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N. 13 - Gennaio 2009 (XLIV)

LA CRISI DI SUEZ
UN ANACRONISTICO RIGURGITO IMPERIALISTA

di Cristiano Zepponi

 

Quando Vladimir Il'ič Ul'janov Lenin definì l’imperialismo come lo “stadio supremo del capitalismo” si riferiva all’avvenuta spartizione del globo terrestre ad opera delle grandi potenze.

 

Era testimone diretto, in quegli anni, di quella che riteneva essere una “ristrutturazione” del capitalismo – per come fin’allora era stato conosciuto, almeno – autonoma e per così dire consequenziale, a lungo incubata e partorita all’occorrenza.

Lo definiva più precisamente come lo stadio monopolistico del capitalismo, specialmente in ambito coloniale. E qui registrava il “passaggio dalla politica coloniale, estendentesi senza ostacoli ai territori non ancor dominati da nessuna potenza capitalistica, alla politica coloniale del possesso monopolistico della superficie terrestre definitivamente ripartita”.

 

Non aveva fatto in tempo a vedere la compiuta realizzazione di quanto intravisto quando morì, a cinquantatrè anni, il 21 gennaio del ’24.

Non potè registrare il declino delle grandi potenze imperialiste europee, scricchiolanti già da qualche tempo, né la progressiva e disomogenea presa di coscienza delle colonie stesse, estrinsecatosi nel complesso processo di decolonizzazione che caratterizzò la seconda parte del secolo scorso.

 

Insospettata maturità di sentimento nazionale dimostrò tra gli altri l’Egitto, lo Stato di gran lunga più importante dell’area mediorientale, quando reagì al naufragio delle proprie speranze d’indipendenza, al termine del primo conflitto mondiale.

La tensione rivendicativa, esplicitata dalla “rivoluzione” del ’19, aveva poi strappato a caro prezzo il riconoscimento dell’indipendenza del Paese, fortemente limitata dall’effettiva persistenza del controllo britannico sull’esercito, la polizia ed il canale di Suez.

 

Il trentennale tentativo liberista che ne scaturì rimase però mortificato sia dall’organica subordinazione coloniale, sia dai tentativi assolutisti dei suoi alfieri, scaturiti nella paradossale ingolfatura di un sistema costituzionale capace di reggersi senza le fondamenta rappresentate dalla costituzione stessa.

 

La deriva accomodante ed elitaria imboccata dai vecchi nazionalisti del partito Wafd, soprattutto, incrinò sensibilmente la simpatia della popolazione verso il regime politico, indebolito peraltro dalla pessima congiuntura finanziaria degli anni ’40 e contemporaneamente dalla fioritura di gruppi armati (specie all’interno della Fratellanza Musulmana, la principale organizzazione religiosa) e delle società clandestine, tra le quali spiccava quella degli “Ufficiali Liberi”. La corruzione, il malgoverno, e la sconfitta subìta contro gli israeliani nel ’48, acuirono le tensioni.

 

Uomini come Nasser o Sadat, a dire il vero, avevano guardato con malcelati entusiasmi alle altalenanti fortune della guerra in Africa settentrionale. Avevano scambiato sguardi complici, ad ogni notizia riguardante l’avanzata delle divisioni corazzate di Römmel e dei commoventi fantaccini mussoliniani. E avevano colto, nelle angosce e negl’imbarazzi inglesi, il requiem d’un imperialismo ormai spossato. Lo stesso, che solo quindici anni prima Lenin non aveva osato sperare.

 

Il 23 luglio del 1952 gli “Ufficiali Liberi” attuarono quindi un colpo di stato che riuscì ad imporre l’esilio del sovrano (Fārūk) e, un anno dopo, la proclamazione della repubblica.

 

Le potenze furono acquietate ricorrendo alla prestigiosa figura di Neghib (Muhammad Naijīb), anziano e autorevole esponente dell’elìte militare che di fatto controllava il Paese. Al contempo fu varata una riforma agraria. Si proclamava la lotta all’imperialismo straniero.

