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N. 24 - Dicembre 2009 (LV)

IL CREPUSCOLO DEI VINTI

CRONACA DELLA SCONFITTA DELL'IMPERO AZTECO
di Cristiano Zepponi

 

Hernàn Cortès era un hidalgo, vista le sua (seppur incerta) provenienza dalle fila della piccola nobiltà iberica. Nato nel 1485 a Medellìn, in Estremadura, già a diciannove anni abbandonò gli studi e preferì imbarcarsi per l’America.

Qui, prese parte alla conquista di Cuba (1510), l’ultima tappa della prima fase della Conquista in sudamerica, avviata appunto nell’arcipelago caraibico (Portorico era stata occupata realmente nel 1508, la Giamaica l’anno seguente).

Negli stessi anni, i mexica, come gli aztechi si autodefinivano, avevano raggiunto l’apogeo dello sviluppo, e dello splendore, sulla scia delle conoscenze ereditate dai toltechi, ed in secondo luogo da altri popoli più antichi, quali i teotihuacani. Il “Popolo del Sole”, le genti elette del dio della guerra Huitzilopochtli, dominavano allora vaste regioni, dal Golfo del Messico al Pacifico, e a sud fino all’attuale Guatemala. La nazione azteca era ricca, potente, temuta ed ammirata per la sua grande capitale, Mèxico-Tenochtitlan, in cui campeggiavano templi e palazzi decorati da pitture murali, e poi centri educativi, dove codici e i libri istoriati conservavano il ricordo di ciò che era stato. Contava forse 25 milioni di abitanti, ed era ancora in espansione.

La fama di cui godeva era nota a tutte le popolazioni dell’area, ed i racconti e le leggende si rincorrevano continuamente, a tal punto che presto, cavalcando l’onda delle voci e scavalcando il mare stesso, approdarono nella piccola isola di Cuba, accolte con attenzione dalle orecchie interessate di uomini che si preparavano ad intraprenderne la conquista.

Il 18 febbraio 1519 Hernàn Cortès partì così dall’isola caraibica alla testa di un’armata lillipuziana formata da undici navi, poco più di seicento uomini, sedici cavalli, trentadue balestre, dieci cannoni di bronzo e alcuni pezzi d’artiglieria di calibro minore. Lo accompagnavano, tra l’altro, Pedro de Alvarado (soprannominato “il sole” dagli aztechi stessi, per la prestanza ed il biondo intenso della chioma), che avrebbe partecipato in futuro alla conquista del Guatemala e del Perù, Francisco de Montejo, che avrebbe preso lo Yucatàn, Bernal Dìaz del Castello e diversi altri testimoni della storia di quell’avventura.

Lo sbarco avvenne sulle coste di Veracruz un Venerdì Santo, il 22 aprile 1519, ed incominciarono il cammino verso il centro del favoloso impero.

Passando lungo le coste dello Yucatàn Cortès raccolse Jerònimo de Aguilar, che, reduce da un naufragio in zona, aveva imparato perfettamente la lingua maya. Proseguendo, di fronte alle foci del Grijalva, catturò inoltre venti schiave indigene, una delle quali, Malinche, parlava sia la lingua maya sia quella azteca (il nàhuatl). I due personaggi ebbero in seguito grande importanza nella spedizione, consentendo a Cortès di farsi capire direttamente dagli aztechi (bastava parlare in spagnolo a Jerònimo, che avrebbe tradotto in maya alla donna, che, a sua volta, avrebbe riferito quanto desiderato agli emissari aztechi, incontrati per la prima volta nei dintorni dell’attuale Veracruz).

Il viaggio si svolse senza particolari difficoltà; dopo i primi contatti con la popolazione di Cempoala sulle coste del Golfo, gli spagnoli presero la strada dell’altopiano, si allearono con i signori di Tlaxcala e poi, giunti a Cholula, massacrarono la sua gente. Infine, dopo aver valicato i vulcani, l’8 novembre dell’anno 1519 poterono contemplare attoniti gli splendori di Mèxico-Tenochtitlan, che apparvero mentre seguivano la grande strada di Iztapalapa che univa la città alla sponda del lago, verso sud.

