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N. 25 - Gennaio 2010
(LVI)
Contro la Humanae Vitae
teologi contestatori e morale sessuale della Chiesa
di Lawrence M.F. Sudbury
Partiamo
da
una
semplice
definizione:
una
“enciclica”
(dal
greco
enkýklos,
"in
giro",
"in
circolo")
è
una
lettera
pastorale
del
Papa
della
Chiesa
cattolica
su
materie
dottrinali,
morali
o
sociali,
indirizzata
ai
Vescovi
della
Chiesa
stessa,
e,
attraverso
di
loro,
a
tutti
i
fedeli.
Di
per
sé,
una
enciclica
non
è
strumento
di
definizione
dogmatica,
formulata
nei
modi
che
attribuiscono
alle
risoluzioni
pontificie,
nel
contesto
della
disciplina
giuridica
interna
al
mondo
cattolico,
il
carattere
dell'infallibilità.
Il
Pontefice
se
ne
serve
piuttosto
per
tracciare
indicazioni
pressanti,
chiarire
punti
della
Dottrina
di
cui
le
circostanze
hanno
evidenziato
il
rilievo
o
formulare
giudizi
su
situazioni
e
problemi
di
particolare
urgenza.
E’
però
vero
che,
laddove
è
accentuato
l'aspetto
dottrinale,
il
messaggio
di
una
enciclica
è
riconosciuto
nondimeno
dotato
di
intrinseca
autorevolezza,
frutto
del
rispetto
dovuto
al
Magistero
ordinario
del
Sommo
Pontefice
e
della
garanzia
di
autenticità
che
rivendicano
gli
atti
solenni
del
suo
ruolo
di
governo.
Insomma,
in
parole
povere,
pur
non
essendo
un
atto
formale
di
governo
ecclesiastico,
in
pratica
ogni
enciclica
diventa
un
documento
programmatico
e
normativo
ineludibile
per
i
fedeli.
Nel
XX
secolo,
non
sono
state
poche
le
encicliche
che
hanno
aperto
dibattiti
anche
accesi
in
seno
al
mondo
cattolico,
ma,
probabilmente,
nessun
documento
papale
è
mai
stato
discusso,
analizzato
e
aspramente
contestato
come
la
Humanae
Vitae
di
Papa
Paolo
VI.
Per
comprendere
le
ragioni
di
ciò,
dobbiamo
tentare
di
contestualizzare
storicamente
e
sociologicamente
la
sua
redazione.
Siamo
nel
1968,
in
un
periodo
di
fermenti
sociali,
politici
e
culturali
volti
al
cambiamento
che
non
ha
precedenti
nella
complicata
storia
del
“secolo
breve”:
tutto
deve
cambiare
e
tutto
sta
cambiando,
inclusa
la
morale
sessuale.
Siamo
nel
periodo
dell’“amore
libero”,
del
rifiuto
dei
legami
matrimoniali
e di
ogni
elemento
sentito
come
“costrittivo”
nei
confronti
di
quelli
che
vengono
vissuti
come
sentimenti
ed
istinti
naturali
e
non
imbrigliabili
dalla
ragione
e
dall’etica,
da
vivere
in
assoluta
libertà.
è
ovvio
che,
in
questo
panorama,
la
Chiesa
dovesse
intervenire
per
tentare
di
dare,
proprio
dal
punto
di
vista
morale,
un
po’
di
ordine
al
caos
imperante.
Lo
fa,
appunto,
Paolo
VI,
il
25
giugno
1968,
con
la
Humanae
Vitae,
riaffermando
categoricamente
alcuni
principi
di
fondo,
ma a
molti,
anche
all’interno
della
Chiesa
stessa,
quello
che
doveva
essere
un
freno
verso
tendenze
troppo
libertarie
appare
da
subito
una
sorta
di
“prigione”
di
imperativi
categorici
ormai
fuori
dal
tempo
e
dalla
storia,
assolutamente
inadatti
alla
società
corrente
e
atti
unicamente
ad
allontanare
le
masse
(in
particolare
quelle
giovanili)
dalla
fede.
