contemporanea
POCHI SECONDI ALLA
MEZZANOTTE
LA CRISI DEI MISSILI DI CUBA / PARTE II
di Matteo Avallone
La secolare storia di sfruttamento
dell’isola cambiò bruscamente nel
gennaio del 1959. Dopo anni di
guerriglia, Fidel Castro, un carismatico
avvocato rimasto folgorato dal pensiero
di Marx e Lenin, riuscì con i propri
seguaci a rovesciare il regime di
Batista. Una volta insediatosi
all’Avana, i primi passi del nuovo
governo rivelarono la ferma intenzione
di recidere molti dei legami di
vassallaggio e di dipendenza che
legavano Cuba all’America. Fu avviato un
programma di istruzione pubblica
universale e una riforma agraria garantì
la redistribuzione delle terre coltivate
a favore dei contadini.
Nel frattempo, la rivoluzione trionfante
liquidava i propri nemici interni con
spietata durezza: molti oppositori
politici furono sbrigativamente
processati e giustiziati. Coloro che,
non volendosi piegare a quello che
iniziava ad apparire come un nuovo
tiranno riuscirono a scappare, cercarono
rifugio negli Stati Uniti. Castro iniziò
ad avvicinarsi sempre di più all’Unione
Sovietica anche da un lato non meramente
ideologico.
Un accordo commerciale segnò il primo
significativo mutamento di rotta nei
rapporti internazionali. In cambio di
petrolio greggio, macchinari industriali
e fertilizzanti, Cuba avrebbe inviato in
URSS le sole materie che al momento
aveva da offrire: zucchero, frutta e
fibre vegetali. Per gli americani, che
ancora nutrivano la speranza di
addomesticare Castro, fu un terremoto
che marcò un autentico punto di
non-ritorno delle loro tradizionali
relazioni con l’isola.
Shell, Esso e Standard Oil, le società
che gestivano le raffinerie cubane, con
il benestare del governo di Washington,
rifiutarono di raffinare il petrolio
russo nei propri impianti. Per
rappresaglia Castro nazionalizzò gli
stabilimenti. La ritorsione americana fu
immediata e si concretizzò
nell’annullamento di ogni importazione
di zucchero cubano e successivamente
nell’instaurazione di un embargo
economico pressoché generale.
Il governo rivoluzionario ne approfittò
per assumere anche il controllo delle
piantagioni. A quel punto tutti i ponti
potevano dirsi ormai tagliati. Gli Stati
Uniti, in piena guerra fredda,
scoprirono di dover fare i conti con la
presenza di un piccolo ma scomodo Paese
socialista praticamente nel cortile di
casa.
Dagli sgarbi economici il livello del
confronto degenerò verso iniziative che
nella vita comune di una persona
potrebbero ricadere nella definizione di
“colpo basso”. Già nel marzo del 1960
Eisenhower diede alla CIA il via libera
per tentare di abbattere il regime di
Castro con ogni mezzo.
L’intelligence americana si vide
assegnare per l’obiettivo un sontuoso
budget di 13 milioni di dollari. Venne
presa in seria considerazione persino
l’ipotesi di stringere accordi con la
mafia, che Castro si era inimicato
avendola estromessa dal giro del gioco
d’azzardo e della prostituzione nelle
grandi città turistiche.
Alla fine, si decise di seguire il piano
delineato dall’NSC 5412/2, un
sottocomitato segreto istituito in seno
al Consiglio per la Sicurezza Nazionale.
Istruttori della CIA avrebbero fornito a
un migliaio di esuli cubani un
addestramento paramilitare in Guatemala.
Questo corpo di spedizione, nominato
“Brigada Asalto 2506”, sarebbe stato
trasportato verso Cuba, in vista di uno
sbarco presso la Baia dei Porci, nella
parte nord-occidentale dell’isola. La
speranza era quella di rovesciare Castro
facendo leva sul malcontento popolare
che si credeva serpeggiasse intorno al
suo regime.
Nell’aprile del 1961 tutto era pronto.
Nello studio ovale della Casa Bianca
sedeva intanto un nuovo presidente. A
soli 43 anni, il cattolico e democratico
John Fitzgerald Kennedy, battendo di
soli centomila voti il suo rivale
Richard Nixon, era il più giovane mai
eletto alla presidenza. Appena
insediatosi, diede l’assenso
all’operazione. Ma giunto sulle spiagge,
il corpo di spedizione fu sbaragliato
dalle forze rivoluzionarie nei giorni
tra il 17 e il 19 aprile.
L’invasione palesò i suoi aspetti di
dilettantismo. Elspeth Davies Rostow
bollò i militari americani come: “…Ufficialetti
dell'ultima guerra mondiale passati di
grado”. Aveva ragione: i pianificatori
agirono in modo dilettantesco sotto ogni
punto di vista. Mancarono il
coordinamento, un efficace supporto
aereo e soprattutto una realistica
visione della situazione.
