiste nel
percorrere un lungo rettilineo… su due
auto lanciate a folle velocità l’una
contro l’altra… Man mano che i due
veicoli si avvicinano, la distruzione
reciproca diventa sempre più imminente.
Quando uno dei giocatori sterza per
primo dalla linea bianca, l’altro,
superandolo, gli urla: “coniglio!” e
quello che ha sterzato diventa oggetto
di scherno… Talvolta, il gioco può
essere condotto [da eminenti uomini di
Stato] senza conseguenze, ma prima o
poi… arriva il momento in cui nessuno
dei due se la sente di incassare l’urlo
beffardo dell’altro. A quel punto, i
leader di entrambi gli schieramenti
trascineranno il mondo verso la
distruzione”.
Una nazione non è in fondo troppo
dissimile da un individuo. Condivide con
esso un carattere, un orgoglio, un ruolo
pubblico e un prestigio che tende a
voler difendere a prescindere da fattori
di ragionevolezza e dalle conseguenze
che ne potrebbero scaturire. Alcune
settimane dopo la crisi Kennedy ammise:
«Se avessimo invaso Cuba, sono certo
che i sovietici avrebbero reagito.
Avrebbero dovuto farlo, come noi nelle
stesse condizioni. Ogni grande potenza
ha degli obblighi inesorabili ai quali
non può sottrarsi».
Pur di non “perdere la faccia” molte
nazioni nel corso della storia hanno
compiuto scelte folli, al limite
dell’autolesionismo. Un elenco sarebbe
praticamente infinito. Solo per citare
un esempio, nel 1757, Svezia e Prussia
si fronteggiarono nella guerra di
Pomerania perché il Partito dei Cappelli
svedese intendeva umiliare la regina
Luisa Ulrika di Prussia, sorella di
Federico II. La politica e la diplomazia
della seconda metà del Novecento sono
molto differenti da quelle del XVIII
secolo, ma l’esempio lascia comunque
intravedere una ricorrente vena di
imponderabile follia nel modo in cui gli
Stati gestiscono i propri rapporti.
La storia dimostra che la condotta
internazionale di uno Stato può essere
alterata da elementi irrazionali. E
spesso, in particolari condizioni, la
politica estera può essere compresa e
spiegata solo sovrapponendola a quella
interna. Nel gennaio del 1961 Kennedy
era giunto a prestare giuramento come
35° presidente degli Stati Uniti anche
grazie a una campagna elettorale vinta
sulle ali della martellante accusa
rivolta all’amministrazione
Eisenhower/Nixon di aver consentito ai
comunisti l’acquisizione di una base nei
Caraibi.
Dopo lo smacco della Baia dei Porci,
quando fu evidente che i sovietici
stavano armando Cuba con missili
nucleari proprio sotto il naso degli
americani, Kennedy capì sin troppo bene
quanto il fatto fosse destabilizzante da
un punto di vista politico, molto più
che militare. Dopo aver criticato i
propri avversari interni sul terreno del
contenimento del comunismo non poteva
permettersi di dimostrarsi più incapace
di essi. Nella prima riunione dell’ExComm,
McNamara fornì un punto di vista
particolarmente illuminante sul
significato dei missili: «Sarò
franco. Non credo ci sia un problema
militare… Questo è un problema di
politica interna».
La sua interpretazione era corretta.
Kennedy, nella stessa seduta, ammise: «non
fa nessuna differenza se si viene
spazzati via da un missile lanciato
dall’Unione Sovietica o da Cuba. La
geografia non conta a tal punto».
Abbiamo già visto l’enorme divario
nucleare che nel 1962 separava gli USA
dall’URSS. Il fatto, spesso citato, dei
ridotti tempi di volo di un ipotetico
missile lanciato da Cuba non è che un
pretesto. Il margine di reazione a un
attacco era già stato portato ai minimi
termini da altri sistemi d’arma: i
sottomarini. All’inizio degli anni
Sessanta, le due superpotenze
disponevano ormai di una flotta di
sommergibili strategici in grado di
avvicinarsi alle rispettive coste e
lanciare ordigni atomici praticamente
senza preavviso.
Il governo di Washington si spinse a un
soffio da una guerra per mere ragioni di
stabilità e prestigio interni. Il gioco
– da un punto di vista americano – valse
il rischio corso. Kennedy fu
pubblicamente percepito come colui che
aveva sfidato Krusciov e lo aveva infine
costretto ad abbassare lo sguardo,
secondo la famosa, ma del tutto
infondata frase di Dean Rusk.
Ma se la lancetta dei minuti del
Doomsday Clock avesse completato il suo
ultimo giro, e la guerra termonucleare
globale fosse conseguentemente
scoppiata, i responsabili non avrebbero
avuto che un’unica fortuna: non sarebbe
sopravvissuto nessuno per chiamarli di
fronte al genere umano a scontare la
propria colpa; quella di aver voluto
giocare a un gioco mortale, la cui unica
mossa vincente è quella di non giocare.
Riferimenti bibliografici:
J.L. Gaddis, La Guerra fredda,
Mondadori, Milano 2007.
N. Ferguson, La guerra del mondo,
Mondadori, Milano 2008.
E. Galeano, Le vene aperte
dell’America Latina, Sperling&Kupfer,
Milano 1997.
B. Schwarz, The Real Cuban Missile
Crisis, The Atlantic, 2013.
A.M. Schlesinger jr., I mille giorni
di J.F. Kennedy alla Casa Bianca,
Rizzoli, Milano 1966.
B. Cartosio, Gli Stati Uniti
contemporanei, Giunti, Firenze 1992.
T. Judt, Postwar, Laterza, Bari
2017. |