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STORIA & SPORT


N. 5 - Maggio 2008 (XXXVI)

La corsa rosa

pedalate nella leggenda

di Simone Valtieri

 

La storia del più celebre giro ciclistico italiano va di pari passo con quella del più diffuso quotidiano sportivo della penisola: La Gazzetta dello Sport. Era il 2 aprile 1896 quando sulla prima pagina del nuovo giornale, nato dalla fusione di due diffusi cartacei dell’epoca, “Il Ciclista” e “La Tripletta”, si può leggere in un riquadro il bando di adesione ad una corsa ciclistica organizzata dal giornale stesso, la Milano-Monza-Lecco-Erba. In linea con quello che accadeva negli altri paesi d’Europa, dove molti eventi sportivi erano allestiti e finanziati dall’editoria, questo nuovo giornale dalla carta verdina, già nel suo giorno di nascita si presentava ai lettori organizzando un evento ciclistico.

 

Anno 1908. Cinque anni prima in Francia, era nato un grosso giro ciclistico a tappe, il Tour de France. In Italia si disputavano da poco tempo due classiche che sarebbero poi entrate nella leggenda, la Milano-Sanremo e il Giro di Lombardia. Nelle stanze della redazione della Gazzetta, che vestiva il suo tradizionale colore rosa da ormai nove anni, si discuteva febbrilmente di un evento analogo al Tour da organizzare tra i meravigliosi paesaggi italiani. A propugnare l’idea era stato Armando Cougnet, amante e amatore delle due ruote, che lavorava al giornale da quando, giovanissimo, ne era entrato a far parte dieci anni prima. E’ sua l’idea che vede la luce il 24 agosto, quando nella prima pagina del quotidiano (in realtà allora era un periodico, poiché usciva tre volte a settimana) campeggia una mappa dello stivale con un’ipotesi di percorso sotto la scritta “Il Giro d’Italia”. Milano, Bologna, Chieti, Napoli, Roma, Firenze, Genova, Torino e ancora Milano. Questo l’itinerario del primo Giro d’Italia. Otto tappe dalla lunghezza disumana complessiva di 2448 chilometri, che alternava giorni di gara a inevitabili giorni di riposo.

 

La storia del fortunato patrocinio, iniziato quasi cento anni fa, nasconde un curioso aneddoto e la mitica maglia rosa, che oggi veste i vincitori ispirandosi al colore delle pagine della Gazzetta, sarebbe potuta essere di un altro colore se non fosse stato per il tempismo di un dirigente del tempo, Tullio Morgani. La chiave è in un telegramma che egli spedì in fretta e furia ad Armando Cougnet e ad Eugenio Castamagna, allora direttore della Rosea. “Improrogabili necessità obbligano Gazzetta lanciare subito Giro d’Italia”, questo il testo. La fretta è presto spiegata, bisognava battere sul tempo i concorrenti del Corriere della Sera, che avevano in rampa di lancio un’analoga iniziativa, dopo aver da poco patrocinato con successo un giro automobilistico. Così il 7 agosto, solo due giorni dopo quel telegramma, la Gazzetta esce con un titolo a sette colonne in cui annuncia l’evento.

 

Il 13 maggio 1909, alle 2.53 del mattino, da Piazzale Loreto a Milano, partono i 127 temerari iscritti. Affronteranno strade sterrate per centinaia di chilometri in sella a velocipedi pesanti molto più delle odierne leggerissime biciclette in carbonio. A trionfare sarà Luigi Ganna, baffuto muratore varesino, primo dei 49 “superstiti”, che precede, in una graduatoria allora calcolata a punti, i connazionali Carlo Galletti e Giovanni Rossignoli. In realtà se fin dagli albori la classifica fosse stata stilata tenendo conto della somma dei tempi nelle varie frazioni il vincitore sarebbe stato proprio quest’ultimo dopo più di 89 ore in sella.