Il regime castrista poggiava su basi
evidentemente più salde di quanto si
aspettassero gli americani: ci voleva
molto di più di una raccogliticcia
combriccola di fuoriusciti per
scuoterlo. Kennedy fu costretto ad
assumersi la responsabilità di un
fallimento che in larga parte era
iscritto nel maldestro piano ereditato
dalla precedente amministrazione. La
figura di Castro, all’opposto, ne uscì
ingigantita.
Ma la partita non era affatto chiusa. Il
fallimento della Baia dei Porci preparò
la strada per una nuova crisi di portata
infinitamente maggiore, questa volta di
livello mondiale. Il Lìder Maximo si
convinse che gli Stati Uniti, riavutisi
dallo smacco, avrebbero cercato la
rivincita e tentato nuovamente di
rovesciare la Rivoluzione. In uno
scenario così instabile, se il
socialismo intendeva sopravvivere a
Cuba, avrebbe dovuto cercare protezione
da parte di un potente guardiano. E
l’unica grande nazione disposta ad
assumersi tale compito era l’Unione
Sovietica di Nikita Krusciov.
Il 2 luglio 1962, Raúl Castro, fratello
di Fidel e ministro delle forze armate
cubane, giunse in visita a Mosca. Gli
accordi che nell’occasione vennero
stretti con i vertici sovietici
rimangono ancora avvolti in un alone di
mistero, ma è verosimile che la
decisione di intraprendere quella che
sarebbe stata ridenominata “Operazione
Anadyr” sia stata discussa proprio in
quel frangente. Anadyr in essenza non
era altro che il trasporto di missili
nucleari sovietici a medio raggio e la
loro installazione in postazioni di
lancio sul territorio cubano.
L’operazione nacque in risposta alla
crescente aggressività americana nel
mediterraneo.
All’inizio degli anni Sessanta gli Stati
Uniti avevano installato missili
offensivi in Turchia e in Italia, a
Gioia del Colle, in Puglia. Erano i
cosiddetti “Jupiter”. Prodotti dalla
Chrysler Corporation, disponevano di una
gittata di oltre 3.000 chilometri e
potevano portare una testata
termonucleare da 1,4 megatoni. Non si
trattava di un sistema d’arma pensato a
scopo di rappresaglia, cioè per
garantire una ritorsione a un eventuale
primo attacco sovietico. Il fatto che
fossero installati su rampe mobili li
rendeva estremamente vulnerabili a ogni
attacco aereo. La loro ragion d’essere
era unicamente quella di amplificare a
dismisura l’efficacia di un
“first-stike” lanciato dagli USA.
La Francia, pur essendo un membro della
NATO, rifiutò di ospitarli proprio a
causa del loro palese effetto
destabilizzante. La sarcastica battuta
del presidente De Gaulle secondo la
quale essere alleati degli Stati Uniti
comportava una “Annihilation without
representation” si avvicinava di
molto alla verità. Gli Jupiter erano
puntati su bersagli in Russia per
raggiungere i quali non necessitavano
che di dieci soli minuti di volo.
I sovietici – abbastanza
comprensibilmente – si sentivano un’arma
puntata alla tempia perché vedevano in
questa mossa una conferma
dell’intenzione di Washington di
considerare seriamente un attacco a
sorpresa contro di loro. Lo riconobbe
persino il senatore Albert Grove quando
nel febbraio del 1961 disse al
segretario di Stato Rusk che gli Jupiter
non rappresentavano altro che “una
provocazione”.
La conferma viene da un episodio
avvenuto un anno più tardi, nel marzo
1962. Una giorno, passeggiando su una
spiaggia del Mar Nero,
Krusciov
indicò l’orizzonte e domandò a Rodion
Malinovsky, il ministro della difesa
sovietico che camminava al suo fianco:
«Guarda laggiù. Cosa vedi? Io vedo
missili puntati sulla mia dacia. Perché
non mettiamo un riccio nei pantaloni
degli americani?».
L’idea di installare missili a Cuba
nacque forse allora, e di sicuro
all’insegna di uno spirito di reazione a
una minaccia. Non è chiaro quali altri
obiettivi si riproponesse di raggiungere
Krusciov con una mossa tanto
giustificabile quanto azzardata. I
tratti che connotavano il personaggio
includevano un’abbondante dose di
esuberanza e di sconsiderata
imprevedibilità: il segretario del PCUS
gestiva una superpotenza armata sino ai
denti, ma spesso si lanciava in
un’impresa senza pensare alle
conseguenze. L’esatto opposto di un
cauto calcolatore come Stalin.
Come detto, di sicuro intendeva colmare
in qualche modo il gap missilistico che
lo separava dagli Stati Uniti, se non
nei numeri, quantomeno in una più
efficace modalità di impiego dei vettori
balistici. In questo campo i sovietici,
nonostante il clamore dei successi dello
Sputnik e di Gagarin, rimanevano
piuttosto arretrati. Disponevano di 160
bombardieri intercontinentali e di soli
42 ICBM ospitati in basi missilistiche
in grado di lanciare direttamente sul
territorio americano. Gli USA al
confronto erano un gigante: con 1.595
bombardieri e 182 missili ben protetti
nei loro silos godevano di uno
schiacciante vantaggio nel campo delle
testate nucleari impiegabili.
