contemporanea
POCHI SECONDI
ALLA MEZZANOTTE
LA CRISI DEI MISSILI DI CUBA / Parte I
di Matteo
Avallone
Mobile ordigno di dentate rote
lacera il giorno e lo divide in ore,
ed ha scritto di fuor con fosche note
a chi legger le sa: Sempre si more.
Ciro di Pers, Orologio da rote, Poesie
Giugno 1947. Il numero mensile del
bollettino degli scienziati atomici
dell’università di Chicago uscì con
un’insolita copertina. I lettori
disposti a spendere la modica somma di
25 centesimi di dollaro si trovarono di
fronte a una prima pagina di sfondo
arancione, dal quale emergeva la
porzione finale del quadrante di un
immaginario orologio.
La lancetta delle ore, un tozzo
rettangolo di colore nero, era fissa a
indicare il cerchio delle dodici, mentre
un’altra, bianca, slanciata e più esile,
si trovava poco più indietro, a sette
minuti dalla mezzanotte. L’insieme
appariva estremamente stilizzato: così
semplice ed essenziale che si sarebbe
potuto pensare all’opera di un bambino.
A ben vedere non si trattava che di
elementari forme geometriche su di un
foglio di carta, eppure l’intera
combinazione comunicava l’idea di un
movimento inesorabile, come un conto
alla rovescia capace di trasmettere un
senso di urgenza e di inquietudine. Non
occorreva infatti un grande sforzo di
immaginazione per figurarsi la corsa
delle lancette, magari scandita da un
sinistro ticchettio.
La mente che aveva ideato quella
copertina destinata a divenire iconica
era quella di una pittrice di St. Louis
poco più che trentenne. In un momento di
ispirazione aveva scarabocchiato il
primo bozzetto sul retro di una sonata
per piano di Beethoven. Si chiamava
Martyl Schweig ed era la moglie di
Alexander Langsdorf, uno dei ricercatori
del Progetto Manhattan. Il suo geniale
design grafico accompagnò nella storia
il Doomsday Clock: l’Orologio
dell’Apocalisse.
Per mezzo di un’immagine
dell’immediatezza simile a quelle delle
vetrate istoriate delle cattedrali
medievali, gli scienziati americani
intendevano fornire ai loro
contemporanei un simbolo tangibile del
pericolo che sovrastava l’intero genere
umano. Idearono quindi un orologio
allegorico, dove la mezzanotte
rappresentava la fine del mondo e i
minuti precedenti la distanza dalla
catastrofe.
A quei tempi non era troppo difficile
immaginare quale minaccia concreta si
nascondesse tra le ombre di
quell’allusione. Il mondo era da poco
entrato nell’era atomica, e lo aveva
fatto nella maniera più brutale
possibile. Meno di due anni prima gli
Stati Uniti avevano sganciato senza
troppe remore morali due ordigni atomici
sulle città giapponesi di Hiroshima e
Nagasaki, ponendo fine alla Seconda
guerra mondiale ma causando oltre
100.000 vittime in pochi secondi.
Coloro che perirono all’istante nella
palla di fuoco generata dall’esplosione
furono i più fortunati. Nei giorni, o
addirittura negli anni seguenti, molte
altre persone sperimentarono il lato più
crudele delle armi nucleari, morendo a
causa delle atroci conseguenze del
fallout radioattivo. La stragrande
maggioranza era costituita da inermi
civili.
Lentamente, la sensibilità collettiva
della gente di metà Novecento si
arricchì – per modo di dire – di un
ulteriore livello nella scala
dell’orrore e della paura: dopo
Auschwitz l’epitome del male divenne
Hiroshima, e il correlativo oggettivo
della bestialità dell’essere umano un
fungo atomico.
Appariva con sempre maggiore evidenza
come l’uomo si fosse tramutato nel
peggiore nemico di se stesso. Le più
recenti armi che la scienza gli aveva
messo nelle mani rappresentavano la
negazione di ogni possibile fine
politico all’uso indiscriminato della
forza: in altre parole, la guerra sembrò
perdere agli occhi di molti ogni tipo di
giustificazione teorica, in quanto
anticamera della distruzione totale.
Eppure, l’agenda delle grandi potenze
mondiali sembrava non tenere conto dei
pericoli insiti in questo nuovo
scenario. Due anni dopo quel numero del
“Bulletin of the Atomic Scientists”
l’Unione Sovietica testò con successo la
sua prima bomba atomica in Kazakistan,
nella desolazione del poligono nucleare
di Semipalatinsk. Era il 29 agosto 1949.
L’opinione pubblica americana non lo
apprese che un mese più tardi, quando il
presidente Truman rese noto che i
risultati di rilevazioni dei livelli di
radioattività dell’atmosfera conducevano
a ritenere che in un punto imprecisato
dell’Asia centrale fosse avvenuta
un’esplosione. Il Cremlino si trovò
costretto a confermare l’ipotesi.
Con largo anticipo su quanto avessero
preventivato, quel giorno gli americani
persero il monopolio nucleare, e con
esso buona parte del senso di
invulnerabilità derivante dal riposare
su di un continente virtualmente
inattaccabile perché protetto dal resto
del mondo da due oceani.
Gli scienziati guidati da Igor Kurčatov
avevano consegnato a Stalin la
prestigiosa tessera n. 2 del club
nucleare. La conseguenza più diretta
appariva scontata: l’URSS avrebbe
iniziato a fabbricare e accumulare un
numero sempre crescente di ordigni
atomici, proprio come gli Stati Uniti, i
quali, sentendosi ora minacciati,
avrebbero a loro volta incrementato il
ritmo di crescita del proprio arsenale.