 

In queste pionieristiche edizioni il Giro si presentava in maniera ben diversa da quello che è oggi. Le informazioni sulla corsa arrivavano con dispacci telegrafici che venivano appesi sulle vetrine di un locale milanese e solo i più abbienti potevano informarsi via telefono chiamando il 3368. Alla partenza del primo Giro vennero fotografati tutti i corridori per evitare dubbi sulla loro identità e per prevenire possibili imbrogli. Al seguito della corsa erano presenti solo otto autovetture, tra squadre, organizzazione, giuria e giornalisti. Al vincitore Luigi Ganna venne assegnato un premio di 5325 lire, pari a circa 17 mila euro odierni, all’ultimo 300 lire, poco meno di mille euro, comunque più del doppio di quanto al tempo guadagnava il direttore di allora della Gazzetta dello Sport, Eugenio Camillo Castamagna.

 

Nel 1912 il milanese Carlo Galetti avrebbe vinto il suo terzo Giro d’Italia, se questo non si fosse disputato a squadre, unico nella storia. Vinse l’Atala davanti al team Peugeot e alla Gerbi. Nel 1914, prima della pausa forzata a causa della Grande Guerra, in quella che passerà alla storia come la più lunga tappa mai disputata, si affermò uno dei primi campioni della storia del ciclismo: Costante Girardengo. 430 chilometri tra Lucca e Roma percorsi in 17 ore e mezza dal vincitore. Di due anni prima la tappa che è durata di più: il 19 maggio 1912 Giovanni Micheletto impiegò quasi ventisette ore per terminare i 398 chilometri e 800 metri che separano Milano da Padova.

 

Anno 1922. Le tappe si sono leggermente accorciate e i giorni di riposo tra l’una e l’altra sono scesi da due a uno. Già nella prima tappa si decide la corsa, in quanto Giovanni Brunero viene sorpreso a sostituire una ruota in maniera irregolare. Di fronte alla richiesta di estromissione rigettata dalla giuria, che sanziona con “soli” 25 minuti di penalità Brunero, le altre squadre in corsa, la Maino e la Bianchi, decidono di ritirarsi. La Legnano prosegue da sola e vede così l’affermazione del suo campione davanti ai compagni di squadra Bartolomeo Aymo e Giuseppe Enrici, quest’ultimo vincitore assoluto due anni più tardi. Sono del 1923 i primi filmati del Giro che giungono ai giorni nostri, senza sonoro e in bianco e nero, i cinematografi dell’epoca riprendono tutti gli arrivi dell’undicesima edizione del Giro, che vede trionfare Costante Girardengo. Solo pochi anni più tardi, negli anni Trenta, il Giro sbarca di prepotenza anche nei cinegiornali dell’epoca, che dedicano sempre più spazio all’evento.

 

L’edizione del 1924 passa alla storia per diversi motivi. Principalmente per il boicottaggio, avvenuto per ragioni ancora poco chiare, di tutti i migliori ciclisti dell’epoca, che spalanca le porte del Giro agli amatori. Tra questi un’allora sconosciuto Ottavio Bottecchia, che vincerà quell’anno e l’anno dopo il Tour de France. Celebre l’impresa di Alfonsina Strada, prima donna a prendere parte alla competizione in gara con i maschi. A causa di vari inconvenienti e cadute finirà fuori tempo massimo, ma deciderà di nonostante tutto di arrivare fino alla fine disputando le ultime tappe senza numero e raggiungerà Milano tra gli applausi della folla.

 

Gli anni Venti sono anche gli anni del primo cannibale della storia del ciclismo: Alfredo Binda. Dopo aver dominato quattro edizioni della manifestazione, dal 1925 al 1929, fu estromesso per manifesta superiorità nel 1930. Al “trombettiere di Cittiglio” venne pagato il premio che spettava al vincitore, 22.500 lire (circa 17mila euro), per non fargli correre quell’edizione, dato che la sua tirannia sportiva aveva reso prive di interesse le ultime edizioni del Giro. Nel frattempo, mentre Marchisio e Giacobbe si disputavano il giro, Alfredo Binda partecipava a varie corse in Europa raddoppiando i suoi introiti monetari.

 

Nel 1931 viene per la prima volta istituita la storica maglia rosa, per via del colore che distingueva il giornale organizzatore, con lo scopo di rendere più facile identificare nel gruppo il primo in classifica. Divenne il simbolo di questa corsa, ambita e sognata da ogni suo partecipante, e indossarla, seppure per un giorno, significava entrare di diritto nella storia del ciclismo. Il primo ad indossarla fu Learco Guerra, che vinse la tappa inaugurale di quell’edizione.

