N. 116 - Agosto 2017
(CXLVII)
SULLA COSTRUZIONE
DELLA
CUPOLA
DI
SANTA
MARIA
DEL
FIORE
PONTEGGI
E
MACCHINE
DI
FILIPPO
BRUNELLESCHI
-
PARTE
V
di
Maria
Laura
Corradetti
Esistevano diversi tipi di macchine, come l’argano a 3 velocità, la gru girevole detta anche Castello, un altro tipo di gru girevole utilizzata per la lanterna (ne esistono 2 versioni, la seconda versione a cappuccio servì sia per concludere la sommità della lanterna, che per posizionare la sfera di rame del Verrocchio), l’argano leggero, e la gru girevole con argano.
Per
meglio
comprendere
la
complessità
esecutiva,
saranno
descritte
le
prime
due
macchine.
Ecco
come
Ross
King
illustra
la
costruzione
dell’argano
a 3
velocità:
«I
lavori
su
questo
nuovo
argano
iniziarono
nel
1420.
Per
i
vari
elementi
del
dispositivo,
Filippo
contattò
un
vasto
numero
di
artigiani,
molti
dei
quali
fuori
Firenze.
Qualche
settimana
dopo
la
festa
celebrativa
dell’ultimazione
della
base
della
cupola,
l’Opera
ricevette
la
spedizione
di
un
olmo
dal
quale
ricavare
i
tamburi
per
il
nuovo
argano.
L’albero
deve
essere
stato
enorme,
se
si
considera
che
il
più
grande
dei
3
tamburi
aveva
un
diametro
di
un
metro
e
mezzo.
La
scelta
era
caduta
sul
legno
di
olmo
per
la
sua
grande
resistenza
agli
agenti
esterni,
in
quanto
era
logico
che
l’argano
sarebbe
stato
in
servizio
per
molti
anni.
Altre
parti
del
macchinario
continuavano
ad
arrivare
nel
frattempo,
pali
di
castagno
per
la
costruzione
del
telaio
di
sostegno
e
un’armatura
e
redini
per
i
buoi.
Una
fune
venne
commissionata
a
Pisa,
una
città
specializzata
nella
costruzione
di
navi
e
dove
l’arte
della
fabbricazione
di
funi
era
molto
avanzata.
Eppure,
l’argano
di
Filippo
deve
aver
reso
la
vita
difficile
anche
al
funaio
più
esperto
e
abituato
ad
armare
i
maggiori
galeoni,
in
quanto
richiedeva
una
delle
funi
più
lunghe,
resistenti
e
pesanti
mai
fabbricate:
182
metri
di
lunghezza
e
più
di
450
kg
di
peso.
La
costruzione
dell’argano
continuò
per
tutto
l’inverno
1420-21.
Un
fabbro
ferraio
fu
incaricato
di
realizzare
i
sostegni
delle
pulegge
e
uno
strumento
per
dentellare
il
legno
di
frassino
per
le
ruote
dell’ingranaggio.
Nel
frattempo
un
bottaio
iniziò
a
eseguire
dei
contrappesi
per
sostenere
e
bilanciare
i
carichi
di
laterizi
e
malte
durante
la
fase
ascendente.
Alla
fine
due
carpentieri
vennero
assoldati
per
costruire
l’intelaiatura
e
assemblare
le
varie
parti.
Ognuno
di
loro
trascorse
67
giorni
in
quell’impresa»
(R.
King,
La
cupola
del
Brunelleschi:
la
nascita
avventurosa
di
un
prodigio
dell’architettura
e
del
genio
che
la
ideò,
Milano,
2002,
pp.
107-108).
E
un’impresa
è
stata
l’intera
sua
realizzazione,
conclusasi
nell’inverno
del
1421
dopo
soli
6
mesi.
L’argano,
per
tutta
la
durata
del
cantiere,
ha
sollevato
materiale
pari
a
circa
30
milioni
di
chilogrammi.
