N. 5 - Maggio 2008
(XXXVI)
La
corsa rosa
pedalate nella leggenda
di Simone Valtieri
La storia del più celebre giro ciclistico italiano
va di pari passo con quella del più diffuso
quotidiano sportivo della penisola: La Gazzetta
dello Sport. Era il 2 aprile 1896 quando sulla
prima pagina del nuovo giornale, nato dalla fusione
di due diffusi cartacei dell’epoca, “Il Ciclista” e
“La Tripletta”, si può leggere in un riquadro il
bando di adesione ad una corsa ciclistica
organizzata dal giornale stesso, la
Milano-Monza-Lecco-Erba. In linea con quello che
accadeva negli altri paesi d’Europa, dove molti
eventi sportivi erano allestiti e finanziati
dall’editoria, questo nuovo giornale dalla carta
verdina, già nel suo giorno di nascita si presentava
ai lettori organizzando un evento ciclistico.
Anno 1908. Cinque anni prima in Francia, era nato un
grosso giro ciclistico a tappe, il Tour de France.
In Italia si disputavano da poco tempo due classiche che
sarebbero poi entrate nella leggenda, la
Milano-Sanremo e il Giro di Lombardia. Nelle stanze
della redazione della Gazzetta, che vestiva il
suo tradizionale colore rosa da ormai nove anni, si
discuteva febbrilmente di un evento analogo al Tour
da organizzare tra i meravigliosi paesaggi italiani. A
propugnare l’idea era stato Armando Cougnet, amante e
amatore delle due ruote, che lavorava al giornale da
quando, giovanissimo, ne era entrato a far parte dieci
anni prima. E’ sua l’idea che vede la luce il 24 agosto,
quando nella prima pagina del quotidiano (in realtà
allora era un periodico, poiché usciva tre volte a
settimana) campeggia una mappa dello stivale con
un’ipotesi di percorso sotto la scritta “Il Giro
d’Italia”. Milano, Bologna, Chieti, Napoli, Roma,
Firenze, Genova, Torino e ancora Milano. Questo
l’itinerario del primo Giro d’Italia. Otto tappe dalla
lunghezza disumana complessiva di 2448 chilometri, che
alternava giorni di gara a inevitabili giorni di riposo.
La storia del fortunato patrocinio, iniziato quasi cento
anni fa, nasconde un curioso aneddoto e la mitica maglia
rosa, che oggi veste i vincitori ispirandosi al colore
delle pagine della Gazzetta, sarebbe potuta
essere di un altro colore se non fosse stato per il
tempismo di un dirigente del tempo, Tullio Morgani. La
chiave è in un telegramma che egli spedì in fretta e
furia ad Armando Cougnet e ad Eugenio Castamagna, allora
direttore della Rosea. “Improrogabili necessità
obbligano Gazzetta lanciare subito Giro d’Italia”,
questo il testo. La fretta è presto spiegata, bisognava
battere sul tempo i concorrenti del Corriere della
Sera, che avevano in rampa di lancio un’analoga
iniziativa, dopo aver da poco patrocinato con successo
un giro automobilistico. Così il 7 agosto, solo due
giorni dopo quel telegramma, la Gazzetta esce con
un titolo a sette colonne in cui annuncia l’evento.
Il 13 maggio 1909, alle 2.53 del mattino, da Piazzale
Loreto a Milano, partono i 127 temerari iscritti.
Affronteranno strade sterrate per centinaia di
chilometri in sella a velocipedi pesanti molto più delle
odierne leggerissime biciclette in carbonio. A trionfare
sarà Luigi Ganna, baffuto muratore varesino, primo dei
49 “superstiti”, che precede, in una graduatoria allora
calcolata a punti, i connazionali Carlo Galletti e
Giovanni Rossignoli. In realtà se fin dagli albori la
classifica fosse stata stilata tenendo conto della somma
dei tempi nelle varie frazioni il vincitore sarebbe
stato proprio quest’ultimo dopo più di 89 ore in sella.