 

Siamo nel 1933 quando viene istituito un altro trofeo simbolo del giro, quello che premia i migliori scalatori. Vennero assegnati quell’anno quattro Gran Premi della Montagna, che aggiudicavano punti per una speciale classifica ai primi corridori che transitavano in cima alle più impervie salite. Il primo a vincere questa classifica fu Alfredo Binda. Solo quaranta anni dopo venne deciso che il primo in questa graduatoria dovesse indossare una maglia di colore verde. Altre maglie storiche istituite furono quella rossa nel 1966 per identificare il vincitore della classifica a punti, che divenne color ciclamino appena quattro anni più tardi, la maglia azzurra per l’Intergiro, ossia un traguardo intermedio presente in ogni tappa, e quella bianca, per il miglior giovane, maglia destituita nel 1994 ma riassegnata poi dal 2006.

 

Una menzione particolare merita la maglia nera, che contraddistingueva l’ultimo corridore in classifica e che spesso era oggetto di disputa agguerrita ancora più di quella rosa. Noti i casi di corridori che si attardavano forando appositamente le proprie stesse ruote o che si nascondevano in bar e fienili con lo scopo di perdere tempo, per poi sbucare alle spalle del gruppo sul finire della tappa. La conquista di questa maglia non era affatto facile in quanto bisognava arrivare comunque entro un tempo massimo definito per ogni tappa. Sono passate alla storia le celebri sfide tra Sante Carollo e Luigi Malabrocca negli anni Quaranta per aggiudicarsi l’ambito simbolo nonché il cospicuo premio in denaro ad esso collegato. La maglia fu definitivamente dismessa nel 1979, dall’edizione 2008 è però prevista un’analoga istituzione, quella del numero nero.

 

Tornando alle cronache, il 1933 sarà ricordato anche per l’introduzione di alcune tradizioni e tipologie di competizione in auge ancora oggi. Nasce ad esempio la carovana pubblicitaria, con lo scopo di intrattenere il pubblico delle città di arrivo e di partenza di ogni tappa, con spettacoli ed esibizioni. Nasce altresì una tipologia diventata decisiva nei grandi giri a tappe soprattutto degli ultimi decenni, la corsa a cronometro. “Signori corridori, fate il vostro gioco: ognuno per sé, e contro tutti” scriverà la Rosea sul numero uscito il giorno della Bologna-Ferrara, 62 chilometri da soli contro il tempo. A vincere, neanche a dirlo, sarà ancora Alfredo Binda, che chiuderà la carriera con 41 vittorie di tappa al Giro, record battuto solamente nel 2003 dal velocista Mario Cipollini.

 

Nel 1935 si fa notare un ventunenne di Ponte a Ema, che domina il Gran Premio della Montagna e conclude settimo in graduatoria. Il suo nome è Gino Bartali. L’anno successivo il giovanissimo fiorentino vince il suo primo Giro d’Italia staccando di oltre due minuti il secondo classificato Giovanni Olmo. Quest’ultimo passerà alla storia tra l’altro per aver conquistato la prima cronoscalata della storia, vincendo la Rieti-Terminillo ad una media di quasi 22 chilometri all’ora. Gino Bartali si ripete l’anno successivo nella novità di un arrivo al nuovissimo Velodromo Vigorelli, inaugurato per l’occasione. Sembra che nessuno possa scalfire il dominio dello scalatore toscano, ma la storia ci regala in quegli anni la comparsa sulle strade di un altro di quei campioni che segnerà per sempre la storia del ciclismo: Fausto Coppi

 

Per circa quindici anni, purtroppo intervallati dalla seconda guerra mondiale, il dualismo Bartali-Coppi dividerà l’Italia del tifo e porterà il Giro al periodo del suo massimo splendore. Fausto Coppi, o “il Campionissimo”. Colui che sulle strade del Giro entrerà nella storia e sulle strade della vita troverà una sfortunata morte che lo farà entrare nella leggenda dello sport. Nel 1940 Fausto Coppi vince il suo giro d’esordio correndo nella stessa squadra di Gino Bartali, nello stesso giorno ricordato dalla storia per l’entrata in guerra dell’Italia: il 10 giugno 1940. Il conflitto sottrarrà alla storia cinque anni di giro e di possibili epici duelli tra i due protagonisti del periodo.