In
sostanza,
cosa
afferma
l’enciclica
papale?
Di
base,
Paolo
VI
riafferma
semplicemente
la
posizione
tradizionale
della
Chiesa
cattolica
sul
matrimonio
e
sui
rapporti
coniugali
e
condanna
senza
appello
ogni
di
controllo
artificiale
delle
nascite,
anche
sulla
base
dei
risultati
delle
ricerche
di
due
Commissioni
papali
e di
numerosi
esperti
indipendenti
su
quest’ultimo
argomento.
Già
in
passato
i
suoi
predecessori,
in
particolare
Pio
XI,
Pio
XII
e
Giovanni
XXIII,
avevano
molto
insistito
sugli
obblighi
dei
coniugi
alla
luce
del
loro
“rapporto
di
collaborazione”
con
Dio
creatore:
se
il
divieto
per
i
Cristiani
alla
contraccezione
e
all'aborto
risaliva
agli
scritti
di
Padri
della
Chiesa
come
Clemente
Alessandrino
e
Sant’Agostino
(e
non
era
mai
stata
messo
in
dubbio
fino
alla
“Conferenza
di
Lambeth”
del
1930,
in
cui,
subito
seguita
dalle
altre
principali
Confessioni
protestanti,
la
Comunione
Anglicana
aveva
permesso
la
contraccezione
in
determinate
circostanze),
Pio
XI,
nella
Casti
Connubii,
si
era
scagliato
contro
ogni
forma
di
contraccezione
e di
pianificazione
familiare
non
naturale,
mentre
Giovanni
XXIII
aveva
addirittura
istituito,
nel
1963,
una
commissione
di
sei
esperti
non-teologi
europei
per
riflettere
sulle
questioni
del
controllo
delle
nascite
e
della
popolazione,
che
aveva
finito
per
riconfermare
le
posizioni
ecclesiastiche
classiche.
Sulla
scia
di
secoli
di
Magistero,
dunque,
Paolo
VI
vede
i
rapporti
coniugali
come
molto
più
di
una
unione
di
due
persone
ma
come
il
massimo
grado
di
libera
unione
creatrice
con
Dio:
le
due
persone
creano
un
nuovo
essere
umano
materialmente,
mentre
Dio
porta
a
compimento
tale
creazione
aggiungendo
l'anima,
in
una
sorta
di
partenariato
divino,
tale
per
cui
non
sono
consentite
arbitrarie
decisioni
umane
che
possano
limitare
la
Provvidenza
celeste
e
tale
da
risultare,
pur
nelle
possibili
difficoltà
e
nei
possibili
disagi
di
un
rapporto
coniugale,
superiore
a
qualunque
considerazione
proveniente
da
discipline
quali
biologia,
psicologia,
demografia
e
sociologia.
All’interno
di
una
coppia
l’amore
deve
essere
totale
dono
si
sé,
fonte
di
condivisione
di
ogni
cosa
e
scevro
da
ogni
indebita
inferenza
e da
ogni
sentimento
egoistico.
Le
circostanze
possono
imporre
spesso
che
le
coppie
sposate
debbano
limitare
il
numero
di
bambini:
in
sé,
l'atto
sessuale
tra
marito
e
moglie
è
ancora
degno
anche
se
non
sfocia
in
conseguenze
procreative,
ma
esso
deve
“mantenere
il
suo
rapporto
intrinseco
alla
procreazione
della
vita
umana”.
