[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

164 / AGOSTO 2021 (CXCV)


medievale

LA CONQUISTA OTTOMANA DI COSTANTINOPOLI

TRAMONTO DELL’IMPERO

di Francesco Biscardi

 

Il 30 maggio 1453 il sultano ottomano Maometto II entrò a cavallo nella conquistata città di Costantinopoli/Bisanzio, capitale di ciò che restava di quello che comunemente chiamiamo Impero bizantino ma che altro non era che l’antica pars orientis dell’Impero romano, come definitivamente scaturita nel 395 alla morte di Teodosio, l’ultimo imperatore in grado di tenere unita la corona imperiale.

 

Questo è un dato di fatto che siamo soliti trascurare: si ripete di continuo che l’evento che segna la fine della storia romana fu la deposizione di Romolo Augustolo da parte dello sciro Odoacre nel 476, enfatizzando un accadimento in realtà di poco conto, dal momento che, di fatto, la centralità di Roma era tramontata da decadi (lo storico Arnaldo Momigliano ha definito quella dell’Occidente una caduta “senza rumore”), e dimenticandoci che la parte orientale dell’Impero, che aveva per capitale Costantinopoli, la “Seconda” o “Nuova Roma” fondata da Costantino, sopravvisse per un altro millennio, fino, appunto, al 1453 (con la parentesi 1204-1261 dell’Impero latino d’Oriente, fondato a seguito degli eventi della IV crociata).

 

Secondo l’ideologia “romea”, della translatio imperii, sostenuta dagli imperatori d’Oriente, i basileis, “Roma” era a Bisanzio e il proprio dominio continuò a chiamarsi per tutto il Medioevo basileia ton romaion, mentre l’autorità imperiale concessa dal papa ai sovrani franco-germanici venne sempre condannata: da Carlomagno agli Ottoni e ai loro successori, il sovrano costantinopolitano considerò sempre illegittime le loro nomine, mentre, in Occidente, il basileus fu sempre più visto come “solo” rex graecorum.

 

È dunque nel 1453 che giunse definitivamente al capolinea la storia di quel che restava dell’Impero romano. Una fine che, alla metà del XV secolo, sembrava ormai scritta, nonostante la decisione presa al Concilio di Firenze del 1438-39 di porre fine allo scisma fra cattolici e ortodossi e di muovere una crociata contro l’avanzata dell’“infedele” islamico.

 

Infatti il basileus Giovanni VIII, subodorando una triste sorte per il suo regno (ormai ridotto a Costantinopoli e al territorio limitrofo), aveva iniziato nel 1437 un viaggio per l’Europa al fine di ottenere l’ausilio dei capi della Cristianità riuniti a Basilea. Sapeva bene quale sarebbe stato il prezzo: la rinuncia della Chiesa greca alla propria indipendenza e la sottomissione incondizionata alla Santa Sede, sebbene fosse conscio che tanto gli ambienti ecclesiastici quanto l’élite economica della sua città avrebbero preferito il dominio sultaniale all’asservimento al pontefice: nota era la relativa tolleranza degli ottomani, che avrebbero almeno concesso al popolo bizantino libertà di culto e di rito, mentre i latini avrebbero cassato ogni autonomia liturgica e religiosa; così in molti stimavano migliore “il turbante turco alla tiara papale”.

 

Tuttavia l’imperatore era pronto a tutto pur di difendere la propria capitale. Il Concilio si spostò da Basilea a Ferrara fino a Firenze e fu qui che, il 6 luglio del 1439, venne proclamata l’agognata unione delle due Chiese cristiane e la fine dello scisma, una volta appianate le non poche divergenze.

 

Purtroppo però le cose nei Balcani stavano precipitando sempre più e l’appello crociato cadde nel vuoto: la Guerra dei Cent’anni non era finita, come la reconquista nella Penisola Iberica, in Italia si era da poco chiuso il conflitto fra angioini e aragonesi per il Regno di Napoli, mentre Genova, Firenze e Venezia intrattenevano buone relazioni commerciali con i turchi che avevano poca intenzione di compromettere, e il giovane re tedesco e “romano”, Federico III, non ancora incoronato imperatore dal papa, era restio a impegnarsi in una missione di soccorso ai sovrani bizantino e ungherese. Accadde così che i popoli balcanici rimasero praticamente soli contro gli ottomani, avviandosi alla rovinosa sconfitta di Varna del 1444, mentre la proclamata unione delle due confessioni andò svanendo.