Si annunciava l’innesco di una nuova
corsa agli armamenti, i cui effetti
avrebbero alterato in maniera
imprevedibile gli equilibri di forza tra
gli Stati.
Il nucleare, con l’immenso potenziale
distruttivo che rappresentava, non era
semplicemente una carta nelle mani di
una grande potenza, ma un intero mazzo
di pericolose possibilità. E la maggior
parte di esse era inesplorata. In linea
di principio, dietro il volersi dotare
dell’arma atomica risiedeva un fine di
deterrenza e, accanto ad esso, di
rafforzamento del proprio peso
diplomatico e negoziale. Ma in realtà
nessuno sapeva esattamente come
impiegare questo potere entro margini di
ragionevole sicurezza.
La ragione era banale: nessuno poteva
fare affidamento su di un’esperienza
pregressa dalla quale trarre
insegnamenti. Politologi, capi di Stato
e strateghi si ritrovarono in un
territorio sconosciuto e di fronte a
problemi del tutto nuovi: elaborare
nuove dottrine di azione e reazione in
un mondo dove la proliferazione nucleare
avrebbe presto preso il sopravvento.
Visto oggi, il prodotto dei loro sforzi
non appare intellettualmente
entusiasmante. L’aspetto comune, e più
sconvolgente, di questi tentativi era
l’accettazione dell’utilizzo di armi
atomiche. Presto o tardi, in un modo o
nell’altro, si dava per scontato che
sarebbero state usate.
Il meglio che l’amministrazione
Eisenhower seppe fare nel campo della
dottrina militare fu prevedere l’impiego
massiccio e simultaneo di tutte le oltre
3.000 testate allora in possesso degli
Stati Uniti. Più tardi, nel 1957, Henry
Kissinger, giunse a conclusioni più
raffinate, ma solo di poco. Nel suo
saggio Nuclear Weapons and Foreign
Policy, prospettò un uso flessibile
e limitato delle forze nucleari, anche
in caso di attacco da parte dei
sovietici. La speranza – o se vogliamo
l’abbaglio – stava nel voler costringere
l’avversario a seguire delle regole
comuni, cosa che poteva non essere
affatto scontata.
Per questo motivo molti osservatori
rimanevano in dubbio sul fatto che gli
uomini di potere – o perlomeno una buona
parte di essi – possedessero la maturità
e la consapevolezza necessaria per
gestire con giudizio simili sfide. La
pianificazione militare e il fanatismo
ideologico negli ultimi trent’anni
avevano portato a due guerre mondiali:
se questi fantasmi si fossero di nuovo
ridestati sotto altre forme, questa
volta avrebbero gettato il mondo
nell’abisso dell’annientamento.
Una celebre battuta di quegli anni colse
esattamente lo spirito e la natura del
pericolo incombente: era difficile dire
con quali armi si sarebbe combattuta la
terza guerra mondiale, ma la quarta di
sicuro avrebbe visto l’impiego esclusivo
di pietre e frecce. La guerra nucleare –
come forse tutte le guerre del passato –
difficilmente avrebbe visto dei
contendenti “responsabili”, in grado
cioè di auto-limitarsi ponendo
l’estensione del proprio potere
distruttivo entro certe regole condivise
di impiego. Si sarebbe combattuto come
sempre si era fatto: al massimo delle
proprie capacità e per infliggere il
maggior danno possibile al nemico. Non
ci volevano particolari doti di
preveggenza per vedere la guerra
nucleare come un inferno dal quale non
esisteva ritorno.
Nel 1949, nel numero di ottobre del loro
ormai famoso bollettino, gli scienziati
di Chicago spostarono le lancette
dell’orologio in avanti di quattro
minuti. Adesso alla mezzanotte ne
mancavano solamente tre. Tredici anni
dopo, nell’ottobre del 1962, l’umanità
si ritrovò da un giorno all’altro a
guardare direttamente in faccia lo
spettro dell’olocausto nucleare. Nel
posto più impensabile del mondo, nella
grande isola caraibica di Cuba, stavano
avvenendo dei fatti che avrebbero potuto
spingere la lancetta dei minuti del
Doomsday Clock a compiere il suo
giro finale.
Per tutta la prima metà del Novecento,
Cuba era stata un semi-protettorato
degli Stati Uniti o, volendo essere più
precisi, una sorta di dépendance per
ricchi americani. Un assolato paradiso
di alberghi di lusso, spiagge, casinò,
turismo spesso a sfondo sessuale,
alcool, corruzione e criminalità. La
terra e le attività economiche, in
massima legate alla monocoltura dello
zucchero, erano controllate dalle grandi
corporations americane, le quali
esercitavano un’autentica influenza
neocoloniale.
Buona parte dei sei milioni di abitanti
locali versava in condizioni poco più
che miserabili. Solo un terzo dei cubani
aveva un lavoro stabile e la metà dei
bambini non veniva mandata a scuola. Le
ricche miniere di nichel, ferro e rame
dell’isola non producevano che per le
esigenze del mercato nordamericano: da
un censimento del 1958 a Cuba
risultavano più prostitute che minatori.
L’asservimento che regnava da un punto
di vista politico non era meno
oppressivo di quello in campo economico.
Fulgencio Batista, il brutale dittatore
locale che deteneva il potere
praticamente dagli anni Trenta, non era
altro che uno squallido proconsole nelle
mani dei poteri forti di Washington.
Nel 1960 Earl E.T. Smith, finanziere e
diplomatico, in un’audizione alla
commissione del Senato statunitense
dichiarò candidamente che “…
l’ambasciatore americano era la seconda
personalità del Paese, spesso anche più
importante dello stesso presidente
cubano”.
Nessuno avrebbe trovato da ridire se
sulla bandiera americana si fosse cucita
una nuova stella. |