Di
conseguenza,
l’“interruzione
diretta
del
processo
generativo
già
iniziato”
è
ovviamente
illegittima
(e,
dunque,
l’aborto,
anche
per
ragioni
terapeutiche,
è
assolutamente
vietato,
così
come
la
sterilizzazione,
anche
se
temporanea),
ma,
allo
stesso
modo,
anche
ogni
azione
specificamente
destinate
ad
impedire
la
procreazione
(includendo
in
ciò
sia
l’uso
di
mezzi
chimici
che
di
metodi
di
barriera
al
concepimento)
è
vietata
(tranne
nei
casi
medicalmente
necessari),
essendo
direttamente
in
contraddizione
con
l'ordine
morale
stabilito
da
Dio.
In
questo
quadro,
i
mezzi
terapeutici
che
inducono
l'infertilità
sono
ammessi
(ad
esempio,
l’isterectomia)
solo
se
non
sono
specificamente
destinati
a
causare
infertilità
così
come
sono
ammessi
i
metodi
di
pianificazione
familiare
naturali
(l'astensione
dai
rapporti
durante
alcune
parti
del
ciclo
mestruale)
essendo
essi
una
“una
facoltà
prevista
dalla
natura”,
ma
nessun’altra
deroga
può
essere
concessa
in
materia
di
limitazione
delle
nascite.
Dal
punto
di
vista
morale,
per
altro,
l’accettazione
di
metodi
artificiali
di
controllo
delle
nascite
comporterebbe
una
serie
di
effetti
negativi,
fra
cui
un
generale
“abbassamento
degli
standard
morali”
derivanti
da
una
sessualità
vissuta
senza
pensare
alle
sue
conseguenze,
il
pericolo
che
gli
uomini
possono
ridurre
le
donne
ad
essere
un
mero
strumento
per
la
soddisfazione
dei
propri
desideri,
l'abuso
di
potere
da
parte
delle
autorità
pubbliche
e un
falso
senso
di
autonomia
dell’essere
umano.
L’enciclica
ha
anche
risvolti
socio-politici
di
notevole
portata:
- le
autorità
pubbliche
dovrebbero
opporsi
alle
leggi
che
minano
il
diritto
naturale;
-
gli
scienziati
dovrebbero
studiare
ulteriormente
efficaci
metodi
di
controllo
naturali
delle
nascite;
- i
medici
dovrebbero
familiarizzarsi
con
l’insegnamento
della
Chiesa
per
essere
in
grado
di
dare
consigli
ai
loro
pazienti;
- i
Sacerdoti
devono
precisare
in
maniera
chiara
e
completa
l'insegnamento
della
Chiesa
sul
matrimonio.
Già
in
fase
estensiva
dell’enciclica
Paolo
VI
riconosce
le
difficoltà
di
recepimento
di
un
testo
così
definitivo,
affermando
che
“forse
non
tutti
facilmente
accetteranno
questo
insegnamento
particolare”,
ma
sottolinea
come
la
Chiesa
cattolica
romana
non
possa
“dichiarare
legittimo
ciò
che
è di
fatto
illegittimo”,
dal
momento
che
Essa
si
occupa
di
“tutelare
la
santità
del
matrimonio,
al
fine
di
orientare
la
vita
coniugale
in
tutta
la
sua
pienezza
umana
e
cristiana”.
E,
infatti,
le
reazioni
alla
pubblicazione
della
lettera
papale
furono
immediate.
