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N. 77 - Maggio 2014 (CVIII)

La “costituzione mista” di Roma

paradigma di equilibrio, giustizia e virtù
di Paola Scollo

 

All’epoca dell’esilio a Tessalonica e a Durazzo nel 58 a.C., nella stagione più drammatica della sua esistenza Cicerone concepisce il progetto di realizzare un trattato di natura politica. Immerso nella profondità dell’otium filosofico, l’oratore si interroga sulla natura e sulle forme dello stato, immaginando un’opera dialogica ambiziosa in nove libri.

 

Composto a partire della primavera del 54 a.C. il trattato dal titolo De re publica vede la luce soltanto nel 51 a.C., quando Cicerone soggiorna nelle sue ville in Campania.

 

È una gestazione lenta, complessa e tormentata, anche per effetto della imprevedibile e drammatica situazione politica a Roma. Nella stesura definitiva, lo scritto si compone di sei libri. La presenza di tre proemi – in corrispondenza del primo, del terzo e del quinto libro – gli conferisce poi una struttura tripartita. Cicerone dedica l’opera al fratello Quinto, insieme al quale ha avuto modo di ascoltare a Smirme i racconti di Rutilio Rufo sulle conversazioni di natura politica presso il circolo degli Scipioni.

 

Il De republica costituisce un unicum nel vasto e variegato panorama della tradizione letteraria latina. Pur essendo permeato delle dottrine politiche di Platone e di Aristotele, procede oltre i limiti della pura impostazione teorica. L’autore ambisce a realizzare una perfetta fusione del pensiero astratto della Grecia con il pragmatismo dell’Urbe, anche alla luce delle proprie esperienze personali.

 

Cornice del trattato è una conversazione, immaginata nell’inverno del 129 a.C. all’epoca del consolato di Aquilio e Tutidano, di cui sono protagonisti Scipione l’Emiliano, che sta trascorrendo le ferie latine in una delle sue ville suburbane, Lucio Filo, Manilio, Spurio Mummio, Lelio, insieme ai due generi di Lelio, Scevola e Fannio, e ai giovani Rutilio Rufo e Tuberone.

 

Comune denominatore degli interlocutori è il desiderio di intrattenersi alcuni giorni in discussioni intorno alla sapienza. Dapprima, infatti, il dialogo verte sul fenomeno del “doppio sole”. Tale argomento induce Lelio a una comparatio tra i due soli e le due forze politiche preminenti, ovvero l’Emiliano e i seguaci dei Gracchi. Intriso di stoicismo, Lelio manifesta dunque la necessità di distogliere lo sguardo dalle cose celesti per dirigerlo verso quelle terrene, affrontando problematiche che interessino la collettività.

 

Insoddisfatto dei discorsi pronunciati dagli interlocutori, l’Emiliano esordisce affermando che «lo Stato è ciò che appartiene al popolo», precisando che popolo può essere definito soltanto una «società organizzata che ha per fondamento l’osservanza della giustizia e la comunanza di interessi», non una qualsiasi moltitudine.

 

Ciò che spinge gli uomini a organizzarsi in società non è il reciproco bisogno, quanto piuttosto una naturale disposizione a vivere insieme per natura. Sul filo di questo ragionamento, il popolo è immaginato come un insieme di cittadini con leggi e interessi comuni. In seguito Cicerone mette in bocca a Scipione una personale definizione di res publica. «Lo stato – afferma – è il popolo organizzato non già soltanto sul fondamento della comune utilità ma, prima ancora, sulla comune coscienza giuridica» (I 25). Segue dunque un’analisi delle tradizionali forme di governo.

 

In tale contesto Scipione non giudica perfetta alcuna delle tre forme di governo tradizionali, ossia monarchia, aristocrazia e democrazia. Le prime due impediscono ai cittadini di affermare la loro libertà, mentre la terza – che è la più iniqua – non promuove la meritocrazia, anzi induce a un vero e proprio appiattimento sociale. Inoltre ciascuna di queste tre forme può facilmente essere soggetta a degenerazioni in forme di governo deteriori come la tirannide, l’oligarchia e l’oclocrazia.

 

La migliore forma di governo è individuata nella cosiddetta “costituzione mista”, che si pone quale risultato «della fusione e del moderato temperamento delle prime tre forme di governo» (XLV). Un esempio in tal senso giunge dall’ordinamento della repubblica romana dei padri, basato sui principi di potestas, auctoritas e libertas esercitati rispettivamente da consoli, senato e popolo.

 

Attraverso le parole di Scipione, Cicerone non propone dunque un modello di stato ideale e astratto, ma concreto e reale. Di qui la necessità di ripercorrere le tappe più significative della storia di Roma al fine di analizzare i meccanismi che sostengono tale forma di governo e di seguirne l’evoluzione e gli sviluppi nel corso dei secoli.

