N. 115 - Luglio 2017
(CXLVI)
SULLA COSTRUZIONE
DELLA
CUPOLA
DI
SANTA
MARIA
DEL
FIORE
PONTEGGI
E
MACCHINE
DI
FILIPPO
BRUNELLESCHI
-
PARTE
IV
di
Maria
Laura
Corradetti
È
interessante
notare
come
già
nel
termine
“cantiere”
venga
in
qualche
modo
esplicitata
la
problematica
del
trasporto
del
materiale
da
costruzione
e
del
suo
continuo
approvvigionamento.
Infatti
la
parola
deriva
dal
greco κανθήλιος,
asino
da
soma,
divenuto
in
latino
cantherius,
ovverosia
ronzino,
passato
poi
a
indicare
il
cavalletto
di
sostegno
che
a
sua
volta,
per
estensione,
arrivò
a
significare
il
cantiere
nel
suo
complesso.
La
ricostruzione
delle
macchine
brunelleschiane,
anche
mediante
modellini
e
riproduzioni
virtuali
in
3D,
ha
sicuramente
beneficiato
della
loro
replica
nella
manualistica
del XVI
secolo,
ma
per
dedurre
i
congegni
realmente
pensati
e
impiegati
da
Brunelleschi
è
stato
necessario,
con
un
percorso
“filologico”
di
comparazione
delle
testimonianze
grafiche
sopravvissute,
eliminare
alcuni
fattori
fuorvianti
e di
disturbo.
Nel
Cinquecento
infatti
il
plagio
non
si
esauriva
in
una
pedissequa
imitazione
dell’originale,
ma
era
l’occasione
attraverso
cui
confrontarsi
intellettualmente
con
i
predecessori.
Questo
significa
che
spesso
e
volentieri
la
trattatistica
rinascimentale
sulle
macchine,
nell’intento
di
superare
i
miti
di
riferimento,
arrivò
a
concepire
congegni
del
tutto
teorici,
“mentali”.
Non
solo
si
proponevano,
ad
esempio,
gru
e
argani
di
ogni
tipo
e
stazza
per
i
quali
è
impossibile
stabilire
il
loro
effettivo
uso
nei
cantieri,
ma
sovente
veniva
meno
la
veridicità
di
rappresentazione
che
difettava
o
nell’apparato
meccanico,
trascurando
tutti
quegli
elementi
(ad
es.
carrucole,
ecc.)
che
per
la
loro
ovvietà
non
stimolavano
la
riflessione
teorica
dell’architetto
rinascimentale,
o
nell’assenza
del
rivestimento
strutturale
conclusivo,
interferendo
così
nella
percezione
delle
dimensioni
e di
quanto
fosse
l’ingombro
dei
macchinari.
C’è
poi
da
considerare
che
questi
disegni
erano
per
uso
personale
o,
al
limite,
destinati
a un
pubblico
di
tecnici
in
grado
cioè
di
interpretarli
e
decifrarli
correttamente,
per
cui
magari
si
privilegiava
evidenziare
tutti
i
dettagli
significativi
a
scapito
delle
proporzioni
tra
le
varie
parti.
Non
tutti
gli
artisti
che
si
sono
cimentati
nella
rappresentazione
grafica
delle
invenzioni
di
Brunelleschi
hanno
raggiunto
i
medesimi
esiti,
al
punto
che
secondo
molti
studiosi
i
più
attendibili
sotto
il
profilo
tecnico
sono
stati
Bonaccorso
Ghiberti
(Siena,
1451
–
ivi,
1516;
disegni
sono
contenuti
nel
suo
Zibaldone,
composto
tra
il
1472
e il
1483)
e
Leonardo
da
Vinci
(Vinci,
1452
– Cloux,
1519;
disegni
sono
contenuti
nel
Codice
Atlantico,
raccolta
formata
da
Pompeo
Leoni
alla
fine
del
Cinquecento
smembrando
i
taccuini
originali
di
Leonardo
da
Vinci),
il
quale
venuto
nel
1469
a
bottega
dal
Verrocchio
proprio
mentre
questi
doveva
collocare
la
sua
sfera
di
rame
dorato
sulla
sommità
della
lanterna,
ebbe
modo
di
assistere
in
prima
persona
a
tale
operazione.
Comunque,
gli
altri
artisti
sono
i
già
citati
Mariano
di
Jacopo
detto
il
Taccola
(Siena,
1381
–
ivi,
1453-58;
i
disegni
sono
contenuti
nel
suo
libro
De
machinis
libri
decem,
pubblicato
nel
1449),
Francesco
di
Giorgio
Martini
(Siena,
1439
–
ivi,
1501;
i
disegni
sono
contenuti
nel
Codicetto,
un
taccuino
da
lui
usato
sino
agli
anni
settanta.)
e
Giuliano
da
Sangallo
(Firenze,
1443
c. –
ivi,
1517.
I
disegni
sono
contenuti
nel
suo
codice
prevalentemente
di
architettura
detto
Taccuino
senese
redatto
al
termine
della
sua
carriera).
In
sostanza
l’attenzione
era
tutta
per
la
meccanica,
sottovalutando
invece
le
problematiche
inerenti
alla
costruzione
effettiva
delle
macchine
stesse,
intendendo
cioè
gli
aspetti
pratici
da
soddisfare
affinché
fosse
possibile
realizzarle
sicure
e
funzionali.
Ovviamente
le
macchine
erano
costruite,
secondo
le
possibilità
dell’epoca,
in
legno,
corda,
con
elementi
in
ferro
o
bronzo,
cioè
materiali
perlopiù
altamente
infiammabili
o
che
potevano
logorarsi,
perciò
altre
difficoltà
si
presentarono
proprio
relativamente
al
loro
utilizzo
e
all’usura
dei
loro
rotismi
dentati.
Gli
espedienti
per
ridurre
al
minimo
l’attrito,
scongiurando
così
il
pericolo
di
incendi,
erano
molto
empirici,
come
ad
esempio
scegliere
legname
più
resistente
e
specifico
per
l’impiego
cui
era
destinato,
o
munire
gli
ingranaggi
di
denti
girevoli
in
bronzo
per
attenuare
le
frizioni
tra
gli
ingranaggi
(detti
“palei”),
o
bagnare
le
funi
con
vino,
aceto,
o
acqua
di
mare
(quella
dolce
poteva
far
marcire
le
corde).
È
chiaro
però
come
ogni
cosa
fosse
frutto
dell’ingegno
di
Brunelleschi,
il
quale
non
esitò
a
rivolgersi
a un
variegato
e
numeroso
gruppo
di
artigiani,
scelti
sulla
base
delle
loro
competenze
anche
al
di
fuori
del
territorio
fiorentino,
purché
eccellessero
nel
loro
mestiere,
dovendo
trovare
ancora
una
volta
soluzioni
a
problemi
apparentemente
insormontabili.
La
forza
motore,
poi,
era
data
da
cavalli
o
buoi,
gli
unici
capaci
di
vincere
gli
attriti
fra
le
parti
in
movimento,
il
che
richiedeva
però
uno
sforzo
talmente
enorme
da
consumarne
le
forze
in
breve
tempo,
per
cui,
solitamente
ogni
6
mesi,
era
necessaria
la
loro
sostituzione.
Quindi
per
garantire
un
periodico
rinnovo
di
animali
si
offrivano
ingenti
somme
di
denaro
a
chi
cedeva
le
proprie
bestie
al
servizio
dell’Opera
del
Duomo,
creando
un
continuo
afflusso
dalle
campagne
di
contadini
attratti
dalle
sostanziose
ricompense.