In queste pionieristiche edizioni il Giro si presentava
in maniera ben diversa da quello che è oggi. Le
informazioni sulla corsa arrivavano con dispacci
telegrafici che venivano appesi sulle vetrine di un
locale milanese e solo i più abbienti potevano
informarsi via telefono chiamando il 3368. Alla partenza
del primo Giro vennero fotografati tutti i corridori per
evitare dubbi sulla loro identità e per prevenire
possibili imbrogli. Al seguito della corsa erano
presenti solo otto autovetture, tra squadre,
organizzazione, giuria e giornalisti. Al vincitore Luigi
Ganna venne assegnato un premio di 5325 lire, pari a
circa 17 mila euro odierni, all’ultimo 300 lire, poco
meno di mille euro, comunque più del doppio di quanto al
tempo guadagnava il direttore di allora della
Gazzetta dello Sport, Eugenio Camillo Castamagna.
Nel 1912 il milanese Carlo Galetti avrebbe vinto il suo
terzo Giro d’Italia, se questo non si fosse disputato a
squadre, unico nella storia. Vinse l’Atala davanti al
team Peugeot e alla Gerbi. Nel 1914, prima della pausa
forzata a causa della Grande Guerra, in quella che
passerà alla storia come la più lunga tappa mai
disputata, si affermò uno dei primi campioni della
storia del ciclismo: Costante Girardengo. 430 chilometri
tra Lucca e Roma percorsi in 17 ore e mezza dal
vincitore. Di due anni prima la tappa che è durata di
più: il 19 maggio 1912 Giovanni Micheletto impiegò quasi
ventisette ore per terminare i 398 chilometri e 800
metri che separano Milano da Padova.
Anno 1922. Le tappe si sono leggermente accorciate e i
giorni di riposo tra l’una e l’altra sono scesi da due a
uno. Già nella prima tappa si decide la corsa, in quanto
Giovanni Brunero viene sorpreso a sostituire una ruota
in maniera irregolare. Di fronte alla richiesta di
estromissione rigettata dalla giuria, che sanziona con
“soli” 25 minuti di penalità Brunero, le altre squadre
in corsa, la Maino e la Bianchi, decidono di ritirarsi.
La Legnano prosegue da sola e vede così l’affermazione
del suo campione davanti ai compagni di squadra
Bartolomeo Aymo e Giuseppe Enrici, quest’ultimo
vincitore assoluto due anni più tardi. Sono del 1923 i
primi filmati del Giro che giungono ai giorni nostri,
senza sonoro e in bianco e nero, i cinematografi
dell’epoca riprendono tutti gli arrivi dell’undicesima
edizione del Giro, che vede trionfare Costante
Girardengo. Solo pochi anni più tardi, negli anni
Trenta, il Giro sbarca di prepotenza anche nei
cinegiornali dell’epoca, che dedicano sempre più spazio
all’evento.
L’edizione del 1924 passa alla storia per diversi
motivi. Principalmente per il boicottaggio, avvenuto per
ragioni ancora poco chiare, di tutti i migliori ciclisti
dell’epoca, che spalanca le porte del Giro agli amatori.
Tra questi un’allora sconosciuto Ottavio Bottecchia, che
vincerà quell’anno e l’anno dopo il Tour de France.
Celebre l’impresa di Alfonsina Strada, prima donna a
prendere parte alla competizione in gara con i maschi. A
causa di vari inconvenienti e cadute finirà fuori tempo
massimo, ma deciderà di nonostante tutto di arrivare
fino alla fine disputando le ultime tappe senza numero e
raggiungerà Milano tra gli applausi della folla.
Gli anni Venti sono anche gli anni del primo cannibale
della storia del ciclismo: Alfredo Binda. Dopo aver
dominato quattro edizioni della manifestazione, dal 1925
al 1929, fu estromesso per manifesta superiorità nel
1930. Al “trombettiere di Cittiglio” venne pagato il
premio che spettava al vincitore, 22.500 lire (circa
17mila euro), per non fargli correre quell’edizione,
dato che la sua tirannia sportiva aveva reso prive di
interesse le ultime edizioni del Giro. Nel frattempo,
mentre Marchisio e Giacobbe si disputavano il giro,
Alfredo Binda partecipava a varie corse in Europa
raddoppiando i suoi introiti monetari.
Nel 1931 viene per la prima volta istituita la storica
maglia rosa, per via del colore che distingueva il
giornale organizzatore, con lo scopo di rendere più
facile identificare nel gruppo il primo in classifica.