Il sovrano azteco, Motecuhzoma, aveva già da tempo inviato doni in argento ed oro alla colonna di europei. A dire la verità, le cronache nàhuatl parlano di presagi negativi e prodigi funesti manifestatisi agli occhi degli indigeni, e del loro sovrano in particolare, a partire da una decina d’anni prima dell’arrivo dei conquistatori. Nel 1517 (anno 12-Casa per gli antichi messicani) una lingua di fuoco in cielo causò un terrore indicibile, e grave confusione; poi arse completamente, forse di fuoco spontaneo, la “casa di Huitzilopochtli”; uno degli edifici del grande Tempio fu poi colpito da un fulmine; e si udivano grida di donna, l’acqua ribolliva, riflessi di uomini in avvicinamento comparivano d’improvviso, insieme a figure deformi.

Motecuhzoma, secondo le fonti, si mostrava in quei giorni preoccupato, e fantasticava su quello che sarebbe successo in città; e mentre le genti di Castiglia chiedevano di lui, della sua età e del suo aspetto, egli, preso dal terrore per quelle indagini, meditò la fuga, come suggerito dai consiglieri. Ma alfine decise di rimanere: “Non fece altro che aspettarli. Non fece altro che decidere questo nel suo cuore, non fece altro che rassegnarsi; dominò infine il proprio cuore, si rinchiuse in se stesso, si preparò a vedere ed a osservare quello che sarebbe successo” (Informantès de Sahagùn, ‘Còdice Florentino’, libro XII, cap. IX).

La religione degli aztechi era imperniata, fondamentalmente, sull’idea della precarietà dell’ordine cosmico, continuamente minacciato da divinità colleriche e disastri naturali. Ne era esempio la figura stessa di Huitzilopochtli, che ogni giorno doveva combattere contro le forze avverse necessitando, perciò, di continue offerte di sangue umano per alimentarsi. Già quattro volte, secondo la tradizione, l’umanità era perita a causa di immani cataclismi, e l’angoscia era accresciuta dal ritorno periodico dei giorni e dei periodi infausti.

Per questo, Motecuhzoma credette di vedere in Cortès la reincarnazione di Quetzalcoatl, il “serpente piumato”, e l’accolse come si addice ad una divinità.

“E questo era ciò che ci hanno lasciato detto i re, quelli che ressero, quelli che governarono la tua città:che dovevi insediarti sul tuo seggio, sul tuo trono, che dovevi venire qui […]. Giungi alla tua terra: vieni e riposa; prendi possesso delle tue dimore reali, dà refrigerio al tuo corpo. Siete giunti alla vostra terra, Signori!” (Informantès de Sahagùn, ‘Còdice Florentino’, libro XII, cap. XVI), disse il sovrano azteco a Cortès.

E questi rispose: “che Motecuhzoma abbia fiducia, che non abbia timore. Noi molto lo amiamo. E il nostro cuore è oggi molto felice”(ibid.).

Purtroppo, come oggi sappiamo, mentiva.

Appena stabiliti, infatti, gli uomini di Castiglia trasformarono il più potente sovrano del Centro-America in un prigioniero.

Cortès, però, dovette poi lasciare la città per andare a combattere Panfilo de Narvàez, che aveva l’ordine, trasmesso dal governatore di Cuba Diego Velàzquez, di togliergli il comando.

Alvarado, “il sole”, divenne quindi il comandante delle truppe spagnole nella capitale. Ma manifestò subito i suoi veri intendimenti, e nel modo più drammatico.

Approfittando della festa di Tòxcatl, in occasione della quale il popolo si riuniva nel recinto del tempio grande, attaccò quindi gli indigeni a tradimento. “Mentre si sta godendo la festa e il ballo è incominciato, e anche il canto, e i canti si allacciano l’uno con l’altro, e i canti sono come un fragore di onde, in questo preciso momento gli uomini di castiglia prendono la decisione di uccidere la gente” (ibid.).

