medievale
LA CONQUISTA OTTOMANA DI COSTANTINOPOLI
TRAMONTO DELL’IMPERO
di Francesco Biscardi
Il 30 maggio 1453 il sultano ottomano
Maometto II entrò a cavallo nella
conquistata città di
Costantinopoli/Bisanzio, capitale di ciò
che restava di quello che comunemente
chiamiamo Impero bizantino ma che altro
non era che l’antica pars orientis
dell’Impero romano, come definitivamente
scaturita nel 395 alla morte di
Teodosio, l’ultimo imperatore in grado
di tenere unita la corona imperiale.
Questo è un dato di fatto che siamo
soliti trascurare: si ripete di continuo
che l’evento che segna la fine della
storia romana fu la deposizione di
Romolo Augustolo da parte dello sciro
Odoacre nel 476, enfatizzando un
accadimento in realtà di poco conto, dal
momento che, di fatto, la centralità di
Roma era tramontata da decadi (lo
storico Arnaldo Momigliano ha definito
quella dell’Occidente una caduta “senza
rumore”), e dimenticandoci che la parte
orientale dell’Impero, che aveva per
capitale Costantinopoli, la “Seconda” o
“Nuova Roma” fondata da Costantino,
sopravvisse per un altro millennio,
fino, appunto, al 1453 (con la parentesi
1204-1261 dell’Impero latino d’Oriente,
fondato a seguito degli eventi della IV
crociata).
Secondo l’ideologia “romea”, della
translatio imperii, sostenuta dagli
imperatori d’Oriente, i basileis,
“Roma” era a Bisanzio e il proprio
dominio continuò a chiamarsi per tutto
il Medioevo basileia
ton romaion,
mentre l’autorità imperiale concessa dal
papa ai sovrani franco-germanici venne
sempre condannata: da Carlomagno agli
Ottoni e ai loro successori, il sovrano
costantinopolitano considerò sempre
illegittime le loro nomine, mentre, in
Occidente, il basileus fu sempre
più visto come “solo” rex graecorum.
È dunque nel 1453 che giunse
definitivamente al capolinea la storia
di quel che restava dell’Impero romano.
Una fine che, alla metà del XV secolo,
sembrava ormai scritta, nonostante la
decisione presa al Concilio di Firenze
del 1438-39 di porre fine allo scisma
fra cattolici e ortodossi e di muovere
una crociata contro l’avanzata
dell’“infedele” islamico.
Infatti il basileus Giovanni VIII,
subodorando una triste sorte per il suo
regno (ormai ridotto a Costantinopoli e
al territorio limitrofo), aveva iniziato
nel 1437 un viaggio per l’Europa al fine
di ottenere l’ausilio dei capi della
Cristianità riuniti a Basilea. Sapeva
bene quale sarebbe stato il prezzo: la
rinuncia della Chiesa greca alla propria
indipendenza e la sottomissione
incondizionata alla Santa Sede, sebbene
fosse conscio che tanto gli ambienti
ecclesiastici quanto l’élite economica
della sua città avrebbero preferito il
dominio sultaniale all’asservimento al
pontefice: nota era la relativa
tolleranza degli ottomani, che avrebbero
almeno concesso al popolo bizantino
libertà di culto e di rito, mentre i
latini avrebbero cassato ogni autonomia
liturgica e religiosa; così in molti
stimavano migliore “il turbante turco
alla tiara papale”.
Tuttavia l’imperatore era pronto a tutto
pur di difendere la propria capitale. Il
Concilio si spostò da Basilea a Ferrara
fino a Firenze e fu qui che, il 6 luglio
del 1439, venne proclamata l’agognata
unione delle due Chiese cristiane e la
fine dello scisma, una volta appianate
le non poche divergenze.
Purtroppo però le cose nei Balcani
stavano precipitando sempre più e
l’appello crociato cadde nel vuoto: la
Guerra dei Cent’anni non era finita,
come la reconquista nella
Penisola Iberica, in Italia si era da
poco chiuso il conflitto fra angioini e
aragonesi per il Regno di Napoli, mentre
Genova, Firenze e Venezia intrattenevano
buone relazioni commerciali con i turchi
che avevano poca intenzione di
compromettere, e il giovane re tedesco e
“romano”, Federico III, non ancora
incoronato imperatore dal papa, era
restio a impegnarsi in una missione di
soccorso ai sovrani bizantino e
ungherese. Accadde così che i popoli
balcanici rimasero praticamente soli
contro gli ottomani, avviandosi alla
rovinosa sconfitta di Varna del 1444,
mentre la proclamata unione delle due
confessioni andò svanendo.