Divenne il simbolo di questa corsa, ambita e sognata da
ogni suo partecipante, e indossarla, seppure per un
giorno, significava entrare di diritto nella storia del
ciclismo. Il primo ad indossarla fu Learco Guerra, che
vinse la tappa inaugurale di quell’edizione.
Siamo nel 1933 quando viene istituito un altro trofeo
simbolo del giro, quello che premia i migliori
scalatori. Vennero assegnati quell’anno quattro Gran
Premi della Montagna, che aggiudicavano punti per una
speciale classifica ai primi corridori che transitavano
in cima alle più impervie salite. Il primo a vincere
questa classifica fu Alfredo Binda. Solo quaranta anni
dopo venne deciso che il primo in questa graduatoria
dovesse indossare una maglia di colore verde. Altre
maglie storiche istituite furono quella rossa nel 1966
per identificare il vincitore della classifica a punti,
che divenne color ciclamino appena quattro anni più
tardi, la maglia azzurra per l’Intergiro, ossia un
traguardo intermedio presente in ogni tappa, e quella
bianca, per il miglior giovane, maglia destituita nel
1994 ma riassegnata poi dal 2006.
Una menzione particolare merita la maglia nera, che
contraddistingueva l’ultimo corridore in classifica e
che spesso era oggetto di disputa agguerrita ancora più
di quella rosa. Noti i casi di corridori che si
attardavano forando appositamente le proprie stesse
ruote o che si nascondevano in bar e fienili con lo
scopo di perdere tempo, per poi sbucare alle spalle del
gruppo sul finire della tappa. La conquista di questa
maglia non era affatto facile in quanto bisognava
arrivare comunque entro un tempo massimo definito per
ogni tappa. Sono passate alla storia le celebri sfide
tra Sante Carollo e Luigi Malabrocca negli anni Quaranta
per aggiudicarsi l’ambito simbolo nonché il cospicuo
premio in denaro ad esso collegato. La maglia fu
definitivamente dismessa nel 1979, dall’edizione 2008 è
però prevista un’analoga istituzione, quella del numero
nero.
Tornando alle cronache, il 1933 sarà ricordato anche per
l’introduzione di alcune tradizioni e tipologie di
competizione in auge ancora oggi. Nasce ad esempio la
carovana pubblicitaria, con lo scopo di intrattenere il
pubblico delle città di arrivo e di partenza di ogni
tappa, con spettacoli ed esibizioni. Nasce altresì una
tipologia diventata decisiva nei grandi giri a tappe
soprattutto degli ultimi decenni, la corsa a cronometro.
“Signori corridori, fate il vostro gioco: ognuno per sé,
e contro tutti” scriverà la Rosea sul numero uscito il
giorno della Bologna-Ferrara, 62 chilometri da soli
contro il tempo. A vincere, neanche a dirlo, sarà ancora
Alfredo Binda, che chiuderà la carriera con 41 vittorie
di tappa al Giro, record battuto solamente nel 2003 dal
velocista Mario Cipollini.
Nel 1935 si fa notare un ventunenne di Ponte a Ema, che
domina il Gran Premio della Montagna e conclude settimo
in graduatoria. Il suo nome è Gino Bartali. L’anno
successivo il giovanissimo fiorentino vince il suo primo
Giro d’Italia staccando di oltre due minuti il secondo
classificato Giovanni Olmo. Quest’ultimo passerà alla
storia tra l’altro per aver conquistato la prima
cronoscalata della storia, vincendo la
Rieti-Terminillo ad una media di quasi 22 chilometri
all’ora. Gino Bartali si ripete l’anno successivo nella
novità di un arrivo al nuovissimo Velodromo Vigorelli,
inaugurato per l’occasione. Sembra che nessuno possa
scalfire il dominio dello scalatore toscano, ma la
storia ci regala in quegli anni la comparsa sulle strade
di un altro di quei campioni che segnerà per sempre la
storia del ciclismo: Fausto Coppi
Per circa quindici anni, purtroppo intervallati dalla
seconda guerra mondiale, il dualismo Bartali-Coppi
dividerà l’Italia del tifo e porterà il Giro al periodo
del suo massimo splendore. Fausto Coppi, o “il
Campionissimo”. Colui che sulle strade del Giro entrerà
nella storia e sulle strade della vita troverà una
sfortunata morte che lo farà entrare nella leggenda
dello sport. Nel 1940 Fausto Coppi vince il suo giro
d’esordio correndo nella stessa squadra di Gino Bartali,
nello stesso giorno ricordato dalla storia per l’entrata
in guerra dell’Italia: il 10 giugno 1940. Il conflitto
sottrarrà alla storia cinque anni di giro e di possibili
epici duelli tra i due protagonisti del periodo.