Lasciando
anche
da
parte
le
prevedibili
critiche
dei
governi
comunisti
dell’Est
europeo
(il
governo
della
Polonia,
ad
esempio,
dopo
l’uscita
dell’enciclica
iniziò
a
promuovere
l'aborto
e il
controllo
delle
nascite
con
maggior
vigore,
mentre,
in
Unione
Sovietica,
la
“Literaturnaja
Gazeta”,
una
pubblicazione
di
intellettuali
vicini
a
PCUS,
pubblicò
addirittura
un
lunghissimo
editoriale
che
includeva
una
dichiarazione
ufficiale
da
parte
di
medici
russi
contro
l'enciclica),
furono
in
molti,
anche
nel
mondo
occidentale,
a
criticare
aspramente
il
testo
pontificio:
l’Unione
Luterana
si
dichiarò
delusa
dall’assunto
papale,
Eugene
Carson
Blake,
leader
della
Chiesa
Evangelica
attaccò
gli
“obsoleti”
concetti
di
natura
e
diritto
naturale,
che,
a
suo
avviso,
ancora
dominavano
la
teologia
cattolica,
il
presidente
della
Banca
Mondiale
Robert
McNamara
dichiarò
ad
una
riunione
del
FMI
che
i
Paesi
che
consentono
pratiche
di
controllo
delle
nascite,
avrebbero
avuto
accesso
privilegiato
alle
risorse
per
lo
sviluppo
e,
ovunque,
Cattolici
e
non
Cattolici
si
dimostrarono
molto
preoccupati
per
le
conseguenze
sociali
e
demografiche
che
gli
insegnamenti
cattolici
avrebbero
potuto
avere
(e
le
preoccupazioni
si
sono,
naturalmente,
più
recentemente
moltiplicate
con
la
diffusione
del
virus
HIV).
Anche
all’interno
dei
ranghi
ecclesiastici
lo
scontento
per
soluzioni
che
a
molti
sembravano
improntate
unicamente
al
più
rigido
conservatorismo
non
tardarono
a
farsi
sentire.
Il
Cardinal
Suenens,
ad
esempio,
subito
chiese
pubblicamente
se
la
teologia
morale
avesse
tenuto
sufficientemente
conto
dei
progressi
scientifici
nella
determinazione
di
cosa
fosse
secondo
natura
e,
nel
1969,
arrivò
a
criticare
la
decisione
del
Papa
come
non
collegiale
e,
anzi,
anti-collegiale,
ricevendo
immediato
sostegno
da
teologi
del
calibro
di
Karl
Rahner
e
Hans
Küng,
e da
diversi
vescovi,
tra
cui
Christopher
Butler.
Il
dissenso
contro
la
Humanae
Vitae,
però,
in
qualche
modo,
si
incarnò
nel
più
attento
teologo
morale
del
‘900,
Bernard
Häring,
e
nel
suo
discepolo
Charles
Curran.
Redentorista
dall’età
di
12
anni,
missionario
in
Brasile,
membro
della
Commissione
preparatoria
del
Concilio
Vaticano
II e
in
seguito
professore
di
teologia
morale
e
sociologia
pastorale
all'Accademia
Alfonsiana
dal
1949
al
1987,
Bernard
Häring
ebbe
un
lunghissimo
contrasto
con
il
Papato
riguardo
all’enciclica
di
Paolo
VI.
Dopo
essere
stato
segretario
della
Commissione
redattrice
della
Gaudium
et
Spes,
cioè
della
Costituzione
pastorale
sulla
Chiesa
nel
mondo
contemporaneo,
Padre
Häring
aveva,
infatti,
elaborato
un
sistema
che
egli
stesso
aveva
definito
di
“teologia
morale
esperienziale”,
basato
sulla
sintesi
rielaborativa
del
Magistero
tradizionale
riletto
alla
luce
delle
Scritture
e
ricontestualizzato
nel
quadro
delle
necessità
delle
società
moderne,
ponendosi,
in
questo
modo,
al
polo
ecclesiastico
radicalmente
opposto
rispetto
a
quello
rappresentato
dallo
spirito
che
aveva
guidato
la
redazione
della
Humanae
Vitae.