Secondo le stime il differenziale
arrivava a un rapporto di 17 a 1. Ma,
disponendo di una piattaforma avanzata
come Cuba, anche con normali missili a
medio raggio, campo dove i sovietici
erano invece all’avanguardia, la
disparità poteva essere attenuata. Da un
punto di vista più ideale, Krusciov si
era certamente innamorato
dell’esperimento cubano al socialismo e
voleva difenderlo a tutti i costi.
Pazienza se le leggi storiche di Marx
non avevano previsto i Caraibi come un
luogo in cui potesse sbocciare una
rivoluzione socialista. I pittoreschi
rivoluzionari di Castro suscitavano ben
più di una simpatia negli uffici del
Cremlino, dove ricordavano a molti
apparatčik i tempi eroici del 1917.
Di sicuro però, quello che Krusciov non
seppe immaginare, fu la veemenza della
reazione americana.
Gli americani sospettavano dell’attività
sovietica a Cuba sin dall’agosto del
1962, quando sulla scrivania di Kennedy
giunse un memorandum inviato dal
direttore della CIA John McCone. Quello
che non immaginavano era la velocità con
la quale i sovietici stavano
trasportando personale e materiale
bellico in un’isola a 11.000 chilometri
dalle loro basi, e per giunta nel pieno
della stagione degli uragani.
In effetti, all’inizio di settembre, il
trasporto di missili sovietici era in
pieno svolgimento. Durante la prima
settimana del mese, all’Avana erano
giunti gli R-12, missili balistici a
medio raggio capaci di portare una
testata termonucleare da un megatone. In
linea di principio potevano raggiungere
ogni obiettivo militare o civile in
tutto il sud e buona parte del midwest
americano, compresa la capitale
Washington.
Incredibilmente gli americani
impiegarono un altro mese per rendersi
conto di quanto concreta fosse la
minaccia. Fu infatti solo il 15 ottobre
1962 che ebbero la certezza della
presenza di postazioni missilistiche. Le
foto scattate da un aereo spia U-2
rivelarono infatti l’allestimento di un
sito nei pressi di San Cristóbal. Il
giorno seguente i risultati dei voli di
ricognizione vennero mostrati a Kennedy,
il quale autorizzò all'istante la
formazione dell’ExComm (Comitato
Esecutivo del Consiglio di Sicurezza
Nazionale) con il compito di gestire la
crisi.
Durante la prima seduta si verificò uno
dei più sbalorditivi episodi mai
accaduti in un vertice di sicurezza.
Kennedy era scioccato dalla mossa
apparentemente inspiegabile di Krusciov.
Le registrazioni rivelano che a un certo
punto sbottò: «Perché lo ha fatto? È
come se noi all’improvviso avessimo
piazzato missili in Turchia…» - «Beh, è
quello che abbiamo fatto signor
presidente…» gli ricordò immediatamente
McGeorge Bundy, il consigliere per la
sicurezza nazionale.
L’aneddoto, al di là del suo grottesco
umorismo, rivela l’estrema complessità
nel controllare e coordinare tutte le
componenti di una nazione in un momento
di crisi, in modo da farle operare in
sincrono in vista di una strategia
unitaria. Il capo supremo degli Stati
Uniti dovette attendere la prima
riunione di un comitato straordinario
per apprendere dei dettagli del
dispiegamento strategico operato a sua
insaputa dai militari. Kennedy si rese
immediatamente conto di quanto uno dei
pericoli fosse che l’entourage dei capi
delle forze armate si svincolasse dal
controllo della direzione politica, alla
quale era nominalmente sottoposto, e
cercasse di forzarle la mano.
Da un certo punto di vista, uno dei
principali problemi nell’affrontare la
crisi non era rappresentato tanto dai
sovietici e dalle loro reazioni, ma
dall’impedire che le correnti
all’interno dell’apparato di potere
americano prendessero il sopravvento. Il
rischio era elevatissimo. I vertici
militari americani spingevano senza
esitazioni per il confronto armato. Il
capo di stato maggiore dell’aviazione,
il generale Curtis LeMay, un eroe della
Seconda guerra mondiale, si affrettò a
presentare a Kennedy un piano di
bombardamento preliminare a
un’invasione.
Il comandante del Comando Aereo
Strategico (SAC), il generale Thomas S.
Power, di fronte all’idea di una
limitazione dell’uso di armi nucleari in
un’ipotetica guerra, non impiegò molti
giri di parole: «Restrizioni? Perché
preoccuparsi di salvare le loro vite?
L’intera faccenda è di uccidere i
bastardi. Se alla fine della guerra
rimangono due americani e un russo,
allora abbiamo vinto noi».
Lo spirito che animava molti dei
principali attori che danzavano
sull’orlo dell’annientamento nucleare
era questo. |