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N. 23 - Novembre 2009
(LIV)
LA CRISI LA PAGHIAMO NOI
Storia d'una giovane precaria
di Laura Novak
È la
prima
volta
che
scrivo,
in
un
articolo,
qualcosa
che
riguarda
la
mia
persona.
Il
compito
sarà
in
questo
caso
facilitato,
perché
non
parlerò
solo
di
me,
ma
di
migliaia
di
persone
come
me,
alcune
vicine,
vicinissime,
altre,
magari,
mai
conosciute.
Conversazione
tipo:
Laura:
-
Scusami
(al
Responsabile
del
personale),
dovrei
prendere
un
giorno
di
permesso,
ho
un
esame
all’università
-
Responsabile
del
Personale:
- Ma
hai
trovato
qualcuno
che
ti
sostituisce?-
L: -
Perché
lo
dovrei
trovare
io?
E se
fossi
malata?
Lo
dovrei
trovare
dal
letto
di
casa
mia?
Ad
ogni
modo
sì,
mi
sostituisce…-
R.d.P.:
- Ma
tu
stai
facendo
ancora
l’università?
Ma
pensi
che
riuscirai
mai
a
laurearti
prima
di
diventare
vecchia?-
L: -
Beh,
anche
se
il
mio
decadimento
fisico
ha
avuto
un’impennata
clamorosa
dopo
la
boa
dei
25
anni,
spero
di
sì,
almeno
prima
di
portare
la
dentiera…-
R.d.P.:-
Beh,
che
ne
so,
con
tutti
gli
anni
che
ci
hai
messo
saresti
dovuta
diventare
astrofisica!
E
invece
in
che
cosa
esattamente
ti
laureeresti?
-
L: -
In
lettere
e
filosofia,
indirizzo
scienze
storiche
-
R.d.P.:
- Ah
quindi
una
scienziata
della
Storia…interessante…e
faresti
cosa?
-
L: -
Ovvio…la
segretaria…sempre
meglio
che
la
disoccupata.
-
Avere
27
anni
e
cercare
a
ogni
costo
di
ricordarselo
è,
oggi,
una
grande
scommessa.
Io
ho
esattamente
quell’età.
Non
so
esattamente
quanto
ancora
vivrò
in
questo
strano
limbo,
fastidioso,
arido,
secco,
che
è la
vita
di
un
moderno
lavoratore,
in
cui
devi
essere
tutto,
ma
non
riesci
ad
essere
niente.
Mi
sono
iscritta
all’università
nel
2001.
Sono
passati
otto
anni
e,
senza
vergogna,
affermo
che
non
ho
ancora
raggiunto
la
laurea
(triennale).
Quando
mi
iscrissi
a
Storia
Contemporanea,
ancora
non
sapevo
quanto
questa
scelta
potesse
essere
sbagliata
per
me,
in
un
paese
come
l’Italia.
I
miei
genitori,
credendo
di
fare
il
mio
bene,
decisero
di
farmi
seguire
la
mia
natura,
struggente
e
letteraria,
molti
anni
prima,
iscrivendomi
al
Liceo
Classico.
In
quegli
anni
dovevo
concentrarti
sul
Latino,
le
versioni
di
Cicerone,
la
metrica
greca,
Senofonte,
Dante,
sempre
Dante,
Manzoni,
sempre
Manzoni,
ed
in
sostanza
poca
altra
roba.
Pensavo
che
la
cultura
fosse
nel
succo
tutta
lì.
Sapere
chi
ha
detto
“Di
necessità
fece
virtù”
od
il
significato
misogino
della
Medea.
Niente
Pasolini,
Tabucchi,
Moravia,
Beat
Genaration,
Yourcenar,
Sartre,
le
nuove
arti
visive,
la
fotografia
o la
meraviglia
del
cinema.
Uscita
dalle
porte
di
quell’insulso
liceo
della
Roma
“bene”,
nel
cuore
di
Prati,
capii
che
quel
diploma
era
considerato,
in
sostanza,
carta
straccia.