Nel 1947 grazie a Radio Rai, che porta milioni di
italiani a seguire in diretta le cronache delle tappe,
la corsa rosa acquista ancora maggior visibilità e
popolarità e il duello tra i due leggendari campioni
appassiona e divide tutta la penisola. A spuntarla in
quell’anno è il giovane Fausto, che stacca il pratese
Fiorenzo Magni di oltre quattro minuti nel tappone di
montagna Pieve di Cadore-Trento e vince il giro con
1’43” su Gino Bartali, vendicandosi dell’anno precedente
in cui a spuntarla era stato il “toscanaccio”. Fiorenzo
Magni vincerà poi l’edizione dell’anno successivo con lo
scarto minimo di undici secondi su Ezio Cecchi. ma sarà
quella del 1949 l’edizione in cui Coppi celebrerà la sua
più grande impresa.
Ancora un 10 giugno. In programma ci sono 254 chilometri
di tappa da Cuneo a Pinerolo. Da scalare gli impervi
colli della Maddalena, del Vars, dell’Izoard, il
Monginevro e il Sestriere. La maglia rosa la indossa un
velocista, Adolfo Leoni. A metà della prima salita
Bartali si stacca, mancano ancora più di 190 chilometri
all’arrivo. Lo storico telecronista Rai, Mario Ferretti,
annuncia via radio: “Un uomo solo al comando, la sua
maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi”. La
tappa sarà dominata dal corridore di Castellania, in
provincia di Alessandria, con quasi dodici minuti di
vantaggio su Bartali, al terzo posto Magni. Poco più di
un mese dopo Coppi si aggiudicherà anche il Tour,
sarà il primo nella storia a riuscirci e bisserà la
doppietta anche nel 1952. Dopo di lui solamente grandi
campioni come Anquetil, Merckx, Hinault, Roche, Indurain
e Pantani riusciranno nell’impresa.
Il 49’ è l’anno della clamorosa affermazione al Tour de
France, dove recupererà un ritardo di 36 minuti persi
per un inconveniente tecnico in una tappa alpina, e
risorgerà grazie anche a Bartali, trionfando sugli
Champs Elisées, impresa che da sola meriterebbe la
narrazione di cento libri. A causa di infortuni e
vicissitudini, non riuscirà ad affermarsi nei due giri
successivi ma nel 1952, come detto, riconquisterà maglia
rosa e maglia gialla in un solo anno. Nella
Venezia-Bolzano, Coppi distanzia Bartali e Magni
assicurandosi il primo gradino del podio.
Il 1950 è l’anno del primo straniero vincitore, il
fortissimo svizzero Hugo Koblet, corridore noto oltre
che per le sue vittorie, anche per il celebre pettinino
con cui, durante la corsa, si ravviava i capelli.
Contese agli italiani i primi giri degli anni Cinquanta
battendo Bartali nel 1950 e perdendo da Coppi e Clerici
nel 1953 e 1954. Proprio il 1953 fu l’anno dell’ultima
affermazione di Coppi, che due anni dopo giunse secondo
alle spalle del pratese Magni, e del debutto della prima
diretta televisiva.
Nelle pagine della storia del giro entra anche il belga
Rik Van Steenbergen, che ebbe più fortuna all’estero e
che nel 1954 portò a termine vittorioso sul traguardo di
Napoli una fuga di ben 239 chilometri, ancora oggi
record storico. Sempre al Giro del 1954 è legato un
altro interessante aneddoto. Carlo Clerici,
semisconosciuto italiano naturalizzato svizzero,
gregario di Koblet, va in fuga durante la sesta tappa e
guadagna 34 minuti sul gruppo. Nei giorni seguenti i
corridori, sfiduciati dall’enorme svantaggio, rinunciano
ad attaccare e si prendono persino gli insulti del
pubblico che arriva anche a scioperare durante la
penultima tappa. Gli anni tra i Cinquanta e i Sessanta
segnano la fine del predominio italiano nell’albo d’oro
e l’apertura del giro alle affermazioni di campioni
stranieri come Koblet, Clerici, Gaul, Anquetil e
Balmamion.