Chiusero le uscite, ed in armi massacrarono senza pietà mentre la folla si accalcava verso le uscite, già bloccate, ed i feriti, orrendamente mutilati, ondeggiavano incerti alla ricerca di salvezza. “Il sangue dei guerrieri, come acqua scorreva” (ibid.).

Ma gli aztechi fuggitivi avvertirono i capitani, ed i soldati, in tutta la città. Presto, gli europei si acquartierarono nelle case reali, e da lì cominciarono a bersagliare la moltitudine, contando sull’impatto del cannone e dell’archibugio.

Mentre i padri e le madri alzavano i pianti funebri, i cadaveri dei caduti furono portati al Sacro Patio.

Tra loro, c’era quello di Motecuhzoma.

Sopraffatti dal numero, gli spagnoli si ritirarono nella notte del 30 giugno dell’anno 1520, la noche triste, verso Tlaxcala.

Cortès ebbe il dubbio merito di intuire, subito dopo l’avvenimento, che per le tribù limitrofe il dominio azteco era parimenti straniero, come quello spagnolo. Organizzò allora i contrasti, amplificò i dissapori, riorganizzò le sue forze e riuscì a portare dalla sua parte un gran numero di genti un tempo fedeli agli aztechi. E se godette dell’insperato aiuto delle epidemie che gli uomini bianchi avevano inconsapevolmente trasportato fin lì, “tosse, pustole ardenti, che bruciano” (ibid.), seppe anche sfruttare la mancanza di coesione nel campo avversario.

I mexica, infatti, presero allora ad uccidersi tra loro: tra gli altri caddero i due figli di Motecuhzoma, Axayaca e Xoxopehuàloc.

Un anno dopo, gli spagnoli tornarono. Ed ancora, gravi scontri si registrarono nel campo azteco.

Il nuovo re, Cuauhtèmoc, andò a stabilirsi ad Acacolco, per guidare la battaglia. Mentre le navi sbarravano le vie marine, mentre i cannoni aprivano il fuoco sulla Porta dell’Aquila, chiudendo ogni via di fuga, il popolino di Tenochtitlan si rifugiò a Tlatelolco, e si preparò a resistere. I capi militari urlavano per le strade, incoraggiando i difensori della città: “Non scoraggiatevi, non perdetevi d’animo. Dove dobbiamo andare? Siamo messicani, siamo tlatelolchi!”.

Rinforzati da soldati indigeni inviati soprattutto dalla rivale Tlaxcala, e poi da Huexotzinco, Cholula, Calco, Acolhuacan, Cuauhnàhuac, Xochimilco, Mizquic, Cuitlàhuac, Culhuacan, i reparti spagnoli bloccarono la città, e la situazione degli assediati peggiorò velocemente. Nonostante gli sforzi di Cortès, comunque, i messicani tlatelolchi si mantennero fino in fondo leali ai tenochchi, gli abitanti della capitale, e non li lasciarono soli neanche nell’ultima battaglia.

L’assalto finale fu contrastato, strada per strada. Si combattè quattro giorni nel Sacro Patio, e cinque nel mercato. Combatterono le donne azteche, lanciando dardi, e combatterono tutti gli uomini rimasti fedeli, dietro le trincee di crani che erano state erette in tre diversi punti della città.

La possibilità di capitolare non fu neanche presa in considerazione. Ma comunque, quando cadde il tlatelolca, “la grande aquila” che guidava i soldati alleati, la battaglia terminò.

"E tutto questo è successo a noi. Noi lo abbiamo visto, noi lo abbiamo contemplato: è da questa lamentevole e triste sorte che ci vedemmo angustiati.

