A PROPOSITO DI CRIMEA
BREVE Storia di una penisola contesa
di Francesco Biscardi
La Crimea è assurta agli onori della
cronaca in tempi recenti per via
delle intricate e nefaste vicende
del conflitto russo-ucraino: lo
scorso ottobre 2022 è stato fatto
parzialmente esplodere il ponte di
Kerch, collegante la penisola alla
terraferma russa, mentre nel giugno
2023 è stata distrutta la diga di
Nova Khakovka, fondamentale impianto
per il rifornimento di acqua a
questa terra. Per avere un quadro
più lineare dell’attualità, è utile
ripercorrere come la Crimea sia
stata al centro di importanti eventi
bellici e diplomatici dell’Età tardo
moderna e contemporanea tutt’altro
che marginali.
La sua storia “russa” iniziò a fine
Settecento: venne strappata nel 1783
da Caterina II “la Grande” ai
Tatari, vassalli dell’Impero
Ottomano, contro cui infuriava la
guerra. Nella fattispecie la zarina
ne aveva chiesto l’indipendenza già
nella decade precedente e, proprio
in quella circostanza, si levarono
le voci di Austria e Prussia che
reclamarono adeguati “compensi” in
caso di ingrandimento russo,
procedendo così insieme alla “prima
spartizione” della Polonia (1772).
Intimorita per l’espansionismo
zarista, la Svezia pressò il sultano
affinché riprendesse la guerra, cosa
che puntualmente avvenne. Le armate
di Caterina ebbero la meglio: nel
1774 attraversarono il Danubio e
penetrarono in terra ottomana. Solo
i disordini scoppiati in patria (con
la violenta rivolta di Pugačëv)
indussero i russi ad addivenire alla
pace di Kuciuk Kajnary, che sancì
formalmente l’indipendenza della
Crimea, relegandola a protettorato
di Mosca. Nel 1783, a seguito di un
riacutizzarsi delle ostilità, la
Russia procedette unilateralmente
all’annessione della penisola,
confermata nove anni dopo dal
Trattato di Jassy, con il quale i
confini russi arrivarono a inglobare
il litorale del Mar Nero fra le foci
del Dnestr e del Bug.
Questa serie di sconfitte fu
prodromo del grande declino
dell’Impero Ottomano che continuò
inesorabile fino alla Prima Guerra
Mondiale: in continuo rischio
disgregazione, da “Sublime Porta”
passò sempre più a essere
etichettato come “malato d’Europa”
presso le Cancellerie occidentali.
Nel 1815 la Serbia realizzò una
pressoché totale autonomia, seguita
dalla Grecia, indipendente dal 1829
grazie al fondamentale apporto di
Francia, Regno Unito e Russia.
Dopodiché, in seguito a un’ulteriore
crisi scoppiata nel 1839 con il
governatore d’Egitto, Mehemed Alì,
su iniziativa britannica fu
convocata una Convenzione degli
Stretti per regolare la navigazione
fra Mediterraneo e Mar Nero. In
questa circostanza si decise di
vietare il passaggio di navi da
guerra straniere attraverso il
Bosforo e i Dardanelli, il che
risultava essere dannoso per le
aspirazioni mediterranee dello zar
Nicola I, pronto a rialzare la voce.
D’altronde l’occasione per
riprendere le ostilità aveva già
cominciato a presentarsi in Terra
Santa, riguardo alla problematica
della cogestione dei santuari da
parte delle diverse confessioni
cristiane. Nel 1808 l’incendio della
vecchia edicola del Santo Sepolcro
spinse gli ortodossi a chiedere e
ottenere dagli Ottomani concessioni
per la sua ricostruzione,
approfittando della latitanza del
governo francese, tradizionalmente
protettore dei cristiani in
Terrasanta. Nelle decadi seguenti
(anche se in realtà già da qualche
secolo) i cattolici subirono
spoliazioni e menomazioni di diritti
da parte del sultano, che preferì
trasferire le loro vecchie
prerogative alle comunità ebraiche e
ortodosse. Ne fu in particolare
danneggiato l’Ordine Francescano, da
tempo esercitante in questi luoghi
il proprio magistero religioso e
assistenziale.