 

Oltre che dal mancato sostegno occidentale, la fine della Nuova Roma era stata preconizzata da funeste dicerie: una profezia riportava che la sua caduta sarebbe avvenuta sotto un imperatore recante lo stesso nome del suo fondatore, figlio di una donna omonima della madre di questi, mentre un’altra vagheggiava che la città non sarebbe stata presa finché la luna si fosse trovata nella fase crescente. Causa volle che il 24 maggio 1453 era il plenilunio, a cui sarebbe seguita la fase della luna calante, e che basileus fosse Costantino XI e che sua madre si chiamasse Elena, esattamente come la genitrice di Costantino il Grande.

 

Oltre che con queste nefaste previsioni, il neo imperatore aveva a che fare con una turbolenta Chiesa bizantina che ne contestava la legittimità dell’incoronazione, avvenuta non per mano del patriarca, cui spettava tale sanzione, ma in modo “laico” e formale da parte dei delegati della madre a Mistrà, dove si trovava al momento del trapasso del fratello Giovanni VIII (1448). Né questi ricercò l’avallo patriarcale dopo il suo ritorno nella capitale nel 1449, inimicandosi ulteriormente una buona fetta dei sudditi. C’era in realtà un motivo dietro a questa scelta: come il suo predecessore, sapeva bene che l’unica ancora di salvezza andava riposta nel soccorso occidentale e che il beneplacito papale era condizione imprescindibile per la crociata anti-ottomana, mentre la consacrazione ortodossa avrebbe potuto pregiudicare il sostegno di Roma, bramosa della ricongiunzione delle confessioni decisa a Firenze.

 

Tuttavia ogni speranza e ogni flebile sforzo risultò vano: il 29 maggio 1453 le armate ottomane entrarono a Bisanzio, scrivendo la parola fine alla millenaria storia dell’Impero romano d’Oriente (Costantino XI morì nella sua difesa). In quel momento l’Occidente parve come svegliarsi di soprassalto da un lungo sonno, nonostante non si fosse fatto granché per la sua salvezza. Si vide nell’evento l’inizio dell’apocalisse, la prova che l’avanzata dell’infedele fosse ormai inarrestabile. Come chiosò l’umanista Enea Silvio Piccolomini, futuro Pio II, mai la Cristianità aveva perso “una città o un luogo paragonabile a Costantinopoli”.

 

Molto ci sarebbe da dire sulla percezione dei turchi in Occidente e sul successivo sviluppo dell’ideologia crociata, ma preferisco evitare tali argomentazioni per soffermarmi a riflettere su cosa ne fu dell’“eredità romana” di Bisanzio, visto che vari soggetti cercarono di accaparrarsi il diritto di essere i nuovi “Cesari”. Probabilmente, sebbene non accettata dai latini, la voce più celebre che si levò fu quella di Ivan III il Grande, monarca russo che rivendicò per Mosca il ruolo di “Terza Roma” e per sé il titolo di Cesare: czar, dal latino Caesar (titolo che però sarà stabilmente introdotto solo sotto Ivan IV nel secolo seguente).

 

Un altro sovrano che si fece avanti fu proprio colui che aveva scritto la parola fine alla millenaria storia dell’Impero d’Oriente: Maometto II. Il Gran Signore dei Turchi ne aveva già vari di titoli: era sultano (parola di origine araba designante genericamente il detentore del potere), come anche, almeno per i sunniti, califfo, ovvero “successore del profeta di Allah” (khalifat rasul Allah), e “principe dei credenti” (amir al muminin), oltreché originariamente khan, capo tribù, e padiscià (vantandosi erede dei Gran Re persiani). Ora poteva sfoggiare anche quello di Cesare, in quanto padrone della città di Costantino.

 

Come per il Medioevo, anche per l’Età moderna due soggetti si contenderanno il titolo di “imperatore”: quello di Germania, il Sacro romano imperatore, e quello di Costantinopoli/Istanbul, il sultano. Lo stesso fatto che Maometto II si arrogò il diritto di nominare il patriarca della capitale è indice del fatto che vari “atti imperiali” del basileus vennero trasferiti al nuovo sovrano, esattamente come il fatto che nel 1547 il trattato di pace Asburgo-ottomano fra Carlo V e Solimano vide il secondo riconoscere al primo il solo titolo di re spagnolo, ben testimonia quanto il signore islamico reputasse essere il solo legittimo detentore della potestà imperiale, non solo nella “vecchia” pars orientis, ma anche in quella occidentis.