Non
è,
dunque
strano
che,
già
nel
1964,
egli
avesse,
nel
suo
saggio
“Theology
and
the
Pill”,
largamente
circolato
soprattutto
negli
Stati
Uniti,
apertamente
sostenuto
la
liceità
dell’utilizzo
della
pillola
anticoncezionale
a
fini
di
controllo
delle
nascite
(pur
riconoscendo
che
la
decisione
finale
dovesse
competere
al
“Magisterium
Ecclesiae”)
né
che,
alla
pubblicazione
dell’enciclica
di
Paolo
VI,
immediatamente
si
schierasse
nel
campo
degli
oppositori,
definendo
il
testo
papale
“inutilmente
legalistico”
e
sostenendo
gli
interventi
fortemente
critici
del
suo
discepolo
Charles
Curran
(di
cui
si
tratterà
più
estesamente
in
seguito)
con
dichiarazioni
quali
“Chiunque
sia
convinto
che
il
divieto
assoluto
di
mezzi
artificiali
di
controllo
delle
nascite,
come
affermato
dalla
Humanae
Vitae
sia
la
corretta
interpretazione
della
legge
divina
deve
seriamente
sforzarsi
di
vivere
secondo
questa
convinzione.
Chiunque,
però,
dopo
seria
riflessione
e
aver
molto
pregato
è
convinto
che
un
tale
divieto
non
possa
essere
conforme
alla
volontà
di
Dio
dovrebbe
seguire,
con
totale
pace
interiore,
la
sua
coscienza
e,
quindi,
non
sentirsi
un
Cattolico
di
seconda
classe”
e,
soprattutto
in
un
breve
ma
densissimo
scritto
dal
titolo
emblematico:
Love
is
the
Answer,
primo
passo
di
quella
serie
di
atti
che
lo
porteranno,
nel
giro
di
pochissimi
anni,
a
finire
sotto
processo
della
Congregazione
per
la
Retta
Dottrina
(processo,
per
altro,
mai
concluso
con
una
sentenza
di
condanna,
anche
a
causa
del
tumore
alla
gola
che,
nel
frattempo,
aveva
colpito
Häring
e
che,
dopo
lunghissimo
decorso,
lo
porterà
alla
morte
nel
1998).
Fu,
comunque,
soprattutto
il
periodo
successivo
che
vide
una
radicalizzazione
delle
posizioni
di
Häring
e
una
loro
sempre
più
forte
divaricazione
rispetto
a
quelle
vaticane.
In
particolare,
in
un
testo
del
1973
dal
titolo
Medical
Ethics
il
teologo
redentorista
difese
atti
ritenuti
assolutamente
inconciliabili
con
la
morale
cattolica,
quali
la
sterilizzazione,
la
fecondazione
artificiale
e la
contraccezione,
tutti
visti
come
possibili
strumenti
di
“paternità
e
maternità
responsabili”
e
presentò
un
“parere”
riguardante
l’aborto
(specificamente
in
caso
di
stupro)
secondo
cui,
“prima
del
periodo
tra
venticinquesimo
e
quarantesimo
giorno,
l'embrione
non
può
essere
considerato
una
persona
umana”.
Nello
stesso
libro,
tra
l’altro,
Häring
affermò
che
in
una
società
pluralista
la
Chiesa
avrebbe
dovuto
smettere
di
discutere
di
questioni
etico-mediche
in
termini
religiosi
e
avrebbe
dovuto
cominciare
a
pensare
in
termini
di
bene
comune,
di
giustizia
verso
i
deboli
e di
tutela
dei
valori
comunemente
accettati.
Ovviamente,
in
queste
affermazioni
v’era
già
abbastanza
materia
per
un
biasimo
ufficiale
ma
la
vera
e
propria
apertura
del
fascicolo
processuale
avvenne
nel
1975,
dopo
la
pubblicazione
di
un
saggio
sul
“Western
Catholic
Report”
in
cui
il
teologo
affermava
che
il
divieto
alla
contraccezione
era
causa
della
diffusione
delle
pratiche
abortive
e
che
anche
le
leggi
della
Chiesa
sul
matrimonio
e il
divorzio
avrebbero
dovuto
essere
riviste,
essendo
unicamente
causa
di
“sofferenze
crudeli,
soprattutto
per
i
giovani”,
provocate
da
una
Sacra
Rota
che
“vive
nel
peccato”
e da
conservatori
militanti
che
“lottano
stupidamente
contro
il
cambiamento”.