Non
sapevo
nulla
della
cultura
del
nostro
straordinario
e
combattuto
secolo,
ma,
ancor
più
grave,
non
sapevo
fare
nulla.
Nonostante
avessi
tentato
di
fare
la
shampista,
la
cameriera,
la
barista,
la
commessa,
la
baby
sitter,
la
dog
sitter,
l’autista
per
una
persona
disabile
ecc…non
sapevo
davvero
fare
bene
nulla
di
tutto
ciò…ah
sì
avevo
anche
tentato
di
fare
ripetizioni
private
di
latino,
ad
una
liceale
nuova
di
zecca
in
crisi
per
le
declinazioni.
Io,
che
a
latino
avevo
sistematicamente
4 e
che
le
declinazioni
non
mi
ricordavo
nemmeno
che
cos’erano
esattamente.
L’università
è un
fantastico
mondo
in
cui,
in
un
nepotismo
silenzioso
e
strisciante,
si
aggira
una
miscela
composita
fatta
di
poche
manciate
di
professori
illuminati,
mischiati
ad
una
folta
folla
di
docenti
astiosi
e
frustrati,
dai
capelli
sempre
un
po’
cotonati
e lo
sguardo
disinteressato,
assistenti
arroganti
ed
ammiccanti,
il
tutto
immerso
in
un
pantano,
ormai
imputridito,
di
burocrazia
da
terzo
mondo.
Si
passano
gli
anni
a
rincorrere
i
risultati
che
la
nuova
riforma
universitaria
(ormai
vecchia)
ha
imposto
all’iter
universitario:
200.000
esami
frammentati,
tipo
spezzatino,
per
uscire
trionfante
dopo
5
anni
con
due
lauree,
uno
stage
di 6
mesi
(obbligatorio)
e
gratuito,
ma…ignorante.
Non
ho
paura
a
ripeterlo.
Ignorante.
La
mia
personale
cultura,
assolutamente
insignificante
rispetto
alle
milioni
di
cose
da
sapere,
me
lo
sono
costruita
da
sola,
in
una
costante
ricerca
di
nozioni
nuove,
incoraggiata
dai
fatti
della
vita,
da
passioni
trascinanti
e da
incontri
fortunati.
Fra
un
anno,
spero,
di
avere
in
tasca
la
mia
banalissima
laurea
triennale,
di
vedere
i
miei
genitori
con
la
lacrimuccia
e il
mazzo
di
rose
rosse
fuori
all’aula,
il
fidanzato
con
la
telecamera
in
mano
e io
vestita
come
per
la
prima
comunione.
Sciocchezza
di
poco
conto
in
realtà,
che,
per
il
mondo
del
sapere,
non
ha
nessuna
rilevanza,
senza
specializzazioni
successive.
Ma
per
me
stessa
ormai
conta
molto;
in
una
sorta
di
eterna
maratona
è
diventato
l’arrivo
impossibile,
in
cui,
ogni
volta,
il
traguardo
viene
spostato
un
po’
più
in
là.
Mai
cosa
più
sbagliata
fu
poi
diventare
studentessa,
lavoratrice
part-time
(in
realtà
full-time).
Di
part-time
non
ho
proprio
nulla;
non
ne
ho,
soprattutto,
i
privilegi
del
tempo
a
disposizione.
Sì
perché
poi
c’è
il
meraviglioso
mondo
del
lavoro
di
oggi,
condito
da
migliaia
di
parole
inventate,
dal
sapore
internazionale,
dal
gusto
un
po’
importante
e di
rilievo,
che,
nella
sostanza,
nulla
significano
e
che
il
nulla
vogliono
rappresentare:
problem
solving,
web
assistant,
capacità
comunicative,
portafoglio
personale,
capacità
di
lavorare
in
team…
Entrai
in
un’azienda
medio-grande
sette
anni
fa,
a
vent’anni.
Il
mio
ingresso
fu
trionfale.