La tappa del Monte Bondone nel 1956 passerà alla storia
con l’infernale appellativo di “dantesca”. Una tempesta
di neve rende impossibile l’ascesa di molti corridori,
che rinunciano alle soglie dell’assiderazione. A
spuntarla dopo nove ore nella bufera sarà il
lussemburghese Charly Gaul grazie anche a due mastelli
di acqua calda preparati dal suo dirigente Learco
Guerra, in cui si immerse per evitare il congelamento.
Nella stessa tappa ancora più stoica è l’impresa di
Magni, l’immortale “terzo uomo”, capace di affermarsi in
tre giri durante gli anni di Coppi e Bartali, che con
una spalla fratturata arrivò al traguardo neanche troppo
staccato tenendo il manubrio con i denti attraverso un
sistema di lacci.
Gli anni Sessanta si aprono all’insegna del normanno
Jacques Anquetil. Autore di sfide celebri con Gaul, il
francese vincerà nel 1960 e nel 1964 abbinando al Giro
in quest’ultima edizione anche il Tour ed eguagliando il
suo maestro Coppi. Fausto dirà di lui: “Per fortuna
quello lì è nato molto dopo di me, altrimenti sarebbero
stati guai seri. A cronometro va come un treno”.
Elegante e veloce, si diceva di lui che per quanto fosse
composto in sella durante le cronometro, si poteva
mettere un bicchiere colmo d’acqua sulla sua schiena e
non sarebbe caduto.
Nel 1963 nasce il Processo alla Tappa, storica
trasmissione televisiva condotta da Sergio Zavoli, che
giunge sostanzialmente intatta nella struttura fino ai
giorni nostri. E uno dei campioni più celebri a sedere
negli studi allestiti nelle città di arrivo di ogni
tappa e a rispondere alle domande del conduttore sarà
Eddy Merckx, anche conosciuto come “il Cannibale”. Nella
sua carriera il belga vincerà oltre 445 corse, lasciando
le briciole agli avversari. Il suo soprannome nasce
durante il Giro del 1968, quando si impone in tutte e
quattro le classifiche ufficiali senza mai fermarsi.
Vincerà anche nel 1970, 1971, 1973 e 1974, accompagnando
in tre casi la vittoria con quella al Tour de France.
Terminerà la sua esperienza nel Giro dopo ben 77 maglie
rose indossate e 26 vittorie di tappa.
A cercare di intaccare il dominio del cannibale belga in
quegli anni ci provano alcuni bravissimi italiani, come
Felice Gimondi, Vittorio Adorni e Gianbattista
Baronchelli. Gimondi partecipa ininterrottamente al Giro
d’Italia dal 1965 al 1978, concludendo tutte e
quattordici le edizioni e vincendo nel 1967, nel 1969 e
nel 1976. Grande amico di Mercks, trionfa nel 1967
imponendosi sulle Tre Cime del Lavaredo (vittoria poi
toltagli dalla giuria per spinte tra corridori), in una
edizione storica che vede al via per l’ultima volta
Jacques Anquetil e per la prima Eddy Merckx. Nel 1976 al
suo ultimo giro vince grazie a una splendida volata su
Merckx e Baronchelli nella tappa di Bergamo e poi
indossa la maglia rosa nell’ultima cronometro per soli
19 secondi ai danni del belga De Muynck.
Gli anni Ottanta sono quelli di Giuseppe Saronni e di
Francesco Moser. Saronni vince il suo primo Giro alla
tenera età di 21 anni, più giovani di lui nella storia
solo in due, Fausto Coppi e Luigi Marchisio. Nel 1983
impiegherà 100 ore e 45 minuti a percorrere i 3922
chilometri totali del percorso, alla medie record di
quasi 39 chilometri orari, il giro più veloce della
storia. Francesco Moser strabilierà il mondo nel 1984,
quando vincerà il suo primo Giro dopo tanti piazzamenti,
ma soprattutto stabilirà, trentaquattrenne e dodici anni
dopo Merckx, il record dell’ora a Città del Messico.
Quel decennio fu anche quello del bretone Bernard
Hinault, anche conosciuto come ”Monsieur Blaireau”.
