N. 75 - Marzo 2014
(CVI)
CRISI UCRAINA E GUERRA MONDIALE
LE MOLTE FORME DELLA VIOLENZA
di Virgilio Ilari
Interrogandosi
sui
possibili
sviluppi
della
crisi
ucraina,
commentatori
e
governi
hanno
evocato
una
“nuova
guerra
fredda”,
e i
più
pessimisti
quella
“terza”
guerra
mondiale
di
cui
si
parla
ormai
da settant’anni.
Ma
cosa
significa
guerra
“mondiale”?
Proviamo
a
riflettere
sul
significato
di
questo
aggettivo.
Gli
storici
chiamano
“mondiali”
(World
Wars)
unicamente
le
guerre
del
1914-18
e
1939-45.
Inizialmente
la
prima
fu
detta
“la
guerra
europea”,
poi
“grande”
guerra,
e
soltanto
dopo
il
1917
fu
qualificata
come
“mondiale”,
perché
l’intervento
degli
Stati
Uniti
faceva
venir
meno
la
centralità
dell’Europa.
“Mondiale”
aveva
dunque
qui
un
significato
strettamente
geografico,
equivalente
a
“globale”.
Dal
resto
l’idea
di
una
guerra
estesa
all’intero
Pianeta
grazie
al
Potere
aerospaziale
era
già
emersa
nella
fantascienza
di
fine
Ottocento
(1886
Robur
il
conquistatore
di
Giulio
Verne;
1897
La
guerra
dei
mondi
/
War
of
the
Worlds,
di
Herbert
G.
Wells).
Tuttavia
“mondiale”
non
evoca
soltanto
“spazio”,
ma
pure
“impero”,
“ordine”,
“civiltà”.
Le
guerre
mondiali
sono
state
infatti
pure
guerre
tra
“imperi”
coloniali
per
l’instaurazione
di
un
nuovo
“ordine
mondiale”.
Alcuni
di
questi
imperi
appartenevano
alla
medesima
“civiltà”
(Occidentale),
tanto
che
Ernst
Jünger
coniò
nel
1942
l’espressione
“guerra
civile
mondiale”
poi
ripresa
da
alcuni
storici
per
qualificare
il
periodo
1914-1945
(“guerra
civile
europea”,
Ernst
Nolte)
o
l’intero
Novecento
(“guerra
civile
universale”,
Dan
Diner),
che
anche
altri
storici
vedono
ormai
come
un’epoca
storica
conclusa
(Eric
Hobsbawm,
il
“secolo
breve
1917-1989”).
Il
concetto
di
guerra
“mondiale”
diventa
così
un
possibile
strumento
del
pensiero
storico,
per
rileggere
con
occhi
nuovi
il
passato,
anche
se
finora
lo
hanno
fatto
solo
gli
storici
del
“mondo
antico”,
interpretando
come
“mondiali”
la
guerra
del
Peloponneso
e le
guerre
Puniche.
Molto
più
rara
è
stata
finora
l’applicazione
alle
guerre
moderne,
come
ha
fatto
ad
esempio
Arnold
D.
Harvey,
che
ha
incluso
tra
le
“mondiali”
pure
le
cosiddette
“guerre
della
Rivoluzione
e
dell’Impero
francesi”
del
1792-1815
(Collision
of
Empires:
Britain
in
Three
World
Wars,
1793-1945).
Gli
storici
del
mondo
“antico”,
ossia
gli
storici
dell’antichità
classica
greco-romana,
studiano
infatti
un’epoca
conclusa,
un
processo
storico
culminato
nel
primo
impero
universale
dell’Occidente.
Gli
storici
del
mondo
“moderno”
studiano
invece
un
processo
storico
in
corso,
non
ancora
concluso.
In
ogni
modo
si
può
dire
però
che
tutte
le
guerre
europee
dell’età
moderna
sono
state
“mondiali”
in
senso
spaziale,
perché
sono
state
combattute
a
scala
planetaria,
anche
sugli
Oceani
e in
Asia,
Africa
e
America.
Inoltre
sono
state
“mondiali”
anche
in
senso
temporale,
perché
tutte
le
guerre
particolari
(locali,
regionali,
civili)
sono
state
più
o
meno
direttamente
collegate
ai
conflitti
maggiori
di
lunga
durata
tra
coalizioni
imperiali.
Gli
storici
faticano
a
rendersene
conto,
perché
guardano
alla
storia
delle
guerre
con
gli
occhiali
deformanti
della
concezione
occidentale
della
guerra.