 

Gamāl ‘Abd al-Nāer, meglio noto in Occidente come Nasser, si impose definitivamente su Neghib il 26 ottobre del 1954.

Fu lo stesso giorno in cui, dopo le alterne vicende dei mesi precedenti che avevano visto le dimissioni, l’arresto e la scarcerazione di Neighib oltre alla massiccia mobilitazione popolare in favore dei militari, ormai ostili all’anziano condottiero, rischiò anche la vita.

 

Un “Fratello”, approfittando della moltitudine, provò quel giorno a colpirlo con alcuni colpi di pistola, che come spesso accade si ritorsero contro i suoi compagni: Nasser, illeso, ne approfittò per liquidare d’un colpo Neighib e la “Fratellanza”. Nel 1956, dopo la promulgazione d’una costituzione esplicitamente anti-imperialista, fu eletto presidente.

 

Il nuovo governo, oltre a varare delle riforme d’ispirazione socialista, puntò molto sul piano d’industrializzazione del Paese, particolarmente impegnativo dal punto di vista finanziario. Fu a questo punto che le crescenti necessità finanziarie si scontrarono con la politica estera dei militari.

 

Nasser non godeva d’ampio credito, nei circoli finanziari americani. E le sue prese di posizione – in ordine di biasimo, l’amicizia con Tito e Nehru, il rifiuto di siglare il patto di Baghdad, l’adesione al nascente movimento dei Paesi non-allineati e l’ambizione di assumere la guida della lotta contro Israele – non contribuirono di certo a sbloccare i portafogli a stelle e strisce.

Aiuti economici e militari furono d’altra parte assicurati dall’Unione Sovietica, al solito attenta ad infiammare ogni crepa nella sfera d’influenza occidentale.

Come gli americani ben sapevano, i soldi erano un buon sistema per farsi degli amici, ed un ottimo metodo per convincerli a satellizzarsi. Ne conseguì la percezione, comprensibile, di uno slittamento dell’Egitto verso posizioni filo sovietiche.

 

L’Unione Sovietica, infatti, accettò persino di accollarsi le spese di costruzione della grande diga di Assuan, sull’alto Nilo, una gigantesca opera infrastrutturale destinata ad elettrificare il nascente apparato industriale che proprio USA e Gran Bretagna avevano rifiutato di finanziare.

 

Nasser reagì con pari fermezza allo sgarbo ricevuto da parte dei danarosi anglosassoni. Forte dell’avvenuto ritiro degli ultimi reparti inglesi dalla zona del Canale di Suez decise la nazionalizzazione del Canale stesso, da cui transitavano due terzi del petrolio proveniente dal Golfo Persico e diretto in Europa.

 

Il gesto di Nasser, scaraventando alla porta del Paese i cospicui interessi occidentali, cancellava d’un colpo la presenza straniera sul suolo egiziano. Per questo non poteva essere tollerata dal decadente orgoglio europeo, stordito e demoralizzato, ma deciso a riscoprirsi degno d’un tempo.

 

A Sèvres, nei dintorni di Parigi, si svolse allora un incontro segreto tra israeliani, francesi ed inglesi. Le parti concordarono che Israele invadesse la zona, mentre britannici e francesi sarebbero intervenuti successivamente, imponendo la smilitarizzazione tra i due eserciti per una distanza di 10 miglia (16 km) dai lati del canale, e piazzando alfine una forza d'intervento anglo-francese nella zona del canale, attorno a Porto Said. Questo piano fu chiamato "Operazione Musketeer".

 

Il sostegno alla lotta indipendentista dell’Algeria aveva dunque guadagnato a Nasser un avversario aggiuntivo, la Francia, mentre le frequenti scaramucce con Israele, pericolosamente allettato dalla prospettiva di mettere le mani sui pozzi petroliferi del Sinai, ne avevano garantito la partecipazione.

 

Il 29 ottobre, le truppe con la stella di David invasero la Striscia di Gaza ed il Sinai. Subito, GB e Francia s’offrirono spontaneamente di separare le parti in causa, ma Nasser rifiutò.

