LA
CRISI DI SUEZ
UN ANACRONISTICO
RIGURGITO
IMPERIALISTA
di Cristiano Zepponi
Quando
Vladimir Il'ič Ul'janov Lenin definì l’imperialismo come
lo “stadio supremo del capitalismo” si riferiva
all’avvenuta spartizione del globo terrestre ad opera
delle grandi potenze.
Era
testimone diretto, in quegli anni, di quella che
riteneva essere una “ristrutturazione” del capitalismo –
per come fin’allora era stato conosciuto, almeno –
autonoma e per così dire consequenziale, a lungo
incubata e partorita all’occorrenza.
Lo
definiva più precisamente come lo stadio monopolistico
del capitalismo, specialmente in ambito coloniale. E qui
registrava il “passaggio dalla politica coloniale,
estendentesi senza ostacoli ai territori non ancor
dominati da nessuna potenza capitalistica, alla politica
coloniale del possesso monopolistico della superficie
terrestre definitivamente ripartita”.
Non
aveva fatto in tempo a vedere la compiuta realizzazione
di quanto intravisto quando morì, a cinquantatrè anni,
il 21 gennaio del ’24.
Non
potè registrare il declino delle grandi potenze
imperialiste europee, scricchiolanti già da qualche
tempo, né la progressiva e disomogenea presa di
coscienza delle colonie stesse, estrinsecatosi nel
complesso processo di decolonizzazione che caratterizzò
la seconda parte del secolo scorso.
Insospettata maturità di sentimento nazionale dimostrò
tra gli altri l’Egitto, lo Stato di gran lunga più
importante dell’area mediorientale, quando reagì al
naufragio delle proprie speranze d’indipendenza, al
termine del primo conflitto mondiale.
La
tensione rivendicativa, esplicitata dalla “rivoluzione”
del ’19, aveva poi strappato a caro prezzo il
riconoscimento dell’indipendenza del Paese, fortemente
limitata dall’effettiva persistenza del controllo
britannico sull’esercito, la polizia ed il canale di
Suez.
Il
trentennale tentativo liberista che ne scaturì rimase
però mortificato sia dall’organica subordinazione
coloniale, sia dai tentativi assolutisti dei suoi
alfieri, scaturiti nella paradossale ingolfatura di un
sistema costituzionale capace di reggersi senza le
fondamenta rappresentate dalla costituzione stessa.
La
deriva accomodante ed elitaria imboccata dai vecchi
nazionalisti del partito Wafd, soprattutto, incrinò
sensibilmente la simpatia della popolazione verso il
regime politico, indebolito peraltro dalla pessima
congiuntura finanziaria degli anni ’40 e
contemporaneamente dalla fioritura di gruppi armati
(specie all’interno della Fratellanza Musulmana, la
principale organizzazione religiosa) e delle società
clandestine, tra le quali spiccava quella degli
“Ufficiali Liberi”. La corruzione, il malgoverno, e la
sconfitta subìta contro gli israeliani nel ’48, acuirono
le tensioni.
Uomini
come Nasser o Sadat, a dire il vero, avevano guardato
con malcelati entusiasmi alle altalenanti fortune della
guerra in Africa settentrionale. Avevano scambiato
sguardi complici, ad ogni notizia riguardante l’avanzata
delle divisioni corazzate di Römmel e dei commoventi
fantaccini mussoliniani. E avevano colto, nelle angosce
e negl’imbarazzi inglesi, il requiem d’un imperialismo
ormai spossato. Lo stesso, che solo quindici anni prima
Lenin non aveva osato sperare.
Il 23
luglio del 1952 gli “Ufficiali Liberi” attuarono quindi
un colpo di stato che riuscì ad imporre l’esilio del
sovrano (Fārūk) e, un anno dopo, la proclamazione della
repubblica.
Le
potenze furono acquietate ricorrendo alla prestigiosa
figura di Neghib (Muhammad Naijīb), anziano e autorevole
esponente dell’elìte militare che di fatto controllava
il Paese. Al contempo fu varata una riforma agraria. Si
proclamava la lotta all’imperialismo straniero.