 

Sulle strade giacciono dardi spezzati;
i capelli sono sparsi.
Scoperchiate sono le case,
tinte di rosso hanno le mura.
Vermi pullulano per strade e piazze,
e sono le pareti macchiate di cervelli.
Rosse sono le acque, come le avessero tinte,
se le bevevamo, erano acqua al salnitro.
Percuotevamo i muri di creta nell’ansia
E ci restava in retaggio un traliccio bucato.
Gli scudi furono la nostra difesa,
ma gli scudi non fermano la desolazione.
Abbiamo mangiato pane ammuffito,
abbiamo masticato gramigna salnitrosa, pezzi di creta, lucertole, topi,
e terra fatta polvere e anche vermi.

Abbiamo mangiato la carne appena posta sul fuoco.
Quando era cotta, ce la portavamo subito via, e se la mangiavano sul fuoco stesso.
Ci hanno messo un prezzo. Prezzo del giovane, prezzo del sacerdote, del bambino e della donzella. Basta: il prezzo del povero era appena due pugni di mais, appena dieci torte di mosche; il nostro prezzo erano soltanto venti torte di gramigna salnitrosa.
Oro, giade, ricche coperte, piume di quetzal, tutte queste cose, che sono preziose, non vennero valutate un bel nulla.


(Informantès de Sahagùn, ‘Còdice Florentino’, libro XII, cap. XX).


Mèxico-Tenochtitlan cadde nell’agosto dell’anno 1521 dell’era cristiana, o 3-Casa per i mexica.

Una cultura in pieno sviluppo, fieramente imbevuta di attributi guerrieri, terminò improvvisamente la propria parabola, sconfitta dalla superiorità militare europea, dalla sua stessa concezione “sportiva” della guerra (la prima potenza dell’epoca non manifestava certo la stessa attenzione dei messicani per la cattura dei prigionieri vivi, da sacrificare sugli altari), e, soprattutto, dalla percezione che l’atteso ritorno delle “stagioni infauste” fosse prossimo. Lo shock inflitto all’orgoglio di questo popolo, che solo qualche anno prima poteva gloriarsi del dominio di buona parte del Centro-America, fu talmente intenso da scatenare una profonda crisi d’identità nei superstiti.

“Chi era stato un grande capitano, chi era stato un uomo virile, ora se ne fugge via portando con sé soltanto stracci” (ibid.). Mentre i vincitori setacciavano abitazioni e templi, scudi ed insegne, anelli, gioielli e lunule alla ricerca di oro, al pari di alcuni capi aztechi speranzosi di ingraziarsi l’invincibile Cortès, la capitale andò via via spopolandosi, secondo le intenzioni dei conquistatori.


L’ultimo sovrano, Cuauhtemoctzin, fu sottoposto a supplizio, e, legato ad un palo, gli furono bruciati i piedi; il sacerdote che custodiva il tempio di Huitzilopochtli morì ad opera di soldati che volevano sapere dove fossero nascosti gli ornamenti del dio; e le vie della zona si riempirono delle sagome dei vinti, impiccati agli alberi.

Gli uomini di Castiglia, allora, presero a sparpagliarsi da tutte le parti nei diversi villaggi, come si era sparpagliato il popolo messicano: “le donne avevano la carne dei fianchi quasi nuda. E i cristiani frugano dappertutto. Aprono loro le gonne, mettono loro le mani addosso da tutte le parti, orecchie, seni, capelli”.

Cortès, caso singolare tra molti conquistadores, oltre a vincere la guerra, vinse anche la pace, e riuscì a mantenere il potere nelle sue mani anche nella delicata fase di consolidamento e riorganizzazione del territorio, finchè il 15 ottobre del 1922 Carlo V lo nominò governatore e capitano supremo della Nuova Spagna, di lì a poco divenuta vicereame.

Ad Amàxac invece si ritrovarono i superstiti tlatelolchi, consci come gli altri che da quel momento il popolo messicano avrebbe dovuto temere i desideri di un padrone, e incapaci di vedersi sconfitti: “Ormai non avevamo più scudi, ormai non avevamo più clave; e non avevamo niente da mangiare, e non mangiammo niente. E per tutta la notte su noi cadde la pioggia”.



 

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