Una
concezione
riduttiva
e
formalista,
che
non
consente
di
mettere
a
fuoco
le
connessioni
tra
i
vari
conflitti
e
considera
“guerra”
solo
l’impiego
diretto
della
forza
militare
nel
quadro
definito
dal
diritto
bellico.
Le
stesse
date
delle
guerre
mondiali
sono
arbitrarie,
perché,
contando
i
conflitti
particolari
connessi,
la
prima
è
durata
in
realtà
undici
anni
(dal
1911
al
1921)
e la
seconda
dieci
(1936-1945).
Anche
le
guerre
bilaterali
del
1898-1905
(ispano-americana,
anglo-boera,
russo-giapponese)
formano
un’unica
guerra
mondiale,
così
come
quelle
del
1946-1994
(guerra
fredda
e
conflitti
periferici).
E
con
lo
stesso
criterio
possiamo
rileggere
tutte
le
guerre
e le
rivoluzioni
europee
dei
quattro
secoli
precedenti.
Si
può
dire
anzi
che
l’intera
epoca
che
va
dal
1492
al
1991
costituisca
un’unica
immensa
guerra
civile
mondiale,
corrispondente
nel
mondo
antico
ai
cinque
secoli
dalle
guerre
Persiane
ad
Augusto.
Una
guerra
che
mutava
le
forme
e i
competitori,
ma
la
cui
latente
posta
in
gioco
era
in
ultima
analisi
sempre
la
stessa:
la
creazione
di
un
impero
a
vocazione
universale,
capace
di
riorganizzare
un
intero
“mondo”
(uno
spazio
geo-storico
autoreferenziale
e
autosufficiente)
come
sistema
permanente
di
sicurezza,
in
cui
l’esercizio
della
forza
fosse
tanto
legalmente
quanto
praticamente
riservato
ad
una
sola
autorità.
Questo
schema
ideale
si
ritrova
nell’antichissima
storia
egiziana
e
cinese,
e
compare
nell’antichità
classica
con
l’idea
del
protettorato
persiano
sulla
Grecia,
da
cui
derivarono
poi
l’impero
di
Alessandro
e
l’ordinamento
ellenistico
ereditati
infine
da
Roma.
E
nel
mondo
moderno
compare
nella
forma
della
competizione
tra
imperi
coloniali
europei,
col
definitivo
prevalere
nel
1815
di
quello
britannico.
Questo,
nuovamente
sfidato
alla
fine
del
secolo
dal
potenziale
asse
russo-tedesco,
fu
però
pignorato
nel
1916
a
garanzia
del
prestito
di
guerra
americano
(cosa
di
cui
Keynes
ebbe
immediata
consapevolezza
storica)
e
infine
ereditato
dagli
Stati
Uniti,
già
subentrati
fra
il
1824
e il
1898
nell’ex-impero
spagnolo.
Un
processo
che
si è
concluso
con
il
Nuovo
Ordine
Mondiale
instaurato
dopo
il
1991,
con
l’Europa
de-sovranizzata
e
ridotta
nelle
condizioni
della
symmachia
romano-italica
del
III-I
secolo
a.
C.,
e
con
l’assoggettamento
di
tutto
il
mondo
ai
poteri
di
guerra
del
Presidente
degli
Stati
Uniti,
unica
autorità
mondiale
legalmente
e
praticamente
in
grado
di
decidere
l’impiego
della
forza,
esattamente
come
fu
il
Princeps
romano.
Dal
punto
di
vista
della
storia
“civile”,
unicamente
concentrata
sugli
aspetti
costituzionali
e
sociali,
lo
spartiacque
tra
l’epoca
“moderna”
e
l’epoca
“contemporanea”
è il
1789.
Ma
dal
punto
di
vista
della
storia
“militare”
o
“strategica”,
lo
spartiacque
va
spostato
in
avanti
esattamente
di
due
secoli,
al
1989.
La
fine
della
guerra
fredda
chiude
infatti
l’epoca,
durata
cinque
secoli,
delle
guerre
mondiali
del
“mondo
moderno”,
e
apre
l’alba
dell’impero
universale
“moderno”,
incarnato
nell’Occidente
a
guida
americana.
Applicare
il
concetto
di
“guerra
mondiale”
all’interpretazione
storica
del
mondo
antico
e
del
mondo
moderno
significa
però
anche
mettere
in
questione
la
concezione
Occidentale
della
guerra,
rompere
gli
argini
militari,
giuridici,
etici
e
teologici
in
cui
abbiamo
cercato
di
“comprendere”
e
“limitare”
la
guerra.