Ci
sono
giunti
numerosi
disegi
più
o
meno
precisi
dai
quali
si
desume
che
l’argano,
con
una
intelaiatura
alta
circa
5
metri
e
sistemato
su
una
base
di
legno
lunga
9
metri,
era
azionato
da
uno
o
due
animali
da
tiro
che
camminavano
in
circolo
sempre
nello
stesso
senso
trasmettendo
la
rotazione
a un
asse
verticale
e,
da
lì,
a
una
coppia
di
alberi
cilindrici
che
si
azionavano
per
mezzo
di
ruote
dentate
di
varie
dimensioni,
potendo
così
sollevare
pesi
con
3
tipi
di
velocità.
L’albero
verticale
era
appunto
messo
in
moto
dal
movimento
degli
animali
attraverso
la
barra
a
esso
connessa
cui
erano
legati,
e
mediante
le
sue
due
ruote
orizzontali,
una
in
alto
e
una
in
basso
che
operavano
in
alternativa,
azionava
un
albero
orizzontale
cilindrico
di
due
diversi
spessori
(subbio
grosso
e
subbio
mezzano),
il
quale,
a
sua
volta
mediante
un
sistema
rocchetto-ruota
dentata
trascinava
con
sé
un
altro
albero
cilindrico
orizzontale
di
spessore
ancora
diverso
(subbio
minore).
Per
le
differenze
di
diametro
ciascun
albero
tirava
i
canapi
di
sollevamento
con
differente
velocità
e
richiedevano
un
diverso
grado
di
sforzo,
alla
stregua
delle
marce
delle
biciclette.
Infatti
il
subbio
grosso,
di
un
metro
e
mezzo
di
diametro,
sollevava
il
peso
più
velocemente
del
subbio
minore
che
misurava
solamente
cinque
centimetri
di
diametro,
per
cui
certamente
i
buoi
compivano
più
giri
per
ogni
ascesa,
ma
erano
in
grado
di
sollevare
pesi
considerevoli,
così
come
un
ciclista
usa
le
marce
più
basse
per
affrontare
le
salite
più
ripide.
Era
possibile
inoltre
invertire
il
senso
di
rotazione
dei
subbi
(passando
dalla
salita
alla
discesa
del
carico)
senza
dover
staccare
gli
animali
per
riattaccarli
in
direzione
contraria,
grazie
a un
dispositivo
a
vite
senza
fine,
a
filettatura
elicoidale,
posto
alla
base
dell’albero
motore
che
consentiva
di
abbassarlo
o
alzarlo
per
ingranare
con
l’una
o
l’altra
delle
sue
2
ruote
orizzontali
la
corona
dentata
del
tamburo.
Questo
meccanismo,
che
garantiva
un
risparmio
di
tempo
non
indifferente,
funzionava
solo
se
attivato,
nel
senso
che
un
dispositivo
di
sicurezza
impediva
che
si
potesse
verificare
accidentalmente
l’inversione
di
rotazione
degli
alberi.
Le
olivelle
(o
ulivelle)
erano
i
ganci
con
cui
assicurare
i
pesi
da
caricare
secondo
una
tecnica
nota
già
nell’età
romana
imperiale.
Sulla
parete
superiore
della
pietra
da
issare
veniva
scavato
un
incasso
dal
profilo
trapezoidale
tale
da
presentare
un’imboccatura
(larghezza
circa
10
cm.)
più
stretta
della
base.
Al
suo
interno
veniva
collocata
l’olivella,
formata
da
tre
barre
metalliche,
delle
quali
le 2
esterne
erano
a
coda
di
rondine
per
aderire
alla
mortasa,
mentre
quella
di
mezzo
era
liscia.
Nella
cavità
erano
inserite
per
prima
le
barre
a
coda
di
rondine
e
poi,
a
forza,
quella
liscia
che
bloccava
così
le
due
precedenti.
Poi
veniva
posizionata
una
staffa
con
i
fori
allineati
a
quelli
esistenti
sulle
teste
delle
barre
e si
serrava
il
tutto
con
un
paletto
passante
orizzontalmente
per
questi
fori.
Nel
cantiere
si
usavano
comunque
anche
altri
tipi
di
ganci,
come
forbici
in
ferro
che
serravano
il
carico
per
effetto
del
suo
stesso
peso.
