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[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 156 / DICEMBRE 2020 (CLXXXVII)


contemporanea

POCHI SECONDI ALLA MEZZANOTTE
LA CRISI DEI MISSILI DI CUBA / PARTE II

di Matteo Avallone

 

La secolare storia di sfruttamento dell’isola cambiò bruscamente nel gennaio del 1959. Dopo anni di guerriglia, Fidel Castro, un carismatico avvocato rimasto folgorato dal pensiero di Marx e Lenin, riuscì con i propri seguaci a rovesciare il regime di Batista. Una volta insediatosi all’Avana, i primi passi del nuovo governo rivelarono la ferma intenzione di recidere molti dei legami di vassallaggio e di dipendenza che legavano Cuba all’America. Fu avviato un programma di istruzione pubblica universale e una riforma agraria garantì la redistribuzione delle terre coltivate a favore dei contadini.

 

Nel frattempo, la rivoluzione trionfante liquidava i propri nemici interni con spietata durezza: molti oppositori politici furono sbrigativamente processati e giustiziati. Coloro che, non volendosi piegare a quello che iniziava ad apparire come un nuovo tiranno riuscirono a scappare, cercarono rifugio negli Stati Uniti. Castro iniziò ad avvicinarsi sempre di più all’Unione Sovietica anche da un lato non meramente ideologico.

 

Un accordo commerciale segnò il primo significativo mutamento di rotta nei rapporti internazionali. In cambio di petrolio greggio, macchinari industriali e fertilizzanti, Cuba avrebbe inviato in URSS le sole materie che al momento aveva da offrire: zucchero, frutta e fibre vegetali. Per gli americani, che ancora nutrivano la speranza di addomesticare Castro, fu un terremoto che marcò un autentico punto di non-ritorno delle loro tradizionali relazioni con l’isola.

 

Shell, Esso e Standard Oil, le società che gestivano le raffinerie cubane, con il benestare del governo di Washington, rifiutarono di raffinare il petrolio russo nei propri impianti. Per rappresaglia Castro nazionalizzò gli stabilimenti. La ritorsione americana fu immediata e si concretizzò nell’annullamento di ogni importazione di zucchero cubano e successivamente nell’instaurazione di un embargo economico pressoché generale.

 

Il governo rivoluzionario ne approfittò per assumere anche il controllo delle piantagioni. A quel punto tutti i ponti potevano dirsi ormai tagliati. Gli Stati Uniti, in piena guerra fredda, scoprirono di dover fare i conti con la presenza di un piccolo ma scomodo Paese socialista praticamente nel cortile di casa.

 

Dagli sgarbi economici il livello del confronto degenerò verso iniziative che nella vita comune di una persona potrebbero ricadere nella definizione di “colpo basso”. Già nel marzo del 1960 Eisenhower diede alla CIA il via libera per tentare di abbattere il regime di Castro con ogni mezzo.

 

L’intelligence americana si vide assegnare per l’obiettivo un sontuoso budget di 13 milioni di dollari. Venne presa in seria considerazione persino l’ipotesi di stringere accordi con la mafia, che Castro si era inimicato avendola estromessa dal giro del gioco d’azzardo e della prostituzione nelle grandi città turistiche.

 

Alla fine, si decise di seguire il piano delineato dall’NSC 5412/2, un sottocomitato segreto istituito in seno al Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Istruttori della CIA avrebbero fornito a un migliaio di esuli cubani un addestramento paramilitare in Guatemala. Questo corpo di spedizione, nominato “Brigada Asalto 2506”, sarebbe stato trasportato verso Cuba, in vista di uno sbarco presso la Baia dei Porci, nella parte nord-occidentale dell’isola. La speranza era quella di rovesciare Castro facendo leva sul malcontento popolare che si credeva serpeggiasse intorno al suo regime.

 

Nell’aprile del 1961 tutto era pronto. Nello studio ovale della Casa Bianca sedeva intanto un nuovo presidente. A soli 43 anni, il cattolico e democratico John Fitzgerald Kennedy, battendo di soli centomila voti il suo rivale Richard Nixon, era il più giovane mai eletto alla presidenza. Appena insediatosi, diede l’assenso all’operazione. Ma giunto sulle spiagge, il corpo di spedizione fu sbaragliato dalle forze rivoluzionarie nei giorni tra il 17 e il 19 aprile.

 

L’invasione palesò i suoi aspetti di dilettantismo. Elspeth Davies Rostow bollò i militari americani come: “…Ufficialetti dell'ultima guerra mondiale passati di grado”. Aveva ragione: i pianificatori agirono in modo dilettantesco sotto ogni punto di vista. Mancarono il coordinamento, un efficace supporto aereo e soprattutto una realistica visione della situazione.