Il
mio
capo,
che
con
i
piedi
appoggiati
sulla
sua
scrivania
e i
calzini
di
paperino
fosforescenti
in
bella
vista,
mi
disse:
- Mi
sembra
una
ragazza
mediamente
intelligente,
in
realtà
non
esattamente
brillante,
con
qualche
problema
di
look,
ma
proviamo…-
Ora,
dopo
tanto
tempo,
so
cosa
è
davvero
successo
in
questo
lungo
periodo.
All’inizio
pensavo
che
quest’esperienza
sarebbe
stata
breve
e mi
avrebbe
insegnato
in
poco
tempo
alcune
cose
di
poco
conto,
ma
di
largo
spaccio:
rispondere
ad
un
telefono,
smistare
la
posta
elettronica
e
mandare
due
fax.
Io
sfruttavo
loro.
Errore.
Mi
plasmarono,
mi
gestirono,
mi
convertirono
a
qualcosa
di
cui
loro
avevano
necessità,
insegnandomi
come
ci
si
“deve”
comportare,
come
rispondere
ad
un
telefono
senza
accendere
il
cervello,
in
una
catena
di
montaggio
necessaria
perché,
il
lavoro
contemporaneo,
possa
risultare
assolutamente
impersonale.
In
una
sorta
di
reminescenza
temporale,
le
vecchie
fabbriche
sono
diventate
oggi
i
nostri
uffici:
nessuno
è
indispensabile;
tutti,
forse,
possiamo
essere
utili,
ma
in
un
vortice
di
mortificazioni
ed
umiliazioni,
in
cui,
ogni
giorno,
qualcuno
è
pagato
per
farti
sentire
nulla
facente,
nulla
pensante.
Il
gossip
è
all’ordine
del
giorno,
soprattutto
in
un
ambiente
lavorativo,
irto
di
donne
insidiose
e
pettegole.
I
divorzi,
i
litigi,
i
matrimoni,
le
relazione
clandestine,
e
perfino
le
morti,
terribili
ed
improvvise,
vengono
trattati
come
scoop
di
bassa
lega.
Le
relazioni
interpersonali
sono
senza
reale
interesse,
velate
da
un
sorriso
meschino
di
circostanza.
Tutti
contro
tutti,
ma
anche,
tutti
insieme,
contro
un
unico
individuo,
che,
guarda
caso,
non
è
mai
colui
che
gestisce
da
burattinaio
i
fili
delle
sue
marionette.
La
classica
battaglia
tra
poveri.
I
soldi
danno
il
potere,
non
la
cultura
o la
sensibilità.
Questa,
non
è
una
novità.
Ma,
oggi,
in
sostanza,
danno
soprattutto
il
ruolo,
il
prestigio,
la
posizione
per
parlare,
minacciare,
insultare,
urlare.
Non
importa
se
poi
ci
si
esprime
attraverso
chicche
di
sensibilità
come
(citazione
testuale
del
mio
titolare):
-
Nella
vita
devi
andare
a
vendere
i
reggiseni
alla
Standa.
-
Ed
io,
come
tanti
della
mia
età,
mi
ritrovo
a
combattere
all’interno
di
due
universi
opposti,
in
decadimento
progressivo,
lavoro
e
studio,
che
combattono
tra
loro
e
non
riescono
mai
ad
incrociarsi
nella
mia
vita.
Trascurando,
in
questo
continuo
barcamenarsi,
la
soddisfazione
personale.
Per
sostenere
un
esame
all’università
richiedo
permessi
anticipati
(sempre
nel
caso
che
i
nostri
contratti
a
scadenza,
come
il
latte,
ne
diano
la
possibilità);
a
volte
con
scuse
improbabili,
altre
volte
dicendo
la
verità,
innescando
automaticamente
malumore
od
immancabili
risatine.
Ad
ogni
modo
studi
di
notte,
il
caffè
di
caffè
sul
fuoco,
il
weekend,
nelle
ore
più
disparate,
addirittura
sotto
la
scrivania,
come
quando
sotto
i
banchi
di
scuola,
di
nascosto,
mandavo
gli
sms
o
cercavo
di
copiare
il
copiabile
dal
libro
di
testo.