Nel 1850, Francia, Austria, Belgio,
Spagna e Regno di Sardegna chiesero
al sovrano d’Istanbul, Abd al-Madjid,
un accordo per il reintegro dei
Padri Francescani nelle loro
tradizionali funzioni, mentre Nicola
I non esitò a inviargli una lettera
dove lo invitava a rispettare il
culto ortodosso a Gerusalemme, a
rischio degenerazione per ingerenze
cattoliche. Il governo turco non
seppe risolvere la faccenda,
provocando una crisi diplomatica: la
Francia minacciò di inviare la
propria flotta, mentre la Russia
consegnò un ultimatum
affinché si riconoscesse allo zar il
ruolo di protettore di tutti i
sudditi ortodossi della Sublime
Porta.
Era in realtà in gioco qualcosa di
più grande di una disputa religiosa:
il controllo degli stretti e
l’accesso russo al Mediterraneo.
Forte dell’appoggio franco-inglese
(aventi tutto l’interesse a
scongiurare un ampliamento
dell’influenza russa in Europa), il
sultano dichiarò guerra allo zar
nell’ottobre 1853. Inizialmente la
vittoria sembrava arridere a
quest’ultimo, che sconfisse la
flotta ottomana a Sinope e
procedette all’annessione dei
principati di Valacchia e Moldavia.
Ciò spinse Francia e Gran Bretagna
nel marzo 1854 a dichiarare guerra
alla Russia, seguite poco dopo dal
Piemonte cavouriano.
Cominciò così la Guerra di Crimea,
la cui principale operazione ebbe
per teatro Sebastopoli, città
simbolo della penisola, in quanto
fondata da Caterina II nel 1784, un
anno dopo l’annessione, il cui
assedio durò fino alla sua resa,
avvenuta nel settembre del 1855.
Tuttavia la guerra non sembrava
cessare con la capitolazione della
fortezza, poiché sul fronte asiatico
le truppe dello zar Alessandro II,
succeduto da pochi mesi al defunto
Nicola I, penetrarono in Anatolia,
costringendo il sultano a combattere
una guerra difensiva. Entrò allora
in scena l’Austria, anteponendo i
suoi interessi nei Balcani alla
gratitudine per il supporto fornito
dalla Russia durante i moti del
1848-49, che inviò a Mosca un
ultimatumaffinché ponesse fine
alle ostilità. Dinanzi alla
prospettiva di avere contro un’altra
potenza, lo zar si arrese. La
successiva Pace di Parigi del marzo
1856 lasciò la Crimea alla Russia,
ma le vietò di mantenere una flotta
nel Mar Nero, inducendola a mirare i
suoi interessi verso l’Asia anziché
verso l’Europa.
Si chiudeva una guerra spesso ignota
ai più, ma assai importante, sia per
l’elevato numero di morti (circa
750.000, due terzi dei quali russi),
in larga parte provocati dal colera
e dal tifo imperversanti nel lungo
assedio di Sebastopoli, sia per i
modi di conduzione impiegati. Se
infatti durante le prime battaglie
si vide un tradizionale
dispiegamento della cavalleria,
presto sui campi, soprattutto da
parte europea, comparvero fucili di
nuovo tipo e fu sviluppata una
logistica di coordinamento basata su
treni, navi a vapore e comunicazioni
via telegrafo che sostanzialmente in
Europa ricomparirà solo durante il
primo conflitto mondiale. Se a ciò
si aggiunge che quella di Crimea fu
la prima guerra “fotografata” e
documentata dalla presenza di
fotoreporter, possiamo sintetizzare
che essa segnò il passaggio dai
conflitti dell’Età moderna a quelli
contemporanei.
Un successivo evento cruciale nella
storia di questa penisola risale
esattamente a un secolo dopo
l’eponimo scontro: precisamente al
1954, quando, su iniziativa di
Krusčëv, essa fu ceduta all’allora
Repubblica socialista ucraina. Non
fu un anno scelto a caso: Stalin era
da poco scomparso e ricorreva
l’anniversario del Trattato di
Perejaslav del 1654, con cui
l’Ucraina cosacca, ribellatasi alla
Polonia, si era unita alla Russia.
