N. 15 - Marzo 2009
(XLVI)
UN
PAESE AL COLLASSO
IL crac economico
islandese
di Laura Novak
Fino al 2006 l’Islanda era
considerato un paese all’avanguardia in molti settori
del sistema sociale.
La tutela dell’ambiente e gli investimenti in tecniche
alternative di sviluppo di energia erano argomenti
all’ordine di quasi tutti i programmi politici di
governo.
Il clima osteggiava da sempre la crescita
dell’agricoltura, che poteva contare su poche colture
perenni. Ma la pesca marittima rimaneva immensamente il
traino dell’economia.
Nonostante la ripresa della Caccia alle Balene, attività
odiosa che gli ha procurato non poche inimicizie, la
considerazione internazionale era notevole.
Il reddito pro capite con più di 50.000 $ era tra i più
alti al mondo.
Settori terziari, come i servizi alla persona, la sanità
o i servizi alla finanza, aveva avuto uno sviluppo
spropositato nell’ultimo decennio.
All’improvviso il buio. Nell’ottobre del 2006, dopo
innumerevoli tentativi di risanare la voragine del
debito pubblico, L’Islanda svela al mondo che il baratro
del fallimento economico è alle porte.
La situazione aveva radici lontane.
L’Islanda, che non ha mai aderito alla moneta europea,
ha subito notevoli rivalutazioni e svalutazioni della
moneta nazionale, la korona islandese, tanto da
permettere a mercati internazionali di investire, in
fondi monetari e obbligazioni, notevoli somme di denaro
in Islanda.
Per bloccare il fenomeno che rischiava di consegnare
l’economia e la finanza nazionale agli stranieri, il
governo in unione con le banche approvarono un piano di
aumento dei tassi di interesse.
La soluzione, che riguardava gli investimenti a tasso
fisso, ma non quelli a tasso variabile, avrebbe dovuto
scoraggiare l’acquisto di titoli di stato sia per gli
stranieri che per gli islandesi, che avrebbero potuto
continuare ad investire attraverso i loro conti
correnti.
La conseguenza purtroppo fu l’inverso di quanto
auspicato. L’Islanda che non aveva un volume di affari
finanziari così ampio come altri paesi del mondo,
diventava sempre più appetibile, data la scarsezza degli
investimenti residui. Più i tassi di interesse
aumentavano più americani, inglesi, giapponesi facevano
a gara per accaparrarsi titoli di stato o investimenti
bancari sul luogo.
Di conseguenza, il capitale in moneta straniera era
ovunque: negli immobili, nelle banche, nelle imprese,
nei servizi statali.
Ma nello stesso modo in cui le monete straniere
entravano, monete islandesi dovevano ripagare gli
investimenti agli stranieri.
L’indebitamento verso individui ed enti internazionali
aumentava a dismisura.
Il crack arriva, seppur in maniera definitiva,
nell’ottobre del 2008, quando le borse mondiali si
paralizzano e la crisi internazionale inonda tutti e
tutto.
La crisi dei mutui americani, arrivata nel 2008 alla
cancrena, figlia di un’economia sprezzante e volubile,
conduce al fallimento delle banche americane,
all’indebitamento di potenti multinazionali, che si
ritrovano a dover rientrare dei crediti bancari, così
facilmente concessi negli anni ’90.
Licenziamenti ed espropri: queste le conseguenze sociali
di ieri, oggi e sicuramente domani.
In questo contesto la borsa islandese crolla dell’80%,
le banche nazionali islandesi si trovano a dover coprire
voragini di indebitamento verso l’esterno incolmabili.
Nel frattempo sono state aperte inchieste giudiziarie
per riuscire a fare luce completamente su uno dei crack
più nefasti del mondo.
Dopo aver rifiutato l’offerta di aiuto finanziario della
Russia, l’Islanda ha accettato alla fine dell’ottobre
2008, il finanziamento del Fondo Monetario
Internazionale per svariati milioni di dollari.
Allo stesso tempo l’unione Panscandinava, composta da
Norvegia, Svezia e Finlandia, ha stanziato una serie di
provvedimenti economici e sociali in aiuto della vicina
Rekyavik.
L’opinione pubblica islandese ha condannato duramente
l’accettazione del governo di aiuti così ingenti da
parte di potenze straniere.
L’idea che si fosse iniziato un processo di svendita
dell’Islanda, ha preso ulteriormente vigore, fino a
creare potenti movimenti di protesta e a mettere in
crisi non solo più l’economia, ma l’intero sistema di
equilibrio sociale.
La situazione ad oggi, ancora senza risoluzione, è
entrata in una fase stagnante in cui le persone
maggiormente coinvolte sono i piccoli e grandi
imprenditori islandesi insieme agli stessi operai a
basso salario, a cui ormai non sono nemmeno più
garantiti i beni primari di sopravvivenza.
Analizzando il disegno internazionale, l’Islanda non è
la sola ad avere avuto e ad avere nel prossimo futuro
necessità di aiuto dal Fondo: dall’Ungheria, alla
Grecia, dai paesi sudamericani fino alla zona della
Bielorussia.
Presto forse, quindi, anche l’Italia?
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