Oltre che dal mancato sostegno
occidentale, la fine della Nuova Roma
era stata preconizzata da funeste
dicerie: una profezia riportava che la
sua caduta sarebbe avvenuta sotto un
imperatore recante lo stesso nome del
suo fondatore, figlio di una donna
omonima della madre di questi, mentre
un’altra vagheggiava che la città non
sarebbe stata presa finché la luna si
fosse trovata nella fase crescente.
Causa volle che il 24 maggio 1453 era il
plenilunio, a cui sarebbe seguita la
fase della luna calante, e che
basileus fosse Costantino XI e che
sua madre si chiamasse Elena,
esattamente come la genitrice di
Costantino il Grande.
Oltre che con queste nefaste previsioni,
il neo imperatore aveva a che fare con
una turbolenta Chiesa bizantina che ne
contestava la legittimità
dell’incoronazione, avvenuta non per
mano del patriarca, cui spettava tale
sanzione, ma in modo “laico” e formale
da parte dei delegati della madre a
Mistrà, dove si trovava al momento del
trapasso del fratello Giovanni VIII (†1448).
Né questi ricercò l’avallo patriarcale
dopo il suo ritorno nella capitale nel
1449, inimicandosi ulteriormente una
buona fetta dei sudditi. C’era in realtà
un motivo dietro a questa scelta: come
il suo predecessore, sapeva bene che
l’unica ancora di salvezza andava
riposta nel soccorso occidentale e che
il beneplacito papale era condizione
imprescindibile per la crociata
anti-ottomana, mentre la consacrazione
ortodossa avrebbe potuto pregiudicare il
sostegno di Roma, bramosa della
ricongiunzione delle confessioni decisa
a Firenze.
Tuttavia ogni speranza e ogni flebile
sforzo risultò vano: il 29 maggio 1453
le armate ottomane entrarono a Bisanzio,
scrivendo la parola fine alla millenaria
storia dell’Impero romano d’Oriente
(Costantino XI morì nella sua difesa).
In quel momento l’Occidente parve come
svegliarsi di soprassalto da un lungo
sonno, nonostante non si fosse fatto
granché per la sua salvezza. Si vide
nell’evento l’inizio dell’apocalisse, la
prova che l’avanzata dell’infedele fosse
ormai inarrestabile. Come chiosò
l’umanista Enea Silvio Piccolomini,
futuro Pio II, mai la Cristianità aveva
perso “una città o un luogo paragonabile
a Costantinopoli”.
Molto ci sarebbe da dire sulla
percezione dei turchi in Occidente e sul
successivo sviluppo dell’ideologia
crociata, ma preferisco evitare tali
argomentazioni per soffermarmi a
riflettere su cosa ne fu dell’“eredità
romana” di Bisanzio, visto che vari
soggetti cercarono di accaparrarsi il
diritto di essere i nuovi “Cesari”.
Probabilmente, sebbene non accettata dai
latini, la voce più celebre che si levò
fu quella di Ivan III il Grande, monarca
russo che rivendicò per Mosca il ruolo
di “Terza Roma” e per sé il titolo di
Cesare: czar, dal latino
Caesar (titolo che però sarà
stabilmente introdotto solo sotto Ivan
IV nel secolo seguente).
Un altro sovrano che si fece avanti fu
proprio colui che aveva scritto la
parola fine alla millenaria storia
dell’Impero d’Oriente: Maometto II. Il
Gran Signore dei Turchi ne aveva già
vari di titoli: era sultano (parola di
origine araba designante genericamente
il detentore del potere), come anche,
almeno per i sunniti, califfo, ovvero
“successore del profeta di Allah” (khalifat
rasul Allah), e “principe dei
credenti” (amir al muminin),
oltreché originariamente khan, capo
tribù, e padiscià (vantandosi erede dei
Gran Re persiani). Ora poteva sfoggiare
anche quello di Cesare, in quanto
padrone della città di Costantino.
Come per il Medioevo, anche per l’Età
moderna due soggetti si contenderanno il
titolo di “imperatore”: quello di
Germania, il Sacro romano imperatore, e
quello di Costantinopoli/Istanbul, il
sultano. Lo stesso fatto che Maometto II
si arrogò il diritto di nominare il
patriarca della capitale è indice del
fatto che vari “atti imperiali” del
basileus vennero trasferiti al nuovo
sovrano, esattamente come il fatto che
nel 1547 il trattato di pace
Asburgo-ottomano fra Carlo V e Solimano
vide il secondo riconoscere al primo il
solo titolo di re spagnolo, ben
testimonia quanto il signore islamico
reputasse essere il solo legittimo
detentore della potestà imperiale, non
solo nella “vecchia” pars orientis,
ma anche in quella occidentis.