 

Il regime castrista poggiava su basi evidentemente più salde di quanto si aspettassero gli americani: ci voleva molto di più di una raccogliticcia combriccola di fuoriusciti per scuoterlo. Kennedy fu costretto ad assumersi la responsabilità di un fallimento che in larga parte era iscritto nel maldestro piano ereditato dalla precedente amministrazione. La figura di Castro, all’opposto, ne uscì ingigantita.

 

Ma la partita non era affatto chiusa. Il fallimento della Baia dei Porci preparò la strada per una nuova crisi di portata infinitamente maggiore, questa volta di livello mondiale. Il Lìder Maximo si convinse che gli Stati Uniti, riavutisi dallo smacco, avrebbero cercato la rivincita e tentato nuovamente di rovesciare la Rivoluzione. In uno scenario così instabile, se il socialismo intendeva sopravvivere a Cuba, avrebbe dovuto cercare protezione da parte di un potente guardiano. E l’unica grande nazione disposta ad assumersi tale compito era l’Unione Sovietica di Nikita Krusciov.

 

Il 2 luglio 1962, Raúl Castro, fratello di Fidel e ministro delle forze armate cubane, giunse in visita a Mosca. Gli accordi che nell’occasione vennero stretti con i vertici sovietici rimangono ancora avvolti in un alone di mistero, ma è verosimile che la decisione di intraprendere quella che sarebbe stata ridenominata “Operazione Anadyr” sia stata discussa proprio in quel frangente. Anadyr in essenza non era altro che il trasporto di missili nucleari sovietici a medio raggio e la loro installazione in postazioni di lancio sul territorio cubano. L’operazione nacque in risposta alla crescente aggressività americana nel mediterraneo.

 

All’inizio degli anni Sessanta gli Stati Uniti avevano installato missili offensivi in Turchia e in Italia, a Gioia del Colle, in Puglia. Erano i cosiddetti “Jupiter”. Prodotti dalla Chrysler Corporation, disponevano di una gittata di oltre 3.000 chilometri e potevano portare una testata termonucleare da 1,4 megatoni. Non si trattava di un sistema d’arma pensato a scopo di rappresaglia, cioè per garantire una ritorsione a un eventuale primo attacco sovietico. Il fatto che fossero installati su rampe mobili li rendeva estremamente vulnerabili a ogni attacco aereo. La loro ragion d’essere era unicamente quella di amplificare a dismisura l’efficacia di un “first-stike” lanciato dagli USA.

 

La Francia, pur essendo un membro della NATO, rifiutò di ospitarli proprio a causa del loro palese effetto destabilizzante. La sarcastica battuta del presidente De Gaulle secondo la quale essere alleati degli Stati Uniti comportava una “Annihilation without representation” si avvicinava di molto alla verità. Gli Jupiter erano puntati su bersagli in Russia per raggiungere i quali non necessitavano che di dieci soli minuti di volo.

 

I sovietici – abbastanza comprensibilmente – si sentivano un’arma puntata alla tempia perché vedevano in questa mossa una conferma dell’intenzione di Washington di considerare seriamente un attacco a sorpresa contro di loro. Lo riconobbe persino il senatore Albert Grove quando nel febbraio del 1961 disse al segretario di Stato Rusk che gli Jupiter non rappresentavano altro che “una provocazione”.

 

La conferma viene da un episodio avvenuto un anno più tardi, nel marzo 1962. Una giorno, passeggiando su una spiaggia del Mar Nero, Krusciov indicò l’orizzonte e domandò a Rodion Malinovsky, il ministro della difesa sovietico che camminava al suo fianco: «Guarda laggiù. Cosa vedi? Io vedo missili puntati sulla mia dacia. Perché non mettiamo un riccio nei pantaloni degli americani?».

 

L’idea di installare missili a Cuba nacque forse allora, e di sicuro all’insegna di uno spirito di reazione a una minaccia. Non è chiaro quali altri obiettivi si riproponesse di raggiungere Krusciov con una mossa tanto giustificabile quanto azzardata. I tratti che connotavano il personaggio includevano un’abbondante dose di esuberanza e di sconsiderata imprevedibilità: il segretario del PCUS gestiva una superpotenza armata sino ai denti, ma spesso si lanciava in un’impresa senza pensare alle conseguenze. L’esatto opposto di un cauto calcolatore come Stalin.

 

Come detto, di sicuro intendeva colmare in qualche modo il gap missilistico che lo separava dagli Stati Uniti, se non nei numeri, quantomeno in una più efficace modalità di impiego dei vettori balistici. In questo campo i sovietici, nonostante il clamore dei successi dello Sputnik e di Gagarin, rimanevano piuttosto arretrati. Disponevano di 160 bombardieri intercontinentali e di soli 42 ICBM ospitati in basi missilistiche in grado di lanciare direttamente sul territorio americano. Gli USA al confronto erano un gigante: con 1.595 bombardieri e 182 missili ben protetti nei loro silos godevano di uno schiacciante vantaggio nel campo delle testate nucleari impiegabili.

