N. 29 - Maggio 2010
(LX)
Corsari nel Mediterraneo
La Guerra di Corsa tra il XVI e XIX secolo
di Marco Petrelli
Il
Mediterraneo
per
millenni
è
stato
solcato
da
mercanti,
avventurieri,
flotte
militari
dalla
Siria
alla
Provenza,
dalla
costa
marocchina
a
quella
illirica,
sino
al
Bosforo
e al
contiguo
Mar
Nero.
Il
‘grande
lago’
dai
Dardanelli
a
Gibilterra
ha
visto
fiorire
e
tramontare
civiltà
e
imperi;
esso
è
stato
mezzo
di
diffusione
di
valori
e
religioni,
veicolo
di
conoscenza
tra
i
popoli
rivieraschi,
talvolta
sterminato
muro
fra
l’Europa
Occidentale
e il
mondo
arabo
e
africano.
Dai
tempi
più
remoti,
accanto
ai
traffici
commerciali
tra
una
sponda
e
l’altra
del
Mediterraneo,
si
sviluppò
la
pratica
illecita
della
pirateria,
pratica
sopravvissuta
fino
ai
primi
decenni
del
secolo
XIX.
Cartaginesi,
cilici,
illiri,
vandali,
arabi,
turchi,
genovesi,
spagnoli:
molteplici
i
popoli
che
sono
ricorsi
a
questa
redditizia
attività,
in
taluni
casi
supportata
da
corone
e
potentati,
per
assicurarsi
il
dominio
sui
mari.
Con
l’espansione
araba
dell’Alto
Medio
Evo
si
assistette
ad
una
rapida
nascita
di
flotte
saracene
che,
dalle
basi
nordafricane,
si
scagliano
con
l’effetto
di
una
pestilenza,
sulle
coste
d’Italia
e
della
Provenza.
Note
le
installazioni
saracene
di
Fraxinetum
(nei
pressi
della
odierna
Saint
Tropez)
e di
Ostia,
altrettanto
tristemente
note
le
incursioni
che
dalle
basi
francesi
e
italiche
venivano
compiute
ai
danni
degli
insediamenti
cristiani
dell’entroterra.
Attacchi
dall’effetto
epidemico:
villaggi
svuotati,
prigionieri
incatenati
e
condotti
in
terra
islamica.
Ma
questo
flagello,
che
per
più
di
cinquecento
anni
si
abbatté
sull’Europa
rivierasca,
non
ebbe
termine
nemmeno
con
l’avvento
delle
dinastie
turche
che
abbatterono
e
fagocitarono
l’impero
arabo.
Con
la
conquista
di
Costantinopoli
(1453)
Maometto
II
El
Fatih
(il
Conquistatore)
dovette
fare
i
conti
con
l’elemento
marino.
Espandersi
sul
mare
era
per
i
turchi
una
necessità,
se
avessero
voluto
mantenere
intatto
il
proprio
sogno
di
una
Europa
musulmana.
I
turchi
non
erano
avvezzi
allo
scontro
marittimo,
preferendo
di
gran
lunga
la
battaglia
terrestre.
Ottimi
cavalieri
(erano
originari
delle
sterminate
steppe
dell’Asia),
geniali
strateghi
(loro
l’idea
di
costituire
un
corpo
di
fanteria,
i
Giannizzeri,
con
elementi
cristiani
catturati),
aperti
a
nuove
forme
di
combattimento
(come
l’uso
massiccio
dell’artiglieria
e
della
fanteria
di
marina),
temevano
il
mare
e le
doti
marinare
di
Genova,
Venezia
e
dei
Cavalieri
di
Malta.
Fu
allora
che,
conquistata
l’Africa
settentrionale,
il
Sultano
rivolse
la
sua
attenzione
ai
corsari
barbareschi.
Marinai
provetti,
responsabili
di
feroci
attacchi
alle
comunità
cristiane
dalla
costa
orientale
a
quella
occidentale
del
Mediterraneo,
in
guerra
costante
con
genovesi
e
veneziani,
reclutati
avrebbero
rappresentato
una
sorta
di
salto
di
qualità
nella
strategia
militare
ottomana.
Arrigo
Petacco,
nell’opera
“La
Croce
e la
Mezzaluna”,
sottolinea
l’importanza
dell’elemento
ideologico/religioso
nella
guerra
di
corsa
condotta
dai
barbareschi.