Gamāl
‘Abd al-Nāṣer,
meglio noto in Occidente come Nasser, si impose
definitivamente su Neghib il 26 ottobre del 1954.
Fu lo
stesso giorno in cui, dopo le alterne vicende dei mesi
precedenti che avevano visto le dimissioni, l’arresto e
la scarcerazione di Neighib oltre alla massiccia
mobilitazione popolare in favore dei militari, ormai
ostili all’anziano condottiero, rischiò anche la vita.
Un
“Fratello”, approfittando della moltitudine, provò quel
giorno a colpirlo con alcuni colpi di pistola, che come
spesso accade si ritorsero contro i suoi compagni:
Nasser, illeso, ne approfittò per liquidare d’un colpo
Neighib e la “Fratellanza”. Nel 1956, dopo la
promulgazione d’una costituzione esplicitamente
anti-imperialista, fu eletto presidente.
Il
nuovo governo, oltre a varare delle riforme
d’ispirazione socialista, puntò molto sul piano
d’industrializzazione del Paese, particolarmente
impegnativo dal punto di vista finanziario. Fu a questo
punto che le crescenti necessità finanziarie si
scontrarono con la politica estera dei militari.
Nasser
non godeva d’ampio credito, nei circoli finanziari
americani. E le sue prese di posizione – in ordine di
biasimo, l’amicizia con Tito e Nehru, il rifiuto di
siglare il patto di Baghdad, l’adesione al nascente
movimento dei Paesi non-allineati e l’ambizione di
assumere la guida della lotta contro Israele – non
contribuirono di certo a sbloccare i portafogli a stelle
e strisce.
Aiuti
economici e militari furono d’altra parte assicurati
dall’Unione Sovietica, al solito attenta ad infiammare
ogni crepa nella sfera d’influenza occidentale.
Come
gli americani ben sapevano, i soldi erano un buon
sistema per farsi degli amici, ed un ottimo metodo per
convincerli a satellizzarsi. Ne conseguì la percezione,
comprensibile, di uno slittamento dell’Egitto verso
posizioni filo sovietiche.
L’Unione Sovietica, infatti, accettò persino di
accollarsi le spese di costruzione della grande diga di
Assuan, sull’alto Nilo, una gigantesca opera
infrastrutturale destinata ad elettrificare il nascente
apparato industriale che proprio USA e Gran Bretagna
avevano rifiutato di finanziare.
Nasser
reagì con pari fermezza allo sgarbo ricevuto da parte
dei danarosi anglosassoni. Forte dell’avvenuto ritiro
degli ultimi reparti inglesi dalla zona del Canale di
Suez decise la nazionalizzazione del Canale stesso, da
cui transitavano due terzi del petrolio proveniente dal
Golfo Persico e diretto in Europa.
Il
gesto di Nasser, scaraventando alla porta del Paese i
cospicui interessi occidentali, cancellava d’un colpo la
presenza straniera sul suolo egiziano. Per questo non
poteva essere tollerata dal decadente orgoglio europeo,
stordito e demoralizzato, ma deciso a riscoprirsi degno
d’un tempo.
A
Sèvres, nei dintorni di Parigi, si svolse allora un
incontro segreto tra israeliani, francesi ed inglesi.
Le parti concordarono che Israele invadesse la zona,
mentre britannici e francesi sarebbero intervenuti
successivamente, imponendo la smilitarizzazione tra i
due eserciti per una distanza di 10 miglia (16 km) dai
lati del canale, e piazzando alfine una forza
d'intervento anglo-francese nella zona del canale,
attorno a Porto Said. Questo piano fu chiamato
"Operazione Musketeer".
Il
sostegno alla lotta indipendentista dell’Algeria aveva
dunque guadagnato a Nasser un avversario aggiuntivo, la
Francia, mentre le frequenti scaramucce con Israele,
pericolosamente allettato dalla prospettiva di mettere
le mani sui pozzi petroliferi del Sinai, ne avevano
garantito la partecipazione.
Il 29
ottobre, le truppe con la stella di David invasero la
Striscia di Gaza ed il Sinai. Subito, GB e Francia
s’offrirono spontaneamente di separare le parti in
causa, ma Nasser rifiutò.