Mi
presento
il
giorno
dell’esame
all’università
ed
il
caos
mi
attende,
ogni
volta.
300
iscritti,
tu
sei
la
lettera
N…fregata.
Devo
tornare
il
giorno
dopo,
altra
giustificazione
al
lavoro,
nuovo
permesso
per
il
giorno
dopo
(a
quel
punto
diventano
ferie),
ritornare
in
facoltà,
dopo
una
nuova
notte
in
compagnia
del
caffè
di
caffè
e,
di
nuovo,
niente
da
fare:
ancora
120
persone
da
esaminare
prima
di
me.
E
via
così,
giorno
dopo
l’altro.
Ogni
tanto
però
ci
si
ritrovare
in
un’aula
semi
vuota
e,
non
essendo
frequentante,
si
intuisce
che
qualcosa
non
torna.
Arriva
il
professore,
con
cui
si
sono
scambiate
tre
o
quattro
e-mail,
ed
il
motivo
di
tale
deserto
diventa
evidente.
Un
esame
insuperabile,
un
muro
invalicabile.
La
preparazione
non
sarà
mai
sufficiente
e
soprattutto
-
non
è
rispettosa
per
la
materia
complessa
-,
che
ci
si
ritrova
a
dover
imparare
a
memoria
su
libri
incomprensibili,
scritti
ovviamente
dal
docente,
che
costano
una
vera
fortuna
(per
lui).
Citazione
testuale
di
un
docente:
- Se
non
ci
si
può
concentrare
sullo
studio,
che
è a
tutti
gli
effetti
un
lavoro
a
tempo
pieno,
non
si
DEVE
fare
l’università…-
Parafrasando,
utilizzando
parole
concrete:
se
non
ci
si
puoi
permettere
gli
studi,
ma
si
devono
fare
mentre,
contemporaneamente,
si
cerca
di
arrivare
alla
fine
del
mese,
che
si
fanno
a
fare?
Beh,
direi
incoraggiante.
Nel
frattempo
lavoro
otto
ore
ogni
giorno,
spero
di
prendere
lo
stipendio
a
fine
mese,
pagare
le
bollette
e
l’affitto
astronomico
che
pago
per
una
stanza/casa,
combatto,
altre
tre
ore
al
giorno,
per
cercare
un
nuovo
lavoro,
fare
colloqui
per
ogni
tipo
di
mansione,
correndo
con
il
motorino
da
una
parte
all’altra
della
città,
rischiando
la
vita,
più
o
meno,
quattro
volte
al
giorno.
Compro
tutti
i
venerdì
giornali
di
annunci
vari,
vedo
tutti
i
giorni
i
siti
di
ricerca
lavoro,
e
cerco
di
oltrepassare,
con
la
punta
dell’evidenziatore,
il
milione
di
annunci
per
call
center,
data
entry,
baby
sitter,
dog
sitter,
badante,
segretaria
particolare
espansiva
e
femminile
(per
fortuna
non
rientro
nella
categoria),
agente
immobiliare,
recupero
crediti
etc…
Mi
dico:
ancora
no,
ti
prego,
ancora
no…poi,
domani,
magari
vedremo.
La
disperazione
può
far
fare
di
tutto.
E
cerco
di
divincolarmi
dalla
morsa
opprimente
degli
uffici
di
lavoro
interinale,
che
possono
sì
trovare
un
lavoro,
ma
al
massimo
per
sei
mesi,
togliendo
dal
primo
o,
addirittura,
secondo
stipendio,
una
quota
dovuta
alla
loro
agenzia.
Citazione
testuale
di
una
dipendente
di
un’agenzia
per
il
lavoro:
-
Beh,
noi
cerchiamo
lavoro
per
te -
.
Laura:
-
Beh,
io
cerco
lavoro
per
me
stessa,
ma
voi
siete
ovunque,
comunque
e
sempre
nel
cammino
tra
me
ed
un’occupazione,
cercatemelo
voi
e io
mi
riposo!
