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N. 42 - Giugno 2011 (LXXIII)

CROLLO DELL’ECONOMIA SOVIETICA
qualche riflessione

di Roberto Rota & Biagio Nuciforo

 

Nonostante la decadenza, sin dalla fine degli anni ‘70, del sistema economico sovietico e nonostante il fallimento del sogno comunista, la caduta dell’Unione Sovietica fu un evento inaspettato. E ciò è vero non tanto per l’esito a cui portarono gli eventi, e cioè la disgregazione del sistema, ma per la rapidità e imprevedibilità del fenomeno stesso.

 

Paradossalmente le cause immediate del crollo devono essere rintracciate nei tentativi di riforma dello stesso segretario del PCUS Mikhail Gorbaciov, il quale dopo i lunghi anni della reggenza brezneviana, dinanzi alla stagnazione (zastoi) del paese, cercò di risollevare la situazione con tutta una serie di riforme che, involontariamente, portarono al crollo del sistema.

 

Il problema principale dell’economia del paese era data dalla sua stessa natura: si trattava di un economia centralmente pianificata, senza nessun collegamento con il sistema globale che, soprattutto dopo gli anni ‘70, diventava sempre più interconnesso e transnazionale. Il sistema sovietico di basava su una serie di agenzie statali che regolamentavano sin nei minimi dettagli ogni particolare dell’economia.

 

Il Gosplan, (abbreviazione di Gosudarstvenny Komitet po Planirovaniyu cioè la Commissione statale per la Pianificazione), aveva il compito di pianificare i piani quinquennali dello sviluppo economico sovietico, inoltre decideva i prezzi delle singole merci in circolazione; il Gossnap cioè l’ufficio statale per la fornitura di materiali e macchinari, esso aveva il compito di controllare tutte le transazioni commerciali interne all’Unione Sovietica e quindi, in pratica, controllava effettivamente la circolazione dei beni e delle forniture. Infine vi era la Gosbank, la banca centrale, quale, però, doveva sottostare ai piani della Commissione per la Pianificazione.

 

Un sistema così centralizzato non permetteva ai prezzi e alle merci di “autoregolarsi” in base al meccanismo della domanda e dell’offerta, per questo quasi sempre ci si ritrovava in una situazione di scarsità, anche perché, come vedremo, la precedenza veniva data all’industria militare e non a quella dei beni di consumo.

 

La scarsità delle merci contribuì alla creazione di un mercato parallelo (mercato nero) che cercava di sopperire all’inefficienza del sistema e paradossalmente, permettendo all’economia centralizzata di sopravvivere, non permise al sistema stesso di rendersi pienamente consapevole dei suoi difetti. Molto spesso erano gli stessi funzionari di partito, arricchitisi con il “contrabbando”, a permettere la sopravvivenza dell’economia parallela e la disgregazione di quella centralizzata.

 

La maggior parte delle risorse statali era indirizzata all’industria, a discapito dell’agricoltura, e in particolare all’industria mineraria e pesante (per poter rendere il sistema autosufficiente). L’industria, a sua volta, era subordinata alla produzione bellica. Il primo, fondamentale, difetto del sistema era dunque quello di orientare le maggiori risorse, le migliori menti e le più avanzate tecnologie verso la produzione militare, la quale difficilmente era convertibile per l’uso civile, soprattutto per un sistema chiuso che non doveva affrontare la concorrenza.

 

Le industrie, preoccupate esclusivamente si esaudire i desideri del Ministero della Guerra, non erano orientale alla produzione per il consumo. Chiaramente anche l’isolamento del sistema contribuì alla decadenza dello stesso, perché non essendo la produzione orientata all’esportazione, essa non era necessariamente all’avanguardia. Proprio per questo quando l’Unione Sovietica fu costretta ad importare derrate alimentari, a causa della sua agricoltura costantemente in crisi, fu costretta a controbilanciare tali importazioni non con i propri manufatti, per nulla competitivi, ma con le materie prime, soprattutto petrolio.

 

Il sistema funzionò finché il prezzo delle materie prime si mantenne alto (si pensi alla crisi del 1973), ma quando nel 1986 il prezzo del petrolio crollò il sistema ne risentì profondamente.