La
jihad
prendeva
dunque
piede
anche
tra
i
flutti,
”giustificando”
a
fini
religiosi
la
pratica
predatoria,
il
saccheggio,
la
riduzione
in
schiavitù
e
l’omicidio.
Inoltre
trasformava
equipaggi
e
navi
in
un
potenziale
bellico
non
indifferente,
capace
di
servire
la
causa
della
Sublime
Porta
in
ogni
spedizione.
Immancabile
l’elemento
economico
nella
scelta
di
sottomettersi
a
Costantinopoli:
titoli,
terre,
legittimizzazione
giuridica
dei
comandanti
di
fronte
alla
autorità
rappresentata
dal
Sultano.
La
“patente”
rilasciata
ai
corsari
era
l’equivalente
della
lettera
di
corsa
diffusa
nel
mondo
occidentale.
La
questione
religiosa,
se
così
la
si
può
definire,
rappresentava
la
differenza
sostanziale
tra
la
corsa
islamica
e
quella
cristiana.
I
cristiani
spagnoli
e
genovesi,
i
veneziani
e
gli
uscocchi
croati
praticavano
scorrerie
fini
al
solo
guadagno.
Non
c’era,
infatti,
una
motivazione,
una
ragione
politica
o di
fede
nell’attaccare
un
naviglio
piuttosto
di
un
altro.
In
alcuni
casi
i
potentati
marittimi
potevano
servirsi
di
alcuni
di
essi
per
recare
danno
e
rovina
ai
propri
rivali;
raramente
nasceva
un’unità
di
intento
nella
guerra
ai
turchi
e ai
loro
alleati
barbareschi.
A
Lepanto
alcuni
reparti
di
fanteria
di
marina
degli
uscocchi
lottarono
per
la
Lega
Santa:
gli
uscocchi,
slavi
riparatisi
all’incalzare
delle
armate
ottomane
sulle
coste
della
attuale
Jugoslavia,
generalmente
erano
dediti
a
colpire
senza
discriminazione.
Non
mancarono,
poi,
le
“empie
alleanze”
con
i
temutissimi
pirati
di
Algeri
e
Tripoli:
Francesco
I di
Francia
cedette,
nel
1536,
a
Solimano
il
Magnifico
la
base
navale
di
Tolone,
avamposto
strategico
per
Barbarossa
e i
suoi
uomini:
Ariadeno
Barbarossa
(Khair
ed
Din),
così
chiamato
in
lingua
cristiana,
poté
approfittarne
per
mettere
al
sacco
la
Liguria
e,
nei
viaggi
di
andata
e
ritorno
da
Tolone
(a
termine
concessione),
procacciare
bottino
anche
in
Toscana,
Lazio
e
Sicilia.
Le
mire
del
re
di
Francia
puntavano
a
indebolire
la
vicina
dinastia
sabauda,
ma
la
permanenza
della
flotta
con
la
mezza
luna
finì
per
essere
ingombrante
e
insidiosa.
Solo
dietro
pagamento
di
lauto
compenso
i
turchi
abbandonarono
Tolone.
Come
in
ogni
guerra
che
si
rispetti
apparvero
nel
Mediterraneo
anche
capitani
e
ordini
destinati
a
diventare
leggende
del
mondo
cristiano:
parliamo
di
Andrea
Doria,
acerrimo
nemico
del
Barbarossa
e di
suo
nipote
Giannettino
che,
appena
ventenne,
mise
“ai
ferri”
il
feroce
Dragut,
luogotenente
di
Khair
ed
Din.
I
Cavalieri
di
Malta,
sorti
come
ordine
ospedaliero
ai
tempi
delle
crociate,
arrivarono
ad
armare
potenti
flotte
capaci
di
contrastare
gli
audaci
marinai
barbareschi
i
quali,
in
più
di
un’occasione,
finivano
a
centinaia
nelle
stive
delle
navi
maltesi,
destinati
sovente
al
remo.
La
fortezza
di
Malta,
dopo
la
capitolazione
di
Rodi
del
1530,
restò
il
simbolo
del
desiderio
di
riscatto
dell’Occidente
allo
smisurato
espansionismo
del
Sultano,
il
simbolo
di
quell’Europa
cristiana
che
non
si
era
arresa.