-
E,
seppure
dovessi
trovare
un
nuovo
lavoro,
ecco
altri
ostacoli:
studentessa
no,
troppo
vecchia
no,
troppo
giovane
no,
laureata
no,
sposata
no,
con
figli
no,
con
compagni
fissi
no,
senza
macchina
no,
senza
motorino
no,
ancora
impegnata
presso
altro
lavoro
no,
disoccupata
no.
Se
riuscissi
anche
ad
evitare
tutti
questi
no…periodo
di
prova
obbligatorio
non
retribuito,
obbligo
di
dare
un
preavviso
al
vecchio
lavoro,
perdita
della
coincidenza
con
il
treno/lavoro
successivo,
liquidazione
probabilmente
molto,
ma
molto
lontana,
assicurazione
del
motorino
scaduta,
senza
motorino
no,
senza
macchina
no…
si
ricomincia.
Ecco,
questo
è il
mio
(ma
non
solo)
limbo
circolare.
I
nostri
politici
stanno
lì,
sempre
lì,
in
attesa
dell’illuminazione
per
risolvere
una
miriade
di
problemi
di
varia
natura.
Il
problema
è
che
sono
stati
votati
democraticamente
da
noi,
che
siamo
artefici
del
nostro
destino
e
delle
nostre
istituzioni.
La
scuola
primaria
non
riesce
a
dare
istruzione
paritaria
a
tutti
i
bambini
perché
non
ha
abbastanza
personale.
Soluzione:
spese
ridimensionate
con
tagli
del
personale
(precario)
e
reintroduzione
del
maestro
unico,
mentre
bambini
di
tre
e
quattro
anni
(tra
cui
la
figlia
di
una
mia
collega)
vengono
lasciati
soli
in
un’aula
al
terzo
piano,
con
finestre
e
cancelleria
varia,
pienamente
accessibili,
perchè
la
maestra
è
malata
e
non
ci
sono
sostituti
disponibili.
La
scuola
superiore,
oltre
a
dare
nozioni
ridicole,
evita
accuratamente
di
fornire
indicazioni
importanti
agli
studenti
sul
percorso
più
adatto
da
seguire
usciti
da
quelle
mura,
umide
e
crepate,
che
(troppo
spesso)
crollano
sopra
le
nostre
teste.
L’università,
da
pochi
anni
riformata
e da
pochi
mesi
ri-riformata,
nella
logica
politica
dovrebbe
accelerare
e
migliorare
i
tempi
utili
per
laurearsi,
sfornando
velocemente
giovani
e
competenti
dottori,
in
grado
di
immettersi
da
subito
nel
mondo
del
lavoro,
svecchiando
la
classe
dirigente
ed
abbassando
il
tasso
di
disoccupazione.
Peccato
che
non
esista
un
vero
universo
lavorativo
permeabile
a
nuovi
profili,
specializzato,
variegato
ed
in
espansione.
Nella
realtà
esiste
soltanto
una
lunga
serie
di
attività
di
servizi,
che
nascono
e
muoiono
continuamente,
in
cui
tutto
è
marketing,
tutti
vogliono
venderti
qualcosa
e
nessuno
sembra
avere
più
i
soldi,
la
pazienza
o il
desiderio
di
comprare
nulla.
Nemmeno
il
proprio
futuro.
Il
posto
fisso,
come
lo
potevano
intendere
i
nostri
genitori,
probabilmente
non
esisterà
più.
Sicuramente,
nemmeno
noi,
lo
vorremmo
più.
Ma
la
domanda
che
mi
faccio
tutti
i
giorni
è:
possibile
che
non
possa
esistere
un
giusto
compromesso
tra
la
mentalità
vecchia
e
statica
del
posto
fisso,
con
cartellino
e
pass
preferibilmente
ministeriale,
e la
mattanza
odierna
di
giovani
vecchi,
condannati
a
sentirsi
sempre
troppo
o
troppo
poco
per
il
mondo
lavorativo
di
oggi?
A
questo
punto,
magari,
vendere
i
reggiseni
alla
Standa
potrebbe
essere
per
me
un
roseo
avvenire…
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