Cinque Tour de France e Tre Giri d’Italia, il
bottino più ricco del dopo Merckx. Accoppia Giro e Tour
nel 1982 e nel 1985. Debutta al Giro d’Italia del 1980 e
vince subito staccando tutti a tre tappe dalla fine a
Cles e lasciando poi vincere sul traguardo il suo
gregario Bernaudeau. Dietro di lui nella classifica
generale arriva Wladimiro Panizza, il fedelissimo del
Giro con diciotto partecipazioni. Hinault si ripete nel
1982 con l’appoggio del giovane compagno Laurent Fignon,
poi vincitore del Giro sette anni più tardi, e vince sul
Monte Campione strappando la maglia rosa a Silvano
Contini. Nel 1985 la spunta dopo un memorabile duello
con Moser. Decisiva la cronometro di Maddaloni e l’aiuto
del suo scudiero, l’americano Greg Lemond, terzo
all’arrivo e da cui, per una storia di gelosie e
invidie, si farà strappare la sesta affermazione in un
Tour nel 1986.
Alcuni ottimi ciclisti si alterneranno sul podio del
Giro negli anni seguenti: Visentini, Roche (che vince il
Tour nello stesso anno, il 1987), Hampsten, Fignon,
Bugno, Chioccioli, prima che la corsa Rosa ritrovi un
altro dominatore nel navarro Miguel Indurain. Il 1990 è
però l’anno di Gianni Bugno, che si afferma alla
Milano-Sanremo, al Giro e al Mondiale. Il monzese, nato
in Svizzera, domina quel Giro vincendo il cronoprologo e
tenendo la maglia per tutte e ventidue le tappe. Nascerà
una rivalità con un altro italiano, Claudio Chiappucci
detto “El Diablo” e successivamente con Miguel Indurain.
In quel Giro l’ultimo ad arrendersi all’incontenibile
Gianni Bugno fu il francese Charly Mottet, a cui il
monzese cede la vittoria sul Pordoi dopo una fuga e a
risultato acquisito, non senza mugugni da parte dei
tifosi. Ma Gianni vincerà pochi giorni dopo la impervia
cronometro da Gallarate a Varese, sotto il diluvio,
raccontando a fine tappa che gli sembrava “di pedalare
in una giornata di sole”. In quell’anno vince due tappe
il giovane velocista Mario Cipollini, le prime due di
una striscia vincente che lo porterà il “Re Leone” nel
2003, nella tappa di Montecatini Terme, a superare Binda
per numero di vittorie assolute: 42.
Il dominatore del ciclismo mondiale nei primi anni
Novanta è Miguel Indurain. Imbattibile a cronometro, un
computer in montagna dove imponeva ritmi insostenibili.
In cinque anni vince cinque Tour e due Giri, le
accoppiate nel 1992 e 1993. A contrastarlo sia sulle
strade italiane che francesi ci prova l’eterno secondo
Claudio Chiappucci, senza però avere successo. Troppo
era la differenza tra Miguel e i suoi contendenti a
cronometro, dove vincerà la maggior parte dei giri a
tappe nel suo carniere.
Ad eclissare la stella Indurain nel 1994 ci pensa un
giovane russo, Evgeni Berzin, vincitore della classifica
finale, e soprattutto un giovanissimo e già calvo Marco
Pantani. Berzin a cronometro e Pantani in salita si
dimostrano più forti dello spagnolo che non correrà mai
più un Giro d’Italia, e si concentrerà sul Tour, dove i
chilometri a cronometro sono maggiori rispetto al Giro.
Marco Pantani. Lo sfortunatissimo campione di Cesenatico
vede la sua carriera costellata da infortuni, ma scrive
pagine memorabili nella storia del ciclismo in quei
pochi periodi tranquilli che la dea bendata gli concede.
In montagna era dai tempi di Charly Gaul che non si
vedeva un ciclista andare così forte, si guadagna prima
il soprannome di “Elefantino”, per via delle orecchie
sporgenti, e poi, definitivamente, quello di “Pirata”, a
causa della bandana che indossava in salita. Il 14
febbraio 1994, il compagno di squadra di Chiappucci
domina a Merano, riprendendo in salita uno dopo l’altro
il suo caposquadra, lo svizzero Pascal Richard, e Gianni
Bugno. Il giorno dopo si ripete all’Aprica e sul
Mortirolo umilia Indurain. Arriverà secondo, perdendo
troppi minuti a cronometro, anche a causa dei suoi pochi
chili di peso.