Sulle motivazioni della scelta molto
si è discusso e molto si discute,
soprattutto dopo la dissoluzione
dell’Urss e l’attuale conflitto. In
primo luogo la scelta krusčëviana
derivò probabilmente dal profondo
legame che legava lo statista
all’Ucraina, essendo egli nato in
una località russa limitrofa e
avendo egli ricoperto dal 1938 al
1947 la carica di Segretario del
Partito comunista ucraino. In
secondo luogo giocò forse un peso
importante la consapevolezza degli
orrori patiti in questa terra nel
periodo staliniano (lo stesso
Krusčëv condannerà nel 1956 gli
“eccessi” dello stalinismo, anche se
non specificatamente le politiche
contadine che provocarono l’holodomor,
l’“eccidio per fame”), ragion per
cui la cessione della Crimea doveva
risultare come una sorta di
“compenso” per riallacciare buoni
rapporti con gli ucraini, i quali in
buona misura, durante la Seconda
Guerra Mondiale, non avevano esitato
a vedere nei nazisti dei possibili
liberatori.
Dunque da Mosca l’oblast di
Crimea passò a Kiev, ma non ci fu un
esplicito accordo di cessione e
questo causò notevoli problemi al
momento del collasso sovietico: nel
1990, la popolazione crimeana, in
prevalenza russa, iniziò ad agitarsi
contro il nazionalismo ucraino,
rivendicando il prospero passato
zarista e non dimenticando la sua
autonomia nell’Urss dal 1921 al
1942. Nel contempo i Tatari ivi
residenti cercarono di imporre
una“Dichiarazione di sovranità del
popolo tataro di Crimea”, sebbene
priva di effetti pratici.
Il primo dicembre 1991 un referendum
popolare confermò a grande
maggioranza l’indipendenza ucraina.
Fu la Crimea l’unica terra dove
oltre il 40% dei votanti si dichiarò
contrario alla scissione dall’ormai
evanescente Unione Sovietica. La
Russia, in piena crisi, riconobbe le
frontiere ucraine, comprendenti
anche la Crimea (per quanto
l’accordo preciso sui confini sarà
firmato solo nel 2003, già in epoca
Putin). Frattanto nel gennaio 1992
il Parlamento russo riaprì il
“dossier Crimea” chiedendo al
governo di El’cin di indagare sulla
costituzionalità della cessione
della penisola del 1954. Il 21
maggio il Soviet supremo approvò con
una maggioranza del 53% una
risoluzione con cui si annullava
l’atto, dichiarato illegittimo, e si
chiedeva a Kiev di avviare immediati
negoziati per ridefinire la
sovranità sulla penisola. Non
risolta la questione, i suoi
abitanti, alle elezioni nazionali
del 27 marzo 1994, votarono al 67%
per il Partito Russia, aspirante a
riportare la Crimea nella
Federazione russa. Nei giorni
successivi, forte del risultato e
dell’appoggio di Mosca, il
parlamento locale approvò una
costituzione istituente una
repubblica indipendente e
introducendo la doppia cittadinanza
russa e ucraina.
Il rischio di una crisi venne
parzialmente scongiurato nel 1995,
con la creazione della Repubblica
Autonoma di Crimea, a cui l’Ucraina
concesse una sostanziale autonomia.
Tuttavia la questione, relativamente
quieta per un ventennio, si
riacutizzò nel 2014, a seguito del
golpe di febbraio che
detronizzò il presidente filorusso
Janukovyč. L’11 marzo il Parlamento
crimeano ne approfittò per
proclamare l’indipendenza, con la
possibilità di entrare nella
Federazione russa.
Nella dichiarazione che venne stesa
si fece riferimento alla sentenza
del 22 luglio 2010 della Corte
internazionale di giustizia
sull’indipendenza del Kosovo, in cui
si affermava che non era stato
violato né il diritto
internazionale, né la Risoluzione
1244 del Consiglio di sicurezza
delle Nazioni Unite. Alla condanna
occidentale, il Ministro degli
Esteri russo Lavrov sentenziò la
dichiarazione come legittima,
paragonandola a quelle americana del
1776 e kosovara del 2008.
Al referendum tenutosi cinque giorni
dopo, la stragrande maggioranza dei
votanti acconsentì all’annessione
alla Russia. Tuttavia esso non fu
riconosciuto dall’Occidente (la
stampa denunciò la presunta presenza
intimidatoria di migliaia di
soldati) e dalla stessa Ucraina,
alla cui perdita non pare ancora
essersi rassegnata, come
costantemente ribadito in questi
tempi di guerra.
Riferimenti bibliografici: