N. 149 - Maggio 2020
(CLXXX)
La
Rivolta
di
Nika
insurrezione
all’Ippodromo
di
Matteo
Picconi
“Nika,
nika!”.
O,
meglio,
nikā,
cioè
“vinci”.
Questo
fu
il
grido
di
battaglia
del
popolo
di
Costantinopoli
che
per
un’intera
settimana
mise
sotto
scacco
la
corte
di
Giustiniano
nel
532
d.C.,
quinto
anno
del
suo
regno
sull’impero
bizantino.
Per
comprendere
appieno
le
ragioni
che
spinsero
la
classe
nobiliare
e le
masse
popolari,
da
sempre
acerrime
nemiche,
a
unirsi
contro
il
loro
imperatore,
è
necessario
inquadrare
il
contesto
delle
fazioni
cittadine
e
descrivere
quello
che
per
secoli
è
stato
il
cuore
della
città:
l’ippodromo.
“Questi
spettacoli,
dopo
il
divieto
dei
combattimenti
dei
gladiatori,
rimasero
gli
unici
che
riscuotevano
il
favore
del
grande
pubblico
e
l’ippodromo
divenne
quindi
il
centro
delle
manifestazioni
collettive
della
popolazione
e
l’unico
luogo
dove
si
poteva
incontrare
l’imperatore
e i
suoi
ministri”.
Così
lo
storico
Livio
Zerbini,
in
“Grandi
e
piccoli
eroi
che
hanno
cambiato
la
storia”,
descrive
brevemente
il
Circo
Romano
di
Costantinopoli,
inizialmente
edificato
da
Settimio
Severo
nel
III
secolo
e
ultimato
da
Costantino
nel
330,
quando
Bisanzio
diventò
la
“nuova
Roma”.
Progettato
sul
modello
del
“nostro”
Circo
Massimo,
l’ippodromo
era
quindi
il
centro
degli
affari
cittadini,
dove
si
concludevano
accordi
economici
e si
stringevano
alleanze
politiche.
Costituiva
quindi
un’eredità
romana,
non
soltanto
da
un
punto
di
vista
ludico-sportivo.
Era
consuetudine,
già
dai
tempi
di
Nerone,
che
gli
aurighi
(i
conduttori
dei
carri)
fossero
suddivisi
in
squadre,
rispettivamente
Verdi,
Azzurri,
Rossi
e
Bianchi.
Come
nella
Città
Eterna,
anche
a
Costantinopoli
prendere
le
parti
di
una
di
queste
“squadre”
andava
ben
oltre
l’essere
meramente
un
simpatizzante,
un
tifoso
diremmo
oggi.
Così
scrive
nella
sua
“Storia
della
decadenza
e
rovina
dell'impero
romano”
lo
storico
inglese
Edward
Gibbon:
“Costantinopoli
adottò
le
follie,
non
già
le
virtù,
dell’antica
Roma;
e le
fazioni
istesse,
che
aveano
agitato
il
circo,
infierirono
con
maggior
furore
nell’Ippodromo”.
Interessante
notare
come
i
sostenitori
dei
rispettivi
raggruppamenti
occupassero
dei
settori
specifici
sugli
spalti
dell’ippodromo.
Frontalmente
alla
terrazza
imperiale,
collegata
al
Gran
Palazzo
(proprio
come
il
Circo
Massimo),
sedevano
i
sostenitori
dei
Bianchi
e
dei
Rossi,
tifosi
neutrali
e di
numero
esiguo,
i
quali
non
occuparono
mai
un
ruolo
significativo
nella
vita
sociale
e
politica
di
Costantinopoli.
A
occupare
la
curva
delle
carceres
vi
erano
invece
gli
Azzurri,
detti
anche
Veneti.
Appartenevano
al
ceto
popolare,
erano
fedeli
sostenitori
dell’ortodossia
cristiana
e
godevano
dell’appoggio
della
corte
giustinianea,
in
particolar
modo
di
Teodora.