 

I bombardieri a reazione francesi e inglesi stanziati a Malta e Cipro, le squadre navali comprendenti le portaerei britanniche Eagle, Albion, Ocean, Theseus e Bulwark, le navi transalpine Arromanches e Lafayette aprirono il fuoco il 31 del mese, per costringere gli egiziani a riaprire il canale; per tutta risposta, Nasser ordinò l’affondamento di decine di bastimenti commerciali, al fine di ostruirne l’accesso.

 

Nel corso dei primi giorni di novembre, battaglioni di paracadutisti inglesi furono lanciati in un massiccio assalto aviotrasportato.

L’operazione, dal punto di vista militare, potè essere considerata un successo dagli ideatori.

 

Mentre scrivo i carri israeliani – come allora - filano veloci verso Gaza, lunghe file di fanti s’accalcano alla frontiera, e rimbomba nell’aria il tuono dei bombardieri. Ma le armi non garantiscono la sicurezza, né permanenti successi politici, oggi come allora. L’anacronistica offensiva delle potenze coloniali, condotta nel momento più sconsigliabile del decennio, riuscì infatti a sortire un effetto diametralmente opposto rispetto alle aspettative, come si conviene quando gli accecamenti prevalgono sulla reale evidenza delle cose.

 

Gran Bretagna e Francia, precipitosamente retrocesse dal rango di potenze mondiali, volevano dimostrare d’esser ancora in grado di farcela da sole; tradirono la loro patetica impotenza, invece, e s’inginocchiarono ai desiderata della sola autorità che la loro tronfia ottusità gli permetteva di temere, quella dei più forti, ovvero delle nuove superpotenze.

Queste, per motivi peculiari, opposero il loro veto e ricondussero all’ovile gli scalmanati protagonisti della vicenda, Gran Bretagna e Francia, divenuti bersaglio di un fuoco di polemiche scatenato da ampi settori della società civile.

 

L’Unione Sovietica si mostrò nell’occasione irremovibile, forte com’era della soddisfazione di condannare dal pulpito ciò di cui era accusata in cantina, ed arrivò a consegnare un ultimatum ai tre assalitori.

Gli americani, direttamente chiamati in causa per la confusione provocata da due pilastri dell’Occidente, sconfessarono invece a denti stretti l’operato degli alleati, pur dovendone condannare apertamente l’impresa. Mentre strepitava (comprensibilmente) per la contemporanea crisi ungherese, infatti, l’amministrazione Eisenhower non poteva tollerare analoghi rimbrotti, che ne compromettessero la superiorità morale.

 

Il bilancio era completamente in rosso, per l’Occidente capitalista: la NATO usciva dalla crisi indebolita e inadeguata, e al contempo De Gaulle ne deduceva che la Francia avrebbe dovuto provvedere alla sua sicurezza autonomamente; le dimissioni del primo ministro inglese Eden simboleggiavano la debolezza delle istituzioni continentali mentre la sterlina mostrò di soffrire l’inglorioso epilogo della vicenda, da cui trasse invece rinnovato vigore il panarabismo di matrice egiziana (destinato di lì a poco alla breve fusione con la Siria, dove già dal ’54 si era affermato un regime militare d’ispirazione panaraba). Al tempo stesso, questo sconcertante autogol rafforzò il bolscevizzante Nasser (alla faccia della sconfitta bellica) e ne diffuse l’ideologia su scala regionale (dall’Iraq, dove due anni dopo presero il potere militari nazionalisti, alla Libia, dove Gheddafi pescò ampiamente nel repertorio nasseriano).

 

Oltre a ciò le fonti arabe, in gran parte, riportano il rancore causato in Medio Oriente dalla condotta israeliana, in quel frangente.

In molti confessarono di aver cominciato seriamente a pensare, in quei giorni, alla distruzione di Israele.

C’è dell’ironia, nell’aria mediorientale.

 

 

 

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