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N. 26 - Luglio 2007

Crisi politica in Ucraina

L'oscillazione tra passato e presente

di Laura Novak

E’ stato un mese anomalo. Ma sembra che nessuno se ne sia accorto.

Quello che, nel mese scorso, ha scosso l’Ucraina è stato il tentativo di un Colpo di Stato piuttosto fuori dal comune, anche se, con queste parole consone e appropriate, non l’ha denominato nessun mezzo di informazione.

Questo perché, forse, non è avvenuto immerso nelle usuali modalità militari e di repressione o nelle marce in pompa magna, corrotte dal sangue.

L’ucraina è, ad oggi, un paese logorato dalle due forze politiche avversarie, che da anni combattono su fronti diversi una stessa battaglia, l’acquisizione di una nuova e solida Identità nazionale.

Da una parte i separatisti filo – occidentali, che, nei loro ideali politici, identificano libertà e separazione dalla madre Russia; e dall’altra i filo – moscoviti, nati e forgiati all’ombra di una bandiera di un rosso acceso, impregnata di significato che, nel corso del secolo, si è andata tristemente e miserevolmente a schiarire, fino a perdere la sua potenza evocativa di lotte, sogni e canti popolari.

Nel 2004, quando la rivoluzione arancione aveva imposto alle elezioni presidenziali democratiche il liberista e filo occidentale Victor Yushchenko, leader del partito la “Nostra Ucraina”, tutto sembrava però aver preso una piega nuova.

Yushchenko, dallo scontro diretto del 2004 con il suo rivale Victor Yanukovych, ne uscì sconfitto. Ma la scandalosa verità sui brogli elettorali nei conteggi delle votazioni ad opera del partito di Yanukovych e il coming out di Yushchenko su un suo avvelenamento ad opera di servizi segreti filo – russi, avvenuto durante la campagna elettorale, che lo aveva fortunatamente risparmiato alla morte, ma lo aveva al contrario condannato alla sfigurazione facciale, innescarono un’ondata di vergogna e di conseguente ribellione del popolo ucraino.

Alla guida di Yushchenko per settimane, nell’inverno ghiacciato di Kiev, giovani e non giovani, amareggiati e disillusi dalla politica di Yanukovych, strinsero al loro collo, con un doppio nodo, un fazzoletto arancione, colore simbolo del partito di Yushchenko, e fecero tremare i palazzi del potere, fino a farli crollare.

La rivoluzione arancione per la libertà e la democratizzazione elettorale aveva vinto, e Yushchenko era presidente.

Due anni dopo, nel 2006, Yushchenko e il suo governo, con in carica come primo ministro la “passionaria” Timoshenko, inizia a sgretolarsi.

L’ideale di libertà economica, sociale e politica millantata nel progetto politico di Yushchenko, altro non è che il tentativo goffo e fin troppo visibile di svendere il territorio e la sua importanza tattica, come ponte diretto verso la Russia e l’Asia, al colosso politico e consumistico Americano.

Di certo una nazione come l’Ucraina, con le sue radici e il suo vissuto storico, mal poteva sopportare una linea politica di completo servilismo.

L’economia inizia a cedere sotto lo sforzo anticipato e marcato di un’ apertura commerciale, assolutamente inappropriata per un paese senza propria autonomia produttiva e gestionale. Lo sbilanciamento verso il mercato estero diventa troppo pesante, e la crescita si azzera. In aggiunta poi agli scandali personali in cui vennero coinvolti in prima persona la premier Timoschenko e il presidente Yushchenko.

Nel 2006, quindi, scoppia la crisi politica.

Abbandonato sulla nave che affonda dalla sua alleata Timoschenko, dopo mesi di rapporti tesi, Yushchenko è costretto, nel marzo del 2006, ad indire elezioni legislative.

Elezioni che si riveleranno distruttive per il suo stesso governo.

Yanukovych, dopo due anni di silenzio, ritorna alla carica di primo ministro, ma questa volta senza aver necessità di effettuare brogli.