A
processo
in
corso,
nel
1976,
Häring
attaccò
nuovamente
i
“metodi
naturali”
di
contraccezione,
ritenendoli,
in
alcuni
casi,
addirittura
causa
di
danni
per
il
nascituro
e di
problemi
sociali
di
estrema
rilevanze,
ma
fu
soprattutto
qualche
anno
dopo,
nel
1989,
che
la
sua
polemica
contro
la
morale
sessuale
della
Santa
Sede
riprese
con
estremo
vigore,
con
un
articolo
su
“Il
Regno”
in
cui,
attaccando
ferocemente
Monsignor
Carlo
Caffarra,
posto
da
Papa
Giovanni
Paolo
II a
capo
dell’“Istituto
per
gli
Studi
sul
Matrimonio
e la
Famiglia”
della
Pontificia
Università
Lateranense,
chiedeva
a
gran
voce
che
la
discussione
sulla
contraccezione
venisse
riaperta,
ponendo
termine
ad
una
polarizzazione
“catastrofica
per
la
Chiesa”.
In
quello
stesso
articolo,
il
teologo
morale
sosteneva
che
l’enciclica
del
1968
fosse
solamente
un
dibattito
sulla
legittimità
dei
metodi
contraccettivi
artificiali
rispetto
a
quelli
naturali
e
che,
in
ogni
caso,
ciò
che
veramente
conta
non
è
che
una
coppia
utilizzi
l’uno
o
l’altro
metodo,
ma
che
gli
sposi
giungano
alla
decisione
di
trasmettere
la
vita
in
modo
responsabile:
in
altre
parole,
secondo
Häring,
la
moralità
dell’atto
non
si
basa
sulla
natura
oggettiva
dell'azione,
ma
sul
processo
soggettivo
utilizzato
da
parte
dell'interessato
per
arrivare
alla
sua
decisione,
tesi
questa
duramente
attaccata
nella
risposta
del
Vaticano,
apparsa
sull’“Osservatore
Romano”
del
27
febbraio
1989,
in
cui
si
ribadiva
che
il
fondamento
della
morale
si
basa
sul
giudizio
oggettivo
sull'azione,
vista
come
“di
per
sé”
giusta
o
sbagliata.
Infine,
l’ultimo
atto
della
disputa,
si è
avuta
nel
1993,
alla
pubblicazione
della
Veritatis
Splendor
di
Papa
Giovanni
paolo
II,
quando
un
Häring
ormai
già
molto
malato
ma
pur
sempre
combattivo
ha
messo
in
dubbio
la
competenza
del
Papa
in
materia
di
teologia
morale
e di
etica
sessuale
e ha
dichiarato:
"Dobbiamo
far
sì
che
il
Papa
sappiamo
quanto
siamo
feriti
dai
segni
di
una
così
radicata
mancanza
di
fiducia
nel
genere
umano”.
Dopo
la
morte
di
Häring,
il
comando
del
(cospicuo)
nucleo
dei
prelati
contrari
alla
morale
sessuale
corrente
della
Chiesa
Cattolica
è
stato
decisamente
preso
dal
suo
ex
discepolo
(all’Accademia
Alfonsiana)
Charles
Curran
anch’egli,
come
anticipato,
da
sempre
critico
verso
l’enciclica
di
Paolo
VI.
Anzi,
era
stato
proprio
Curran,
nel
1968,
ad
“aprire
le
danze”,
organizzando,
a
solo
due
giorni
dalla
pubblicazione
della
Humanae
Vitae,
un
gruppo
di
teologi
americani
dissidenti
e
dichiarando
pubblicamente
che
“le
coscienze
individuali
dovrebbero
prevalere
in
questioni
tanto
personali
e
private”
come
la
sfera
sessuale
coniugale.