 

Il secondo problema fondamentale dell’economia sovietica risiedeva della sua eccessiva burocratizzazione e centralizzazione. Un sistema del genere non poteva, per sua stessa natura, favorire l’innovazione. Un esempio su tutti è dato dai piani quinquennali. Tali piani erano rigidamente stilati in base alle tecnologie presenti e non potevano prevedere le future innovazioni, ma d’altronde le tecnologie prese in considerazione erano esse stesse arretrate in quanto quelle all’avanguardia erano destinate alle ricerche militari. Un sistema pianificato non poteva prevedere le innovazioni future e per cinque anni (alla volta) bloccava qualsiasi rinnovamento, anche perché adottare nuove tecnologie poteva essere pericoloso, perché avrebbe potuto portare al non raggiungimento degli obiettivi del piano.

 

Se il sitema prevedeva delle quote di produzione, calcolate in base alle vecchie tecnologie, era inutile cercare di migliorare e velocizzare la produzione, il piano non lo prevedeva. Quando, negli anni ‘60 Aleksej Kosygin cercò di migliorare il sistema, dando maggiore libertà di azione alle aziende, il sistema dimostrò la sua incoerenza. Secondo il principio della pianificazione le aziende che riuscivano ad aumentare la propria produzione non venivano premiate ma vedevano aumentare i proprio obiettivi per il piano successivo. Era meglio, quindi, continuare nella propria mediocrità che rischiare di lavorare di più.

 

Terzo problema fondamentale era dato dall’isolamento del sistema sovietico. Oltre ai problemi connessi con le esportazioni e le importazioni, l’isolamento si ripercuoteva sull’innovazione e sulla ricerca. Un sistema chiuso non poteva connettersi con l’estero e confrontare le proprie ricerche. Non solo all’interno dello stato la ricerca era scollegata dall’industria e ogni centro di ricerca tendeva ad essere il più autonomo possibile per ottenere singolarmente i premi di produzione, ma gli scienziati russi erano strettamente controllati e emarginati rispetto alla comunità internazionale.

 

Tale auto emarginazione portò a scelte paradossali. In alcuni campi, fortemente all’avanguardia, come quello delle tecnologie informatiche, poiché non era possibile confrontare le proprie ricerche, si pensò bene si copiare quelle straniere. Sarebbe stato catastrofico, per l’apparato militare, restare indietro nel campo della tecnologia informatica e così, per non rischiare di perdere il passo con il resto del mondo (soprattutto Giappone e USA), non potendo collaborare per la ricerca si pensò bene di copiare quella straniera.

 

Ma il processo di reverse engineering, comporta necessariamente dei tempi lunghi e quindi si ottenne proprio quello che si voleva evitare: il sistema rimase arretrato rispetto alla tecnologia straniera. In un’epoca dove la tecnologia era ed è quella dell’informazione, proprio il controllo di quest’ultima da parte di un sistema centralizzato impedì l’innovazione. D’altronde lo stato sovietico non poteva fare altrimenti, il controllo politico-ideologico dei mezzi d’informazione era fondamentale per la sopravvivenza di un sistema che si basava su di un controllo centralizzato della società. Il problema era il sistema stesso, non le scelte sbagliate.

 

Infine il sistema aveva un difetto strutturale difficilmente risolvibile. L’economia sovietica era rimasta ai primi stadi dell’industrializzazione, questo vuol dire che seguiva un modello di accumulazione estensiva. Le economie di questo tipo connettono l’aumento della propria produttività all’aumento quantitativo dei fattori di produzione (manodopera, materie prime e capitali), per questo nel caso in cui l’offerta dei fattori di produzione diminuisce, diminuirà anche la produzione.

 

Le economie occidentali, invece, avevano adottato già da tempo un sistema diverso, basato sull’informazionalismo, il quale collegava l’aumento di produttività alla capacità qualitativa di ottimizzare le combinazioni e l’impiego dei fattori di produzione in base alla conoscenza e all’informazione. In altre parole anche se i fattori di produzione fossero diminuiti, le innovazioni tecnologiche avrebbero mantenuto o addirittura aumentato la produttività.

 

L’economia sovietica entrò in crisi quando, tra gli anni ‘70 e ‘80, perse il suo punto di forza: la grande disponibilità di fattori di produzione. La manodopera diminuì a causa del calo delle nascite, il costo di estrazione delle materie prime aumentò a causa delle crescenti difficoltà per trovare nuovi giacimenti (i quali si trovavano in territori sempre più inaccessibili) e, infine, a parità di capitale si riusciva a produrre molto di meno.

 

L’economia sovietica era rimasta indietro, ma abbiamo visto, ciò derivava soprattutto dai difetti intriseci del sistema centralizzato. Mentre l’occidente rinnovava le proprie econome entrando nell’epoca delle tecnologie informatiche e dell’innovazione produttiva, l’est sovietico restava legato ad un sistema arretrato di industrialismo figlio dello stato centralizzato. Va da se che le nuove tecnologie dell’informazione erano pericolose e distruttive per un sistema centralizzato, ma d’altronde il non adottarle condannò l’economia all’arretratezza.