Il
favore
dell’imperatrice
derivava
dal
suo
vecchio
risentimento
nei
confronti
dei
Verdi
che
avevano
abbandonato
lei
e la
sua
famiglia
dopo
la
morte
del
padre,
ammaestratore
di
orsi
del
circo.
Attrice
e
prostituta,
la
sua
“folgorante”
scalata
sociale
fu
dovuta
(anche)
alla
fazione
degli
Azzurri.
Nella
curva
opposta,
chiamata
sphendoné,
sedevano
invece
i
Verdi,
detti
anche
Prasini
o
“contribuenti”
(in
spregio
agli
azzurri,
denominati
i
“miserabili”).
Erano
in
gran
parte
i
membri
dell’aristocrazia
cittadina,
che
occupavano
ruoli
strategici
nella
vita
politica
e
militare
e
sostenevano
la
tesi
del
monofisismo
(ovvero
dell’unica
natura
divina
del
Cristo).
Tra
i
rappresentanti
più
in
vista
c’erano
i
nipoti
dell’ex
imperatore
Anastasio
I,
Pompeo
e il
console
Ipazio.
Nei
primi
anni
del
regno
di
Giustiniano,
gli
Azzurri
costituivano
la
fazione
dominante.
Era
gente
semplice,
bottegai,
artigiani,
non
di
rado
uomini
di
malaffare.
Avevano
anche
un
proprio
“look”
che
Procopio
di
Cesarea,
nella
sua
“Historia
Arcana”,
descrive
così:
“lasciaronsi
crescere
la
barba
e i
mustacchi,
e
questi
venir
lunghi
all'uso
persiano:
si
rasarono
i
capelli
sulla
fronte,
e
alle
tempia;
e al
di
dietro
lasciaronli
andar
liberi
e
sparsi,
come
facevano
i
Massageti:
costumanza
che
fu
chiamata
unnica”.
Principali
protagonisti
dei
frequenti
disordini
che
avevano
luogo
sugli
spalti
dell’ippodromo,
nel
corso
del
VI
secolo
le
violenze
degli
Azzurri
si
spostarono
sulle
strade.
“Giravano
fra
giorno
con
pugnali
ascosi,
poi
la
notte
in
numerose
bande
si
permettevano
qualunque
eccesso
contro
i
Verdi
e i
cittadini
quieti
(…)
Il
favore
imperiale
lasciava
impuniti
stupri,
sacrilegi,
assassinii,
mentre
gli
oltraggiati
e i
Verdi
esacerbavano
quegli
orrori
o
raddoppiandoli
in
città”.
Così
li
descrive
Cesare
Cantù,
a
proposito
dell’impunità
di
cui
gli
stessi
godevano.
La
fine
del
regno
di
Anastasio
I
nel
518
aveva
di
fatto
indebolito
la
fazione
dei
Verdi.
La
ragione
fu
principalmente
di
natura
religiosa:
l’ex
imperatore
aveva
abbracciato
la
tesi
monofisita,
bandita
come
eresia
cristiana
dal
concilio
di
Calcedonia
nel
451.
Ciononostante
il
monofisismo
restò
largamente
diffuso
in
molte
regioni
dell’impero,
soprattutto
tra
gli
esponenti
del
ceto
aristocratico
e,
in
gran
parte,
dei
Verdi.
Ma
con
l’avvento
di
Giustino
I, e
successivamente
di
suo
nipote
Giustiniano,
i
monofisiti
furono
perseguitati
o
lasciati
alla
mercé
dei
loro
avversari.
Non
vi
era
solo
il
pretesto
religioso
a
giustificare
le
violenze
perpetrate
dagli
Azzurri.
Colpire
i
“contribuenti”,
significava
appropriarsi
dei
loro
beni,
usurpare
la
loro
posizione
sociale.
