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N. 77 - Maggio 2014 (CVIII)

Risposte alla crisi del `29

Parte II - Gli stati AUTORITArI
di Laura Ballerini

 

In Germania la più grave conseguenza della crisi fu l’ascesa al potere di Adolf Hitler. La popolazione, infatti, stremata dagli esiti della guerra, dalle umilianti condizioni dei trattati di pace e dalla crisi economica, vide nel partito nazista una speranza di tornare all’auge di un tempo. Una volta al potere Hitler dovette affrontare 7 milioni di disoccupati e la perdita del 40% del PIL, mise allora in atto un piano di ripresa che si articolò in due fasi.

 

1933-36: l’obbiettivo era quello di assicurarsi che ogni famiglia avesse un reddito garantito e che il lavoro quindi fosse ben distribuito tra la popolazione. Per ottenere ciò, Hitler allontanò le donne dal mondo del lavoro e ritardò l’ingresso dei giovani nel mercato lavorativo istituendo due o tre anni di tirocinio obbligatorio gratuito alla fine degli studi.

 

Ogni nucleo familiare doveva avere un reddito di sussistenza e per questo gli imprenditori dovevano assumere: ma in Germania, a differenza che nei paesi democratici, le proteste non erano ammesse e gli imprenditori potevano collaborare con il regime o subirne le ritorsioni.

 

Il Fuhrer interruppe i pagamenti dei debiti di guerra ai paesi vincitori (senza subire nessuna conseguenza a differenza di quanto avvenuto nel `23) e investì quel capitale in infrastrutture, opere pubbliche, beni e servizi.

 

1936-39: con lo scoppio della guerra civile in Spagna, Hitler decise di mandare dei contingenti militari in aiuto a Franco, ma per farlo doveva contravvenire ai trattati di pace e riarmare la Germania. La seconda fase del piano di ripresa, che andò dal `36 allo scoppio della seconda guerra mondiale, consisté nella massiccia produzione di armi.

 

Lo stato tedesco investì nell’industria bellica, che in quei tre anni produsse talmente tanti armamenti da consentire alla Germania di sostenere l’incredibile sforzo bellico del secondo conflitto mondiale, combattuto su più fronti. I magazzini si riempirono di armi, le donne vennero richiamate al lavoro e la macchina economica tornò a funzionare portando la Germania fuori dalla crisi in maniera trionfale.

 

Le misure adottate dallo stato nazista non furono dissimili da quelle adottate in Francia o negli Stati Uniti, con la grande differenza, però, che lo stato totalitario vincolò tutte le forze produttive all’osservanza dei principi e degli obbiettivi da lui stabiliti.

 

Nell’Unione Sovietica, alla morte di Lenin nel 1924, andò al potere Stalin. Dopo la rivoluzione bolscevica, Lenin capì che il cambiamento economico e la collettivizzazione delle terre dovevano procedere in maniera graduale e istituì la NEP (Nuova Politica Economica). Stalin, invece, accelerò e procedette alla collettivizzazione delle terre, creando un forte malcontento tra i contadini e i piccoli imprenditori che quelle terre le avevano appena ottenute con la fine dell’impero zarista.

 

Vi fu un forte calo della produzione e, conseguentemente, problemi nell’afflusso di alimenti per la popolazione. Questo portò un incremento del mercato nero e dell’elusione della legge. Stalin decise allora di istituire i famosi piani quinquennali, che dovevano risolvere il problema delle terre e far recuperare all’URSS lo storico ritardo in campo industriale.

 

Venne scelta la misura di 5 anni perché considerato un tempo realistico per fare previsioni di crescita e fissare obbiettivi. Nei due piani quinquennali, 1929-34, 1934-39, lo stato sovietico introdusse premi di produttività per gli imprenditori agricoli, mettendoli in competizione tra loro, e investì nell’industria controllando ogni fase della produzione e della lavorazione del prodotto, decidendo la domanda del mercato.

 

Stalin portò avanti un’intensiva propaganda sul lavoro, creando una vera e propria mitologia ed esaltazione ideologica del lavoratore. Forzò l’identificazione tra l’impegno politico e l’impegno nel lavoro, per cui chi non lavorava affamava la gente, e quindi era un nemico, un oppositore politico. Tramite i sindacati lo stato aveva il pieno controllo sui lavoratori.

 

Dal `29 al `39 si riscontrò effettivamente una crescita economica del 20% e un aumento della popolazione del 200% (da 15 a 45 milioni di abitanti). Tuttavia il tenore di vita dei cittadini sovietici non registrò alcun miglioramento: lo sforzo industriale, infatti, non era finalizzato alla produzione di beni di consumo, ma di altre industrie. Inoltre, con l’aumento della popolazione e della massa salariata si riscontrò un fenomeno di inflazione. Nonostante questo, però, la crescita dell’URSS durante la crisi determina un punto a favore dei totalitarismi nei confronti delle democrazie.

 

In Giappone, infine, la crisi del `29 ebbe un forte impatto, determinando il crollo i ¼ del PIL.

 

Nel corso della seconda metà dell’800 il Giappone si era messo in pari con gli stati occidentali nello sviluppo economico, specializzandosi in una economia di trasformazione: acquistava le materie prime, le lavorava e rivendeva il prodotto finito. Si concentrò in particolare su pochi temi e pochi acquirenti: produceva tè e seta, acquistati per lo più dagli Stati Uniti.

 

Quando questi ultimi entrarono in crisi, interruppero i rapporti con il Giappone trascinandolo nella recessione. Ai governi liberali di stampo europeo si sostituirono i militari con esecutivi a carattere autoritario.

 

La strada per risalire dalla crisi passava per due fattori, concatenati tra loro: investire nell’industria bellica per far riattivare l’economia e per portare a termine campagne militari di espansioni in estremo oriente da cui ottenere approvvigionamenti vantaggiosi. Il Giappone procedette così all’occupazione di territori in Corea e in Cina e diventando una potente macchina da guerra. I salari vennero mantenuti bassi e i prezzi competitivi, grazie al regime autoritario.

 

Riguardando questi precedenti storici è inevitabile chiederci oggi, in tempo di crisi, se sia possibile uscire dalla recessione senza aumentare lo sforzo bellico, o, citando il libro dell’economista W.Beveridge (1879-1963), se sia possibile il Full employment in a free society.

 

In molti concordano che nessun paese può uscire da una crisi da solo, senza cadere in regimi autoritari o nell’emergere di leader populisti, per questo quindi si rende necessario un clima di collaborazione internazionale, e la creazione di organi per la cooperazione economica e politica.



 

 

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