 

Tuttavia, per quanto dominasse l’avversione verso il monarca musulmano, non mancarono le voci di chi era, di contro, propenso a riconoscere la sua autorità e legittimità, finanche a vederlo quale possibile pacificatore.

 

Fra questi Giorgio da Trebisonda il quale, nonostante al Concilio di Basilea-Ferrara-Firenze avesse caldeggiato la causa crociata, esortò apertamente Maometto II, nel trattato Sulla verità della fede dei cristiani, a fondere i due Credi in una grande sintesi religiosa atta a trovare l’accordo sia del popolo della Bibbia che di quello del Corano, fino a invitare in un’opera successiva, Al divino Manuele che sarà fra poco Re dell’Universo, lo stesso sultano a imporsi come dominatore del mondo con il nome di Manuele. Non molto diversamente Nicola Cusano, nel De pace fidei (scritto poco dopo la caduta di Bisanzio), esprimeva la possibilità di scorgere nel cristianesimo e nell’islam un sostrato comune, per poi approdare, nella Cribratio Alcorani, alla tesi che le fedi abramitiche costituissero una sola religione universale, e spingeva pertanto il Gran Turco, quale novello Costantino, a convertirsi al Credo cristiano. Similarmente Giorgio Scholaris si schierò a favore della conciliabilità fra cristianesimo ortodosso e islam nella figura del nuovo dominatore di Costantinopoli, definito dall’umanista Francesco Fidelfo, con tono adulatorio, “monarca dei grandi popoli, così grande e così buono per destino divino”. Ancora Giovanni da Segovia, nel De mittendo gladio Divini Spiritus in corda saracenorum, si faceva portavoce della necessità di cristianizzare gli infedeli attraverso una “crociata pacifica” fondata sull’analisi e sulla discussione collaborativa degli assunti fondamentali delle due religioni.

 

Tuttavia, l’esempio più sorprendente, ai limiti dell’incredibile, di voce a favore di un’apertura verso il sovrano islamico venne dalla massima autorità cristiana: il già citato pontefice Pio II il quale, nel 1461, arrivò a redigere una lunga e complessa lettera a Maometto II (per quanto, probabilmente, non destinata a lui direttamente), l’Epistola ad Mahometem, in cui lo esortava a convertirsi e a ergersi a signore della Cristianità: “Una cosa da niente può trasformarti nel più grande, più potente, più illustre di tutti gli uomini che ora sono in vita. Mi chiedi cosa? […]Un pochino d’acqua per battezzarti e adottare i riti cristiani e credere al Vangelo”.

 

Controversa era dunque la questione se riconoscere legittimo il fatto che “erede di Roma” fosse ora un sovrano musulmano. Ancora oggi non mancano voci a favore dell’una e dell’altra posizione: basti pensare che alcuni studiosi hanno sottolineato come la vera fine dell’Impero romano d’Oriente sia avvenuta solo con la sconfitta di quel che restava dell’Impero ottomano nella Prima guerra mondiale, accettando, forse non a torto, l’idea che la storia della pars orientis sia continuata sotto il dominio sultaniale.

 

Una cosa è lecito ribadire: possiamo disquisire sul fatto che l’Impero romano greco-ortodosso sia caduto nel 1453 o sia continuato in epoca ottomana, mentre non si può discutere che ancora durante tutto il Medioevo l’Impero dei Cesari ha continuato a esistere nelle vesti di quello che soliamo chiamare Impero bizantino ma che era, a tutti gli effetti, ancora l’Impero romano d’Oriente.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Cardini F., Musarra A., Il grande racconto delle crociate., Il Mulino, Bologna 2019.

D’Ascia L., Il Corano e la tiara. L’epistola a Maometto II di Enea Silvio Piccolomini (papa Pio II). Introduzione ed edizione., Pendragon, Bologna 2001.

Cavina M., Maometto papa e imperatore., Laterza, Roma-Bari 2018. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]