La maggioranza della coalizione del presidente Yushchenko, all’interno del governo in carica, sembra essere in pericolo. Numerosi politici del Parlamento, prima fedeli alla linea del presidente, iniziano a indirizzarsi verso l’uomo in quel momento più potente, Yanukovych.

La situazione peggiora notevolmente quando Yushchenko, senza approvazione del governo che rappresenta, scioglie per prima cosa le Camere, senza aver indetto nuove elezioni (indette poi solo per il 27 maggio), poi, nel maggio 2007, decide con un decreto non approvato dalla Camere (per ovvie ragioni di inesistenza delle suddette Camere legislative) di affidare le truppe militari denominate “dell’interno”, sotto la sua unica tutela, ed, infine, di licenziare il procuratore generale Piskun.

La condizione politica è fuori da ogni controllo.

Inizia quindi un braccio di ferro violento e senza esclusioni di colpi tra i due leader politici del paese.

Colui, Yushchenko, che si è fatto portavoce e simbolo di una rivoluzione verso un orizzonte libertario e democratico, diventa il simbolo dello strapotere e della cecità di azione politica.

Il 26 maggio 4000 militari della stessa unità dell’Interno sotto la guida del generale Kikhtenko, fedele al presidente Yushchenko, iniziano la “loro”marcia.

Una Marcia in tutti sensi; una Marcia che dalle province spinge verso la capitale Kiev, senza ordini legali, e senza approvazione “diretta” e “certificata” del governo stesso.

La giustificazione non è militare, ma di ordine sociale e civile.

L’avanzata, secondo i mass media, non ha conseguenze; viene arrestata e sbarrata dopo pochi giorni; secondo le documentazioni ufficiali, non ci sarebbe stati scontri violenti tra i militari e la polizia cittadina e provinciale all’ordine del premier Yanukovych.

I colloqui tra i due leader vengono portati all’estremo, ripetuti in successione per svariati giorni.

Il 27 maggio l’accordo nasce e la crisi può dirsi rientrata.

Ma di tutto l’antefatto della crisi ucraina di cui abbiamo visto solo piccoli stralci, scelti ad opera per lo spettatore televisivo o il lettore del quotidiano, forse ben poco è trapassato.

Il tentativo di colpo di stato c’è stato. E non ha molta importanza se le truppe fossero del presidente in carica. Questo non lo esime dalla sua definizione politica.

Crisi e lacerazioni così profonde, solchi così incolmabili coma una crisi simile tra un premier e un presidente, sono pericolosi e lesionisti.

Se dovessimo infatti analizzare a fondo la situazione, probabilmente, l’unica vincitrice da un rinnovo o un peggioramento della crisi sarebbe solo Mosca.

Brucia ancora molto la disfatta post rivoluzione arancione.

Nemmeno Yanunkovich ne risulterebbe favorito.

In fondo padrone è padrone, che sia americano o russo.

Ma gli Ucraini, ormai pedine nel gioco del potere, sentono l’esigenza di esistere in qualità di individui e di cittadini. Sentono la necessità di essere ucraini, senza reminescenze oppressive filo comuniste o slanci pericolosi filo consumistici.

Desidererebbero, con ogni probabilità, l’equilibrio politico, che purtroppo a questi punto non coincide con la democrazia, e la giustizia sociale, che non è la libertà individuale.

Ma l’Ucraina è lì, segnata e condannata dal suo passato e dalla sua posizione geografica, con i suoi tentativi di pacificazione tra comunità religiose cattoliche e ortodosse e le sue difficoltà nella coesione di popoli ed etnie così eterogenee (polacchi, russi, lituani, romeni…).

L’Ucraina sembra quindi costretta, nonostante la sua attuale indipendenza, ad essere sempre parte di un luogo geografico più ampio, di un progetto comunitario, di un credo allargato e di un passato dai contorni geografici abnormi, in continua oscillazione tra quello che è stata e quello che potrebbe essere.

 

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