Tuttavia, per quanto dominasse
l’avversione verso il monarca musulmano,
non mancarono le voci di chi era, di
contro, propenso a riconoscere la sua
autorità e legittimità, finanche a
vederlo quale possibile pacificatore.
Fra questi Giorgio da Trebisonda il
quale, nonostante al Concilio di
Basilea-Ferrara-Firenze avesse
caldeggiato la causa crociata, esortò
apertamente Maometto II, nel trattato
Sulla verità della fede dei cristiani,
a fondere i due Credi in una grande
sintesi religiosa atta a trovare
l’accordo sia del popolo della Bibbia
che di quello del Corano, fino a
invitare in un’opera successiva, Al
divino Manuele che sarà fra poco Re
dell’Universo, lo stesso sultano a
imporsi come dominatore del mondo con il
nome di Manuele. Non molto diversamente
Nicola Cusano, nel De pace fidei
(scritto poco dopo la caduta di
Bisanzio), esprimeva la possibilità di
scorgere nel cristianesimo e nell’islam
un sostrato comune, per poi approdare,
nella Cribratio Alcorani, alla
tesi che le fedi abramitiche
costituissero una sola religione
universale, e spingeva pertanto il Gran
Turco, quale novello Costantino, a
convertirsi al Credo cristiano.
Similarmente Giorgio Scholaris si
schierò a favore della conciliabilità
fra cristianesimo ortodosso e islam
nella figura del nuovo dominatore di
Costantinopoli, definito dall’umanista
Francesco Fidelfo, con tono adulatorio,
“monarca dei grandi popoli, così grande
e così buono per destino divino”. Ancora
Giovanni da Segovia, nel De mittendo
gladio Divini Spiritus in corda
saracenorum, si faceva
portavoce della necessità di
cristianizzare gli infedeli attraverso
una “crociata pacifica” fondata
sull’analisi e sulla discussione
collaborativa degli assunti fondamentali
delle due religioni.
Tuttavia, l’esempio più sorprendente, ai
limiti dell’incredibile, di voce a
favore di un’apertura verso il sovrano
islamico venne dalla massima autorità
cristiana: il già citato pontefice Pio
II il quale, nel 1461, arrivò a redigere
una lunga e complessa lettera a Maometto
II (per quanto, probabilmente, non
destinata a lui direttamente), l’Epistola
ad Mahometem, in cui lo esortava a
convertirsi e a ergersi a signore della
Cristianità: “Una cosa da niente può
trasformarti nel più grande, più
potente, più illustre di tutti gli
uomini che ora sono in vita. Mi chiedi
cosa? […]Un pochino d’acqua per
battezzarti e adottare i riti cristiani
e credere al Vangelo”.
Controversa era dunque la questione se
riconoscere legittimo il fatto che
“erede di Roma” fosse ora un sovrano
musulmano. Ancora oggi non mancano voci
a favore dell’una e dell’altra
posizione: basti pensare che alcuni
studiosi hanno sottolineato come la vera
fine dell’Impero romano d’Oriente sia
avvenuta solo con la sconfitta di quel
che restava dell’Impero ottomano nella
Prima guerra mondiale, accettando, forse
non a torto, l’idea che la storia della
pars orientis sia continuata
sotto il dominio sultaniale.
Una cosa è lecito ribadire: possiamo
disquisire sul fatto che l’Impero romano
greco-ortodosso sia caduto nel 1453 o
sia continuato in epoca ottomana, mentre
non si può discutere che ancora durante
tutto il Medioevo l’Impero dei Cesari ha
continuato a esistere nelle vesti di
quello che soliamo chiamare Impero
bizantino ma che era, a tutti gli
effetti, ancora l’Impero romano
d’Oriente.
Riferimenti bibliografici:
Cardini F., Musarra A., Il grande
racconto delle crociate., Il Mulino,
Bologna 2019.
D’Ascia L., Il Corano e la tiara.
L’epistola a Maometto II di Enea Silvio
Piccolomini (papa Pio II). Introduzione
ed edizione., Pendragon, Bologna
2001.
Cavina M., Maometto papa e
imperatore., Laterza, Roma-Bari
2018. |