Se
la
guerra
non
è
più
concepita
come
il
semplice
impiego
della
forza
militare
per
uno
scopo
e un
tempo
limitato,
ma
come
un
processo
storico
di
lunghissima
durata,
cade
infatti
la
distinzione
formale
tra
guerra
e
pace
ed
emergono
le
armi,
le
forze
e le
forme
di
guerra
non
militari.
Ciò
ci
consente
di
rispondere
alla
domanda
iniziale,
e
cioè
se
la
crisi
ucraina
può
o
meno
innescare
la
“terza
guerra
mondiale”
oppure
una
nuova
“guerra
fredda”.
La
risposta
è:
né
l’una
né
l’altra.
La
fine
della
guerra
fredda
ha
chiuso
l’epoca
delle
guerre
mondiali
moderne
perché
è
scomparso
l’ultimo
antagonista
globale
dell’Occidente.
L’Unione
Sovietica
non
esiste
più,
come
non
esistono
più
il
Terzo
Reich
e
l’Impero
di
Napoleone.
La
Russia
di
Putin
non
è
l’Unione
Sovietica
rediviva,
come
il
Secondo
Impero
francese
non
fu
il
Primo
Impero
redivivo.
Proprio
riferendosi
al
tentativo
di
Napoleone
III
di
far
rivivere
il
Primo
Impero,
Marx
pronunciò
il
famoso
giudizio
che
“la
storia
si
ripete
sempre
due
volte,
la
prima
in
chiave
di
tragedia,
la
seconda
in
chiave
di
farsa”.
La
Russia
è
certamente
un
principio
di
resistenza
all’egemonia
globale
degli
Stati
Uniti,
ma
non
è in
condizione
di
minacciare
l’Occidente
(come
del
resto
non
lo è
la
Cina).
Sono
piuttosto
gli
Stati
Uniti,
avanzati
ormai
a un
passo
da
Smolensk
e
dotati
di
una
schiacciante
superiorità
globale,
che
sembrano
assurdamente
inclini
ad
ascoltare
il
maniacale
ceterum
censeo
dei
nostri
russofobi,
i
quali
esibiscono
Gazprom,
la
Georgia,
la
Siria
e
ora
la
Crimea
come
Catone
mostrava
ai
senatori
i
fichi
freschi
appena
sbarcati
da
Cartagine.
In
astratto
potremmo
fare
dell’Ucraina
la
nostra
Numidia,
e
provocare
la
deflagrazione
della
Federazione
Russa
con
un
mix
di
guerra
economica
e
psicologica,
di
covert
operations
e
perfino
di
limitate
azioni
militari,
anche
se,
a
differenza
dei
Romani,
non
potremmo
risolvere
la
faccenda
con
un
rapido
sterminio
e
asservimento.
Alla
fine
Roma
decise
la
distruzione
di
Cartagine
non
perché
era
troppo
forte,
come
diceva
Catone,
ma
perché
era
troppo
debole
per
resistere
ai
numidi
e i
romani
non
volevano
trovarseli
a un
tiro
di
schioppo
dalla
Sicilia.
Se
un
giorno
volessimo
davvero
far
esplodere
la
Federazione
russa,
il
problema
non
sarebbe
la
sua
capacità
di
resistenza,
ma
l’impossibilità
non
dico
di
governare,
ma
anche
solo
di
immaginare
le
conseguenze
e le
ripercussioni
(a
cominciare
dalla
rivolta
dell’Europa
orientale
contro
l’imperialismo
polacco
e
dall’anarchia
sui
due
versanti
del
Caucaso).
Ricordiamoci
la
nemesi
della
distruzione
di
Cartagine.
Quindici
anni
dopo
cominciò
il
secolo
delle
guerre
civili
romane.
Mezzo
secolo
dopo,
Roma
dovette
chiamare
i
Numidi
per
sopravvivere
alla
rivolta
degli
alleati
italici
in
collegamento
con
quella
di
Mitridate.
La
paradossale
lezione
della
storia,
è
che
gli
unici
periodi
di
relativa
pace
e
sicurezza,
almeno
a
scala
regionale,
sono
stati
quelli
che
si
reggevano
sull’equilibrio
di
potenza.
L’impero
universale
chiude
il
tempio
di
Giano,
o,
in
termini
moderni,
sancisce
il
concetto
discriminatorio
di
guerra
(come
vide
Carl
Schmitt),
per
cui
trasforma
l’auto-tutela
e la
resistenza
in
un
crimine
contro
l’umanità
(“cet
animal
est
très
méchant
/
quand
on
l’attaque
il
se
défend”).
Ciò
non
significa
però
che
la
violenza
viene
abolita,
ma
solo
che
viene
chiamata
con
altro
nome
ed
esercitata
in
altre
forme.