Di
fatto,
poi,
essendo
una
figura
sicuramente
meno
“imponente”
e
carismatica
di
Häring
in
campo
teologico,
Roma
ha
avuto
un
maggior
agio
di
agire
direttamente
nei
suoi
confronti,
così
da
renderlo
una
sorta
di
“martire
della
causa”
della
rivolta
alla
morale
ecclesiastica
e da
fare
della
sua
stessa
vita
una
“bandiera
della
causa”.
Sacerdote
dal
1958
per
la
diocesi
di
Rochester
(New
York)
e
giovane
“Peritus”
al
Concilio
Vaticano
II,
Curran
viene,
infatti,
rimosso
dal
suo
incarico
di
docente
di
teologia
morale
a
tempo
indeterminato
presso
l'Università
Cattolica
di
America
(CUA)
nel
1967
proprio
per
le
sue
opinioni
sul
controllo
delle
nascite,
ma
il
provvedimento
viene
revocato
cinque
giorni
dopo
a
seguito
di
un
imponente
sciopero
di
tutti
i
docenti
della
sua
facoltà
che
sostengono
il
suo
“diritto
di
critica”.
Il
suo
nome
torna,
però,
alla
ribalta
già
nel
1968
quando,
a
capo
di
un
gruppo
di
circa
600
teologi,
pubblica
una
durissima
risposta
alla
Humanae
Vitae.
Dopo
quanto
accaduto
l’anno
precedente,
la
Chiesa,
pur
aprendo
un
dossier
sul
suo
comportamento,
preferisce
comunque
non
agire
direttamente
e
Curran
continua
a
insegnare
e
scrivere
idee
in
aperto
contrasto
con
l'insegnamento
della
Chiesa
su
varie
questioni
morali,
compresi
il
sesso
prematrimoniale,
la
masturbazione,
la
contraccezione,
l'aborto,
gli
atti
omosessuali,
il
divorzio,
l'eutanasia
e la
fecondazione
in
vitro
per
tutti
gli
anni
’70
e
‘80.
Nel
1986,
però,
su
precise
disposizioni
di
Papa
Giovanni
Paolo
II,
la
mano
della
Sacra
Congregazione
per
la
Dottrina
della
Fede,
retta
dall’allora
Cardinale
Josef
Ratzinger,
è
ben
più
pesante
che
negli
anni
’70
e il
teologo
dissidente,
al
termine
di
un
“processo”
iniziato
già
nel
1979,
viene
definitivamente
rimosso
dalla
Facoltà
di
Scienze
della
Catholic
University
of
America,
con
la
motivazione
che
per
i
suoi
scontri
con
l’autorità
della
Chiesa
egli
non
è
“né
adatto
né
idoneo
a
essere
un
professore
di
teologia
cattolica”.
Curran
risponde
al
provvedimento
in
due
modi:
in
campo
teologico,
come
ricorda
nel
suo
successivo
(2006)
Loyal
Dissent:
Memoirs
of a
Catholic
Theologian,
afferma
il
principio
che
tutti
i
Cattolici
possono
dissentire
ma,
allo
stesso
tempo
adeguarsi
al
Magistero
del
Papa,
dei
Vescovi
e
della
Congregazione
per
la
Dottrina
della
Fede,
mentre,
in
campo
sindacale,
nel
1989
cita
in
giudizio
la
CUA
per
non
aver
seguito
le
procedure
appropriate
nel
suo
licenziamento
ma,
pur
ottenendo
il
pieno
appoggio
della
AAUP
(Associazione
Americana
dei
Docenti
Universitari),
perde
la
causa
(anche
se
la
CUA
rimane,
per
questo
episodio,
a
tutt’oggi
una
“istituzione
censurata”
dalla
AAUP).