Molti
storici
hanno
concordato
sull’ipotesi
che
il
lassismo
di
Giustiniano
rispondesse
a un
disegno
politico
ben
preciso,
volto
a
sbaragliare
i
suoi
avversari
politici.
D’altro
canto
i
Verdi
non
rimasero
del
tutto
inermi
di
fronte
a
tali
vessazioni.
A
confermarcelo
è
sempre
Procopio:
“Dal
canto
loro
i
Prasini,
che
ìvano
tumultuando,
non
si
contennero:
ma
come
videro
di
potere,
abbandonaronsi
ad
ogni
misfatto,
quantunque
di
tempo
in
tempo
con
occulti
supplizii
fossero
puniti:
il
che
però
ogni
giorno
li
rendea
più
arditi”.
Per
riassumere:
violenza
incontrollata
degli
Azzurri,
malcontento
dei
Verdi,
corruzione
dilagante
e,
infine,
il
sovraccarico
fiscale
imposto
da
Giustiniano
a
tutta
la
popolazione.
Queste
le
premesse
con
cui
si
arrivò
a
quel
11
gennaio
del
532
quando,
in
occasione
delle
corse,
i
Prasini
denunciarono
pubblicamente
le
violenze
della
fazione
rivale
dinnanzi
alla
tribuna
imperiale.
Ignorati
da
Giustiniano
i
Verdi
scatenarono
dei
disordini
che
dall’Ippodromo
dilagarono
per
le
strade.
La
repressione
fu
brutale,
lo
storico
Charles
Diehl,
nella
sua
opera
dedicata
a
Teodora,
ce
ne
offre
uno
spaccato:
“Sfortunatamente
il
prefetto
della
città
Eudemone
commise
un’azione
poco
prudente.
Per
eccesso
di
zelo
aveva
fatto
arrestare
un
certo
numero
di
facinorosi
e,
senza
informarsi
di
quale
partito
fossero,
ne
condannò
quattro
alla
decapitazione
e
tre
all’impiccagione”.
Una
distrazione
che
costerà
caro
a
Giustiniano
in
quanto
alcuni
di
loro
appartenevano
alla
fazione
“amica”.
Dei
tre
condannati
al
cappio,
un
verde
e un
azzurro
riuscirono
a
fuggire
e a
nascondersi
nella
chiesa
di
San
Conone.
La
rappresaglia
di
Eudemone
contribuì
a
unire
le
due
fazioni
che
sotto
il
grido
“Nika!”,
cominciarono
a
mettere
a
ferro
e
fuoco
la
zona
intorno
all’ippodromo.
Le
richieste
di
grazia
per
i
due
sopravvissuti
non
furono
accolte
da
Giustiniano
e la
rivolta
si
estese
a
tutta
la
città.
Fu
distrutto
il
palazzo
della
Prefettura
e
furono
prese
d’assalto
le
prigioni.
Nei
giorni
seguenti
i
rivoltosi
alzarono
la
posta
in
gioco
e
chiesero
la
destituzione
di
Eudemone,
del
prefetto
d’Oriente
Giovanni
di
Cappadocia
e
del
questore
di
palazzo
Triboniano.
Giustiniano
questa
volta
acconsentì
ma,
ormai,
la
rivolta
si
era
trasformata
in
rivoluzione.
Diehl
tratteggia
uno
scenario
apocalittico:
“Più
di
un
quarto
della
capitale
fu
ridotto
in
cenere;
e in
mezzo
alle
rovine
annerite
dal
fuoco,
in
mezzo
al
fumo,
tra
l’odore
di
bruciato
che
rendeva
la
città
quasi
invivibile,
nelle
strade
coperte
di
cadaveri,
tra
cui
quelli
di
molte
donne,
la
battaglia
continuava”.
Nel
momento
culminante
della
“sedizione
dei
Vittoriati”,
come
la
chiamò
Procopio,
i
Verdi
pensarono
addirittura
di
detronizzare
lo
stesso
Giustiniano,
tanto
che
nominarono
un
proprio
imperatore.