Pantani resterà fermo a causa di incidenti per lunghi
periodi nel 1995 e nel 1996, ma nel 1998 sarà l’anno
della leggenda, con la vittoria su un ostico russo,
Pavel Tonkov, già vincitore del Giro del 1996. Nel
cronoprologo in terra francese a Nizza, perde 39 secondi
in soli sette chilometri. A Piancavallo vince, ma a
cronometro perde minuti su minuti dai suoi rivali. In
montagna Pantani domina sulla Marmolada, lasciando la
vittoria a Beppe Guerini, e poi il giorno dopo arriva
insieme a Tonkov a Pampeago. La sfida decisiva è a
Montecampione, quando il russo resiste a una serie
infinita di attacchi di Marco, ma alla fine è costretto
a cedere di schianto. E’ la sua prima vittoria al Giro,
conquisterà in maniera leggendaria anche il Tour de
France grazie a una pazzesca impresa a Les Deux Alpes.
L’anno dopo inizierà il declino, vittima di un valore di
ematocrito troppo alto nella tappa di Madonna di
Campiglio mentre si apprestava a conquistare il suo
secondo Giro consecutivo. Il suo carattere fragile in
antitesi alla forza che aveva sui pedali lo porterà alla
misteriosa morte in una stanza di un albergo a Rimini,
avvenuta, ironia della sorte, il 14 febbraio 2004, a
dieci anni esatti dalla sua esplosione come corridore.
Gli ultimi dieci anni della corsa rosa sono stati un
monologo di corridori italiani. Ivan Gotti, ottimo
scalatore, che aveva già vinto nel 1997, si ritrova tra
le mani la vittoria del Giro del 1999 a causa della
squalifica di Marco Pantani e in un podio tricolore gli
fanno compagnia anche Paolo Savoldelli e Gilberto Simoni,
due dei futuri vincitori del Giro. Il “falco” Savoldelli
si imporrà nel 2002 e nel 2005 grazie alla sua atipica
caratteristica di andare più forte di tutti in discesa.
Gilberto Simoni è l’emblema del combattente, che
guadagna podi su podi, vincendo tappe di montagna e non
arrendendosi all’età. Sul Pordoi e sul Mottarone
guadagnerà il suo primo Giro nel 2001 e si confermerà
nel 2003 staccando il secondo, Stefano Garzelli, già
vincitore nel 2000, di oltre otto minuti. Nel 2004 a
vincere sarà un giovane compagno di squadra di Simoni,
Damiano Cunego, che approfittando del suo ruolo di
outsider, piazzerà una fuga solitaria a Falzes
guadagnando oltre tre minuti su Simoni e Gontchar e
limiterà i danni a cronometro trionfando al Giro a soli
22 anni. Nel 2006 sarà la volta di Ivan Basso, che non
potrà difendere la maglia rosa l’anno successivo a causa
del suo coinvolgimento in uno scandalo doping, costretto
a scontare due anni di squalifica, così come il
vincitore del giro del 2007, l’abruzzese Danilo Di Luca
(il più meridionale di sempre ad affermarsi nella corsa
rosa), che però è stato scagionato dalle accuse il 18
aprile 2008.
La corsa rosa, che giunge nel 2008 al suo
novantanovesimo anno di vita, ha passato nell’ultimo
decennio il periodo più difficile della sua storia,
costretta a confrontarsi con lo spettro di uno sport
infettato dal doping ed esposto, più di tanti altri,
alla spietata gogna mediatica. Innumerevoli sono stati i
casi di campioni smascherati o reo confessi. Una pagina
nera della storia di una disciplina, che soprattutto in
Italia è stata nei suoi anni d’oro tra le poche ad
insidiare per popolarità, calore e seguito, il calcio.
La notizia dell’assoluzione di Danilo Di Luca, ha fatto
sì che uno spiraglio di luce si aprisse tra le nuvole
che si erano addensate sopra il mondo della bicicletta.
La speranza è che grazie a politiche di prevenzione e di
responsabilizzazione, ma anche a severe prese di
posizione di tutte le parti in causa (squadre,
corridori, federazioni nazionali e internazionale) si
arrivi un giorno a rischiarare definitivamente le ombre
calate su questo massacrante e nobile sport. |