 

Partendo dalla fondazione dell’Urbe, Cicerone esprime parole di lode nei confronti di Romolo che, istituendo il Senato, ha offerto prova di elevata sapienza. Nel complesso l’età monarchica viene valutata positivamente: protagonista di conflitti fortunati volti a diffondere l’amore per la pace, Roma ha fondato la prima colonia sulle rive del Tevere ed è entrata in contatto con la cultura greca.

 

Un notevole impulso verso la realizzazione della costituzione mista è giunto poi dalla riforma di Servio Tullio attraverso cui il diritto di voto nelle elezioni è stato esteso a tutto il popolo. Al termine della fase monarchica, ha inizio l’epoca del consolato.

 

I due consoli vengono qui presentati quali garanti della libertà e dei diritti giuridici. Con l’introduzione del tribunato della plebe e la stesura del primo codice di leggi viene raggiunta una maggiore aequabilitas.

 

Analizzando la turbolenta stagione degli scontri tra patrizi e plebei, in Cicerone è ferma la convinzione per cui soltanto la concordia ordinum sia in grado di assicurare la stabilità delle forme di governo. Essa si realizza attraverso la giustizia sociale, espressione del diritto di natura e della ragione divina, che indica all’uomo il dovere di aiutare e amare tutti gli uomini.

 

Nell’immagine dell’oratore, la giustizia deve essere sostenuta anche dall’amore per la virtù, per il rispetto delle leggi e per il culto. Di qui il ruolo di assoluta centralità dell’educazione dei giovani, che deve essere basata su modelli di rettitudine da parte di familiari, politici e magistrati e sulla severa condanna di ciò che induce alla corruzione dei costumi.

 

Lo stato è ciò che riguarda e appartiene a tutti i cittadini, quindi non può dipendere dalla volontà di un singolo individuo. Ogni forma di governo risente infatti dell’indole e della volontà di chi detiene il potere, per cui la miglior forma di governo è quella in cui viene tutelato il bene più prezioso in assoluto, la libertas, e laddove i popoli sono «arbitri delle leggi, dei giudizi, della guerra, della pace, dei trattati, della vita e della fortuna di ciascun cittadino».

 

In sintesi lo stato ideale deve tutelare la libertà ed essere fondato sulla virtù. Ciò può avvenire soltanto se chi detiene il potere non è schiavo di alcuna forma di cupidigia ed è il primo a osservare il rispetto delle leggi imposte ai cittadini, proponendo «come legge la propria vita».

 

L’uomo politico deve essere animato dal desiderio di gloria, deve distinguersi per valore e dottrina, anteponendo in ogni occasione il bene collettivo al vantaggio personale e ponendosi quale paradigma di onestà. «Come al timoniere sta a cuore la navigazione tranquilla, al medico la salvezza del malato, al generale la vittoria, così l’uomo che regge lo stato deve soprattutto preoccuparsi del benessere dei concittadini, perché la loro vita sia salda di potenza, abbondante di ricchezze, bella di gloria e onesta di virtù» (V fr. 2).

 

Il premio maggiore della virtù è per il saggio la consapevolezza di aver agito bene e correttamente. Ulteriori riconoscimenti per tale modus vivendi sono l’immortalità e la felicità eterna, premi più duraturi di statue, più splendidi e più robusti.

 

Sullo sfondo degli scontri tra Cesare e Pompeo, delle violenze e della corruzione che hanno minato alle basi la libertas repubblicana, Cicerone si volge nostalgicamente al passato interrogandosi: «Che resta ormai degli antichi costumi sui quali Ennio disse che si reggeva la potenza di Roma? Io li vedo così caduti nella dimenticanza da essere non solo trascurati, ma del tutto ignorati» (V fr. 1).

 

Nonostante le amarezze, le delusioni e i soprusi, Cicerone si mostra ancora fedele alle proprie idee, prospettando una risposta positiva alla corruzione dei costumi e alla crisi politica a opera di uomini assennati guidati da principi repubblicani.

 

Negli ultimi due libri del trattato, giunge infatti a delineare il ritratto del perfetto uomo politico. A ben vedere, tale immagine non assume i tratti del volto e del carattere di Pompeo, ma di se stesso.

 

Il padre della patria, investito del potere di principe della repubblica romana, si immagina quale politico generoso, sapiente, capace di porsi super partes, inculcando nella sua gente il rispetto delle leggi, l’attaccamento e l’amore per la patria.

 

E proprio nella salvezza della patria risiede la più nobile tra le attività dell’uomo di stato. Una consapevolezza, questa, che a distanza di secoli desidereremmo possedessero anche i nostri politici!



 

 

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