I
bombardieri a reazione francesi e inglesi stanziati a
Malta e Cipro, le squadre navali comprendenti le
portaerei britanniche
Eagle, Albion, Ocean, Theseus e Bulwark, le navi
transalpine Arromanches e Lafayette aprirono il fuoco il
31 del mese, per costringere gli egiziani a riaprire il
canale; per tutta risposta, Nasser ordinò l’affondamento
di decine di bastimenti commerciali, al fine di
ostruirne l’accesso.
Nel
corso dei primi giorni di novembre, battaglioni di
paracadutisti inglesi furono lanciati in un massiccio
assalto aviotrasportato.
L’operazione, dal punto di vista militare, potè essere
considerata un successo dagli ideatori.
Mentre
scrivo i carri israeliani – come allora - filano veloci
verso Gaza, lunghe file di fanti s’accalcano alla
frontiera, e rimbomba nell’aria il tuono dei
bombardieri. Ma le armi non garantiscono la sicurezza,
né permanenti successi politici, oggi come allora.
L’anacronistica offensiva delle potenze coloniali,
condotta nel momento più sconsigliabile del decennio,
riuscì infatti a sortire un effetto diametralmente
opposto rispetto alle aspettative, come si conviene
quando gli accecamenti prevalgono sulla reale evidenza
delle cose.
Gran
Bretagna e Francia, precipitosamente retrocesse dal
rango di potenze mondiali, volevano dimostrare d’esser
ancora in grado di farcela da sole; tradirono la loro
patetica impotenza, invece, e s’inginocchiarono ai
desiderata della sola autorità che la loro tronfia
ottusità gli permetteva di temere, quella dei più forti,
ovvero delle nuove superpotenze.
Queste,
per motivi peculiari, opposero il loro veto e
ricondussero all’ovile gli scalmanati protagonisti della
vicenda, Gran Bretagna e Francia, divenuti bersaglio di
un fuoco di polemiche scatenato da ampi settori della
società civile.
L’Unione Sovietica si mostrò nell’occasione
irremovibile, forte com’era della soddisfazione di
condannare dal pulpito ciò di cui era accusata in
cantina, ed arrivò a consegnare un ultimatum ai tre
assalitori.
Gli
americani, direttamente chiamati in causa per la
confusione provocata da due pilastri dell’Occidente,
sconfessarono invece a denti stretti l’operato degli
alleati, pur dovendone condannare apertamente l’impresa.
Mentre strepitava (comprensibilmente) per la
contemporanea crisi ungherese, infatti,
l’amministrazione Eisenhower non poteva tollerare
analoghi rimbrotti, che ne compromettessero la
superiorità morale.
Il
bilancio era completamente in rosso, per l’Occidente
capitalista: la NATO usciva dalla crisi indebolita e
inadeguata, e al contempo De Gaulle ne deduceva che la
Francia avrebbe dovuto provvedere alla sua sicurezza
autonomamente; le dimissioni del primo ministro inglese
Eden simboleggiavano la debolezza delle istituzioni
continentali mentre la sterlina mostrò di soffrire
l’inglorioso epilogo della vicenda, da cui trasse invece
rinnovato vigore il panarabismo di matrice egiziana
(destinato di lì a poco alla breve fusione con la Siria,
dove già dal ’54 si era affermato un regime militare
d’ispirazione panaraba). Al tempo stesso, questo
sconcertante autogol rafforzò il bolscevizzante Nasser
(alla faccia della sconfitta bellica) e ne diffuse
l’ideologia su scala regionale (dall’Iraq, dove due anni
dopo presero il potere militari nazionalisti, alla
Libia, dove Gheddafi pescò ampiamente nel repertorio
nasseriano).
Oltre a
ciò le fonti arabe, in gran parte, riportano il rancore
causato in Medio Oriente dalla condotta israeliana, in
quel frangente.
In
molti confessarono di aver cominciato seriamente a
pensare, in quei giorni, alla distruzione di Israele.
C’è
dell’ironia, nell’aria mediorientale.