 

Gorbaciov, consapevole dei difetti del sistema cercò di cambiare l’economia, ma proprio le sue riforme portarono al crollo del sistema. La ricostruzione (perestrojka) di Gorbaciov era indirizzata al disarmo e all’allentamento del controllo sovietico dell’Europa orientale, alla riforma economica e al decentramento del sistema politico.

 

La supremazia del Partito Comunista, però, non era messa in discussione come nemmeno l’economia di comando, per questo l’opera di ricostruzione era debole poiché voleva risolvere la situazione sovietica partendo da quello stesso partito e da quello stesso sistema centralizzato che ne erano i maggiori mali.

 

L’opera di riforma, quindi fu incostante e portò esclusivamente al crollo del sistema. Gorbaciov aveva grande fiducia nel sistema socialista, voleva risollevare il paese attraverso il partito, ma il partito era uno dei maggiori ostacoli per il cambiamento, anche perché la sua esistenza e il suo potere erano strettamente collegati con il sistema di controllo centralizzato.

 

Nella sua opera di riforma il presidente era riuscito ad avere l’appoggio dell’esercito e del KGB (i servizi segreti) anche perché era drammatico lo stato di arretratezza delle truppe, lo aveva dimostrato la campagna in Afghanistan. I generali, gelosi del proprio prestigio, appoggiarono le riforme soprattutto per ammodernare e ridimensionare efficacemente l’esercito. I servizi segreti, vicini alla realtà quotidiana, si resero conto che la situazione della popolazione era drammatica e che, d’altronde, schierarsi contro il nuovo corso del presidente esponeva il paese a preoccupanti divisioni e quindi al rischio di una guerra civile. Le resistenze maggiori provenivano invece, dagli apparati dello stato e del partito e dal mondo economico.

 

La nomenklatura dello stato e il comitato centrale del partito non volevano diminuire il proprio controllo del paese e, d’altronde, i dirigenti delle imprese di stato si opponevano a qualsiasi processo di parziale privatizzazione. C’è da dire anche che sia i primi che i secondi si erano fortemente arricchiti grazie a quel mercato nero frutto dell’inefficienza di quello centralizzato. Ma tale sfruttamento poteva continuare solo se si conservava un sistema economico centralmente inefficiente. Riformare voleva dire cambiare troppo cose in un paese dove gli interessi della classe dirigente erano profondamente adattati alle falle e alle inefficienze dell’economia.

 

Da questi contrasti nacque la coraggiosa scelta di Gorbaciov. La storia sovietica è stata continuamente caratterizzata dai tentativi di riformare il sistema, dalla NEP di Lenin alle riforme economiche di Nikita Chruščëv e Aleksej Kosygin. In ogni caso il partito era sempre riuscito a riportare il sistema nell’ortodossia e sotto il suo controllo. Gorbaciov, consapevole di ciò, scavalcando il partito, si appellò direttamente all’opinione pubblica per far appoggiare le sue riforme.

 

Era necessario, però, liberalizzare l’informazione e i media per poter avere l’appoggio della popolazione. La perestrojka aveva bisogno di un appoggio forte, questo non poteva essere dato dal partito ma solo dell’opinione pubblica, per questo il presidente pose alla base della sua azione riformatrice la glasnost “la trasparenza” o meglio la “pubblicità” nel senso di “dominio pubblico”.

 

Solo il popolo poteva appoggiare il presidente contro le resistenze e gli interessi della nomenklatura. Ma la liberalizzazione dell’opinione pubblica si rivelò pericolosa in un paese che da più di settant’anni si trovava sotto lo stretto controllo del partito. Essa liberò forze centrifughe che distrussero l’Unione Sovietica, quali e soprattutto le forze nazionaliste che, spesso, si identificavano con quelle democratiche.

 

Non si vuole qui raccontare la storia degli ultimi giorni dell’unione sovietica, ma è bene ricordare che non furono esclusivamente le forze nazionali e indipendentistiche a portare al crollo.

 

L’Unione Sovietica, esempio originale, cedette sotto il peso dei difetti intrinseci al suo sistema economico-politico. Era quest’ultimo ad aver fallito, il crollo era solo una questione di tempo.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Manuel Castells, Volgere di Millennio, Università Bocconi, Milano 2008.



 

 

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