Riprendendo
ancora
Gibbon:
“Nel
mattino
del
sesto
giorno,
Ipazio,
nipote
dell’imperatore
Anastasio,
fu
dal
popolo
proclamato
imperatore:
se
l’usurpatore
avesse
seguito
il
consiglio
del
Senato
ed
eccitato
il
furore
della
moltitudine,
il
primo
sforzo
irresistibile
di
essa
avrebbe
oppresso
o
scacciato
il
suo
tremante
competitore”.
Giustiniano,
rifugiatosi
a
palazzo,
meditò
seriamente
di
lasciare
Costantinopoli.
Gli
studiosi
concordano
che
a
farlo
desistere
fu
la
moglie
Teodora,
che
lo
spinse
a
riprendere
il
controllo
della
città
e ad
affrontare
la
morte
piuttosto
che
una
vile
fuga.
L’imperatore
mirò
allora
a
dividere
nuovamente
le
fazioni,
corrompendo
una
parte
degli
Azzurri
tramite
ingenti
quantità
di
oro.
Di
fatto
Giustiniano
stava
prendendo
tempo:
a
breve
l’esercito
di
mercenari
guidato
dal
generale
Belisario,
tornato
vincitore
dalla
campagna
africana,
avrebbe
fatto
ingresso
in
città
e
sedato
la
rivolta
in
un
bagno
di
sangue.
Le
truppe
imperiali
costrinsero
i
rivoltosi
a
ripiegare
nell’ippodromo.
E
proprio
laddove
ebbe
origine
la
rivolta,
si
materializzò
il
tragico
epilogo,
ben
descritto
da
Gibbon:
“In
questo
spazio
angusto
la
moltitudine
disordinata
e
sorpresa
non
fu
capace
di
resistere
a un
attacco
fermo,
regolare,
che
movea
da
due
parti:
gli
azzurri
segnalarono
il
furore
del
loro
pentimento,
e si
conta
che
rimanessero
uccise
trentamila
persone
nella
strage
promiscua
e
spietata
di
quel
giorno”.
Il
giorno
seguente
Ipazio
e
Pompeo
furono
condannati
a
morte
insieme
ad
altri
diciotto
sediziosi.
Giustiniano
celebrò
la
repressione
della
rivolta
come
una
vittoria
militare
e
Belisario
fu
acclamato
come
un
eroe.
La
rivalità
tra
Azzurri
e
Verdi
durò
ancora
a
lungo.
Ne è
prova,
molti
anni
dopo,
il
celebre
discorso
(riportato
da
Teofane
il
Confessore)
di
Giustino
II,
successore
di
Giustiniano:
“Voi,
Veneti,
dovete
sapere
che
v'è
morto
Giustiniano;
e
voi,
o
Prasini,
avete
da
tenere
per
fermo
che
per
voi
Giustiniano
rimansi
ancora
vivo”.
Riferimenti
bibliografici:
Opere
di
Procopio
di
Cesarea,
trad.
di
Giuseppe
Compagnoni,
tipog.
Francesco
Sonzogno,
Milano
1828;
Edward
Gibbon,
Storia
della
decadenza
e
rovina
dell’impero
romano,
Barbera
Editore,
Firenze
1863;
Cesare
Cantù,
Storia
Universale,
vol.VII,
Pomba
e C.
Editori,
Torino
1841;
Livio
Zerbini,
Grandi
e
piccoli
eroi
che
hanno
cambiato
la
storia,
Newton
Compton
Editori,
Roma
2016;
Charles
Diehl,
Teodora:
Imperatrice
di
Bisanzio,
Castelvecchi
Editore,
Roma
2015;
Michael
McCormick,
Vittoria
eterna:
sovranità
trionfale
nella
tarda
antichità,
Vita
e
Pensiero,
Milano
1993.