L’argano
era
posto
a
terra
all’interno
del
tamburo,
mentre
i
canapi
per
il
sollevamento
passavano
attraverso
una
taglia
in
quota,
cioè
sui
ponteggi
(una
sua
ricostruzione
è
presente
in
F.D.
Prager,
G.
Scaglia,
Studies
of
his
technology
and
inventions,
Cambridge,
1970,
p.
90).
A
questo
punto
però
erano
necessarie
sulle
impalcature,
nella
fase
di
arrivo
e di
smistamento
dei
materiali,
altre
strumentazioni
che
abbinassero
al
movimento
elevatorio
anche
quello
rotatorio
e
traslatorio.
In
tutti
i
casi
è
evidente
la
solidarietà
totale
tra
macchina
e
muratura,
l’una
elevandosi
e
crescendo
in
funzione
dell’altra
in
simbiosi
perfetta.
La
gru
precedentemente
descritta
si
limitava,
appunto,
a
sollevare
pesi,
mentre
occorreva,
in
fase
di
chiusura
dell’occhio
della
cupola
e di
posizionamento
dei
pesanti
blocchi
di
pietra
del
serraglio,
l’interazione
e
integrazione
con
macchine
in
grado
di
collocarli
con
precisione
in
ogni
direzione.
A
tal
fine
fu
bandito
un
ulteriore
concorso
vinto
anche
stavolta
dal
Brunelleschi
(i
progetti
furono
presentati
nell’aprile
del
1423).
Ancora
Ross
King:
«In
pochi
giorni
iniziò
ad
arrivare
il
legno
per
la
macchina
di
Filippo:
otto
tronchi
di
pino,
insieme
a
due
di
olmo,
lunghi
4,5
metri
ciascuno.
Successivamente
giunse
un
tronco
di
castagno
dal
quale
ricavare
le
viti
della
gru.
Come
per
l’argano,
anche
la
gru
fu
costruita
in
tempi
record,
in
soli
tre
mesi,
e fu
resa
operativa
all’inizio
di
luglio»
(R.
King,
La
cupola
del
Brunelleschi…
op.
già
citata,
pp.119-120).
La
gru
girevole
detta
anche
Castello,
alta
fino
a 20
metri
e
posta
su
una
piattaforma
a
croce,
era
data
da
una
base
fissa
inferiore
e,
sopra,
da
un
albero
centrale
che
ruotava
fino
a
360°,
manovrabile
con
un
lungo
timone
per
il
quale
era
necessaria
una
squadra
di
operai.
Il
carico,
alzato
e
abbassato
mediante
una
vite
verticale
(azionata
da
un
altro
gruppo
di
lavoratori),
era
agganciato
a un
tenditore
triplo
che
ne
garantiva
l’assetto
in
piano,
mentre
un
secondo
braccio
orizzontale
dell’albero
centrale
ne
impediva
l’oscillazione
per
effetto
delle
forti
correnti
d’aria
che
soffiavano
a
quelle
altezze.
Affinché
la
gru
fosse
in
costante
equilibrio,
il
contrappeso
(situato
all’estremità
opposta
del
braccio
mobile)
veniva
fatto
spostare
orizzontalmente
tramite
viti
e
guide
di
scorrimento,
per
le
quali
si
richiedeva
l’intervento
di
una
squadra
di
operai.
Ecco
perché
Brunelleschi
destò
l’ammirazione
dei
suoi
contemporanei.
Dimostrò
una
capacità
non
comune
nel
trovare
soluzioni
ai
mille
problemi
di
ordine
pratico
che
questo
cantiere
proponeva.
«La
costruzione
di
un
capolavoro
così
straordinario
risulta
talmente
complessa,
che
tuttora
appaiono
controverse
le
modalità
e le
strumentazioni
messe
a
punto»
(E.
Capretti,
Brunelleschi…
op.
già
citata,
p.
42).
Nel
1436
la
grande
volta
era
finalmente
conclusa.
Il
25
marzo
(festa
dell’Annunciazione
e
primo
giorno
dell’anno
secondo
il
calendario
fiorentino
in
uso
fino
al
1749)
papa
Eugenio
IV
consacrò
la
nuova
cattedrale.