In
seguito,
dopo
aver
insegnato
come
“visiting
professor”
presso
la
Cornell
University,
ottiene
una
nuova
cattedra
(di
“Valori
Umani”)
presso
la
Southern
Methodist
University
di
Dallas
e da
tale
“pulpito”
continua,
pur
avendo
toccato
la
soglia
dei
75
anni,
la
sua
crociata
per
cambiare
una
morale
che
definisce
“retriva,
stupida,
senza
nessun
contatto
con
la
realtà
effettuale
e
atta
unicamente
ad
allontanare
giovani
e
meno
giovani
dalla
Chiesa
di
Dio”,
cosa
che
fa
perdurare
il
divieto
pontificio
all’insegnamento
in
qualunque
università
cattolica
(tanto
che,
nel
2006,
una
sua
prevista
conferenza
al
St.
Patrick's
College
di
Maynooth
ha
dovuto
essere
cancellata
per
un
diktat
papale
diretto).
In
realtà,
comunque,
anche
al
di
là
di
quella
che
è
ormai
una
“crociata
personale”
di
Curren
(e,
prima
ancora,
di
Häring),
le
voci
dissenzienti
contro
la
Humanae
Vitae
sono
ancora
più
che
presenti
e,
anzi,
provengono
da
figure
sempre
più
eminenti
della
Chiesa.
Un
esempio
per
tutti
è
dato
dal
Cardinal
Carlo
Maria
Martini
che,
nel
suo
Conversazioni
notturne
a
Gerusalemme.
Sul
rischio
della
fede
del
2008
accusa
l’enciclica
di
Paolo
VI
per
aver
prodotto
“un
grave
danno”
col
divieto
della
contraccezione
artificiale,
cosicché:
“molte
persone
si
sono
allontanate
dalla
Chiesa
e la
Chiesa
dalle
persone”.
A
Paolo
VI
in
particolare,
l’ex
Arcivescovo
di
Milano
imputa
d'aver
celato
deliberatamente
la
verità,
lasciando
che
fossero
poi
i
teologi
e i
pastori
a
rimediare
adattando
i
precetti
alla
pratica,
e
scrive:
“Io
Paolo
VI
l'ho
conosciuto
bene.
Con
l'enciclica
voleva
esprimere
considerazione
per
la
vita
umana.
Ad
alcuni
amici
spiegò
il
suo
intento
servendosi
di
un
paragone:
anche
se
non
si
deve
mentire,
a
volte
non
è
possibile
fare
altrimenti;
forse
occorre
nascondere
la
verità,
oppure
è
inevitabile
dire
una
bugia.
Spetta
ai
moralisti
spiegare
dove
comincia
il
peccato,
soprattutto
nei
casi
in
cui
esiste
un
dovere
più
grande
della
trasmissione
della
vita”.
Martini
ricorda
poi
che
“dopo
l'enciclica
Humanae
Vitae
i
vescovi
austriaci
e
tedeschi,
e
molti
altri
vescovi,
seguirono,
con
le
loro
dichiarazioni
di
preoccupazione,
un
orientamento
che
oggi
potremmo
portare
avanti”,
ma
sottolinea
come
Giovanni
Paolo
II,
abbia
seguito
“la
via
di
una
rigorosa
applicazione”.
La
speranza
del
Cardinale
è
nel
futuro,
quando
afferma
“Probabilmente
il
Papa
non
ritirerà
l'enciclica,
ma
può
scriverne
una
nuova
che
ne
sia
la
continuazione.
Sono
fermamente
convinto
che
la
direzione
della
Chiesa
possa
mostrare
una
via
migliore
di
quanto
non
sia
riuscito
alla
Humanae
Vitae.
Saper
ammettere
i
propri
errori
e la
limitatezza
delle
proprie
vedute
di
ieri
è
segno
di
grandezza
d'animo
e di
sicurezza.
La
Chiesa
riacquisterà
credibilità
e
competenza”.
Certamente,
all’interno
della
Chiesa
Cattolica,
si
tratta
di
una
speranza
condivisa
…
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