 

Secondo le stime il differenziale arrivava a un rapporto di 17 a 1. Ma, disponendo di una piattaforma avanzata come Cuba, anche con normali missili a medio raggio, campo dove i sovietici erano invece all’avanguardia, la disparità poteva essere attenuata. Da un punto di vista più ideale, Krusciov si era certamente innamorato dell’esperimento cubano al socialismo e voleva difenderlo a tutti i costi. Pazienza se le leggi storiche di Marx non avevano previsto i Caraibi come un luogo in cui potesse sbocciare una rivoluzione socialista. I pittoreschi rivoluzionari di Castro suscitavano ben più di una simpatia negli uffici del Cremlino, dove ricordavano a molti apparatčik i tempi eroici del 1917. Di sicuro però, quello che Krusciov non seppe immaginare, fu la veemenza della reazione americana.

 

Gli americani sospettavano dell’attività sovietica a Cuba sin dall’agosto del 1962, quando sulla scrivania di Kennedy giunse un memorandum inviato dal direttore della CIA John McCone. Quello che non immaginavano era la velocità con la quale i sovietici stavano trasportando personale e materiale bellico in un’isola a 11.000 chilometri dalle loro basi, e per giunta nel pieno della stagione degli uragani.

 

In effetti, all’inizio di settembre, il trasporto di missili sovietici era in pieno svolgimento. Durante la prima settimana del mese, all’Avana erano giunti gli R-12, missili balistici a medio raggio capaci di portare una testata termonucleare da un megatone. In linea di principio potevano raggiungere ogni obiettivo militare o civile in tutto il sud e buona parte del midwest americano, compresa la capitale Washington.

 

Incredibilmente gli americani impiegarono un altro mese per rendersi conto di quanto concreta fosse la minaccia. Fu infatti solo il 15 ottobre 1962 che ebbero la certezza della presenza di postazioni missilistiche. Le foto scattate da un aereo spia U-2 rivelarono infatti l’allestimento di un sito nei pressi di San Cristóbal. Il giorno seguente i risultati dei voli di ricognizione vennero mostrati a Kennedy, il quale autorizzò all'istante la formazione dell’ExComm (Comitato Esecutivo del Consiglio di Sicurezza Nazionale) con il compito di gestire la crisi.

 

Durante la prima seduta si verificò uno dei più sbalorditivi episodi mai accaduti in un vertice di sicurezza. Kennedy era scioccato dalla mossa apparentemente inspiegabile di Krusciov. Le registrazioni rivelano che a un certo punto sbottò: «Perché lo ha fatto? È come se noi all’improvviso avessimo piazzato missili in Turchia…» - «Beh, è quello che abbiamo fatto signor presidente…» gli ricordò immediatamente McGeorge Bundy, il consigliere per la sicurezza nazionale.

 

L’aneddoto, al di là del suo grottesco umorismo, rivela l’estrema complessità nel controllare e coordinare tutte le componenti di una nazione in un momento di crisi, in modo da farle operare in sincrono in vista di una strategia unitaria. Il capo supremo degli Stati Uniti dovette attendere la prima riunione di un comitato straordinario per apprendere dei dettagli del dispiegamento strategico operato a sua insaputa dai militari. Kennedy si rese immediatamente conto di quanto uno dei pericoli fosse che l’entourage dei capi delle forze armate si svincolasse dal controllo della direzione politica, alla quale era nominalmente sottoposto, e cercasse di forzarle la mano.

 

Da un certo punto di vista, uno dei principali problemi nell’affrontare la crisi non era rappresentato tanto dai sovietici e dalle loro reazioni, ma dall’impedire che le correnti all’interno dell’apparato di potere americano prendessero il sopravvento. Il rischio era elevatissimo. I vertici militari americani spingevano senza esitazioni per il confronto armato. Il capo di stato maggiore dell’aviazione, il generale Curtis LeMay, un eroe della Seconda guerra mondiale, si affrettò a presentare a Kennedy un piano di bombardamento preliminare a un’invasione.

 

Il comandante del Comando Aereo Strategico (SAC), il generale Thomas S. Power, di fronte all’idea di una limitazione dell’uso di armi nucleari in un’ipotetica guerra, non impiegò molti giri di parole: «Restrizioni? Perché preoccuparsi di salvare le loro vite? L’intera faccenda è di uccidere i bastardi. Se alla fine della guerra rimangono due americani e un russo, allora abbiamo vinto noi».

 

Lo spirito che animava molti dei principali attori che danzavano sull’orlo dell’annientamento nucleare era questo.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]