Il
lungo
assedio
dell’isola
(18
maggio
- 12
settembre
1565),
terminato
con
una
cocente
sconfitta
degli
ottomani,
fu
il
segno
della
riscossa,
ovvero
permise
agli
europei
di
comprendere
che
il
proprio
nemico
non
fosse
poi
così
invincibile
e
invulnerabile.
Pochi
anni
più
tardi,
siamo
nel
1571,
la
flotta
della
Lega
Santa
batté
quella
della
Sublime
Porta
nelle
acque
di
Lepanto.
Le
due
sconfitte
causarono
grande
smacco
al
prestigio
degli
ottomani
i
quali
tentarono,
stavolta
via
terra,
di
conquistare
Vienna,
fallendo
un’ultima
volta
nel
1618.
L’espansionismo
turco
aveva
raggiunto
il
suo
limite
ma,
d’altro
canto,
le
potenze
europee,
seppure
galvanizzate,
non
seppero
organizzare
una
campagna
militare
risolutiva.
Le
profonde
fratture
religiose
e
politiche
del
continente
europeo
finirono
per
avere
il
sopravvento.
Le
scorrerie
nel
Mediterraneo
proseguirono
anche
dopo
Lepanto,
ricevendo
tuttavia
una
serie
di
colpi
molto
duri
che
ne
indebolirono
notevolmente
la
supremazia
sulle
acque.
Fattori
della
decadenza
furono,
sicuramente,
lo
spostamento
dell’asse
dei
traffici
commerciali
nell’Oceano
Atlantico
e le
nuove
rotte
solcate
dai
commercianti
per
rifornire
il
vecchio
continente,
che
tolsero
occasioni
di
ricchezza
e
bottino
alle
squadre
navali
di
Algeri
e
Tripoli.
Non
secondari,
poi,
gli
attacchi
condotti
dalla
Spagna
direttamente
sul
territorio
nordafricano
(vedi
la
conquista
di
Orano
del
1732);
infine
il
tramonto
dell’epoca
delle
galee
e il
sorgere
della
più
moderna
marineria
militare,
con
vascelli
a
vela
meglio
armati
ed
estremamente
più
maneggevoli
e
letali.
Nel
suo
Corsari.
Guerra,
schiavi
e
rinnegati
nel
Mediterraneo,
Marco
Lenci
afferma
che,
finite
le
scorte
di
legno
per
la
realizzazione
delle
navi,
mancando
anche
di
altre
materie
prime
per
l’armamento
degli
scafi,
i
barbareschi
si
ridussero
a
rifornirsi
dai
mercanti
francesi
e
italiani,
investendo
ingenti
somme
di
denaro
e
scivolando
in
una
rovinosa
condizione
di
dipendenza
dall’estero.
Certo
è
che
l’orgoglio
e il
desiderio
di
riscatto
non
abbandonò
mai
i
bey:
contro
gli
Stati
Uniti,
(la
cui
marina
mercantile
tra
la
fine
del
XVIII
e
gli
inizi
del
XIX
secolo
cominciò
a
solcare
il
Mediterraneo),
due
guerre
culminate,
nel
1815,
con
la
capitolazione
e lo
sbarco
dei
Marines
a
Tripoli.
Poi
il
rovinoso
affondamento
della
flotta
ad
opera
della
Royal
Navy
nel
1816.
Nel
1825
una
spedizione
piemontese
guidata
da
Giorgio
Giovanni
Mameli,
padre
di
Goffredo,
annientò
l’ultima
base
corsara,
in
Libia.
L’Algeri
che
fu
del
Barbarossa
divenne
francese
nel
1830,
ritrovando
l’indipendenza
solo
120
anni
più
tardi.
Tripoli,
sul
cui
lungomare
oggi
domina
una
statua
di
Dragut,
cadde
in
mani
italiane
nel
1911.
Ironica
fine
per
una
delle
installazioni
piratesche
più
importanti,
dalla
quale
erano
partite
le
incursioni
che
pochi
secoli
prima
avevano
decimato
le
coste
di
mezza
Italia.
Dell’epopea
barbaresca
restano
oggi
tracce
nell’architettura
militare
delle
coste,
nei
monumenti,
negli
ex
voto
in
antiche
chiese,
su
alcuni
stemmi
e
bandiere.
E
nell’inno
dei
Marines:
“From
the
Halls
of
Montezuma
To
the
shores
of
Tripoli
[…]”.