 

Nel 1947 grazie a Radio Rai, che porta milioni di italiani a seguire in diretta le cronache delle tappe, la corsa rosa acquista ancora maggior visibilità e popolarità e il duello tra i due leggendari campioni appassiona e divide tutta la penisola. A spuntarla in quell’anno è il giovane Fausto, che stacca il pratese Fiorenzo Magni di oltre quattro minuti nel tappone di montagna Pieve di Cadore-Trento e vince il giro con 1’43” su Gino Bartali, vendicandosi dell’anno precedente in cui a spuntarla era stato il “toscanaccio”. Fiorenzo Magni vincerà poi l’edizione dell’anno successivo con lo scarto minimo di undici secondi su Ezio Cecchi. ma sarà quella del 1949 l’edizione in cui Coppi celebrerà la sua più grande impresa.

 

Ancora un 10 giugno. In programma ci sono 254 chilometri di tappa da Cuneo a Pinerolo. Da scalare gli impervi colli della Maddalena, del Vars, dell’Izoard, il Monginevro e il Sestriere. La maglia rosa la indossa un velocista, Adolfo Leoni. A metà della prima salita Bartali si stacca, mancano ancora più di 190 chilometri all’arrivo. Lo storico telecronista Rai, Mario Ferretti, annuncia via radio: “Un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi”. La tappa sarà dominata dal corridore di Castellania, in provincia di Alessandria, con quasi dodici minuti di vantaggio su Bartali, al terzo posto Magni. Poco più di un mese dopo Coppi si aggiudicherà anche il Tour, sarà il primo nella storia a riuscirci e bisserà la doppietta anche nel 1952. Dopo di lui solamente grandi campioni come Anquetil, Merckx, Hinault, Roche, Indurain e Pantani riusciranno nell’impresa.

 

Il 49’ è l’anno della clamorosa affermazione al Tour de France, dove recupererà un ritardo di 36 minuti persi per un inconveniente tecnico in una tappa alpina, e risorgerà grazie anche a Bartali, trionfando sugli Champs Elisées, impresa che da sola meriterebbe la narrazione di cento libri. A causa di infortuni e vicissitudini, non riuscirà ad affermarsi nei due giri successivi ma nel 1952, come detto, riconquisterà maglia rosa e maglia gialla in un solo anno. Nella Venezia-Bolzano, Coppi distanzia Bartali e Magni assicurandosi il primo gradino del podio.

 

Il 1950 è l’anno del primo straniero vincitore, il fortissimo svizzero Hugo Koblet, corridore noto oltre che per le sue vittorie, anche per il celebre pettinino con cui, durante la corsa, si ravviava i capelli. Contese agli italiani i primi giri degli anni Cinquanta battendo Bartali nel 1950 e perdendo da Coppi e Clerici nel 1953 e 1954. Proprio il 1953 fu l’anno dell’ultima affermazione di Coppi, che due anni dopo giunse secondo alle spalle del pratese Magni, e del debutto della prima diretta televisiva.

 

Nelle pagine della storia del giro entra anche il belga Rik Van Steenbergen, che ebbe più fortuna all’estero e che nel 1954 portò a termine vittorioso sul traguardo di Napoli una fuga di ben 239 chilometri, ancora oggi record storico. Sempre al Giro del 1954 è legato un altro interessante aneddoto. Carlo Clerici, semisconosciuto italiano naturalizzato svizzero, gregario di Koblet, va in fuga durante la sesta tappa e guadagna 34 minuti sul gruppo. Nei giorni seguenti i corridori, sfiduciati dall’enorme svantaggio, rinunciano ad attaccare e si prendono persino gli insulti del pubblico che arriva anche a scioperare durante la penultima tappa. Gli anni tra i Cinquanta e i Sessanta segnano la fine del predominio italiano nell’albo d’oro e l’apertura del giro alle affermazioni di campioni stranieri come Koblet, Clerici, Gaul, Anquetil e Balmamion.

 

La tappa del Monte Bondone nel 1956 passerà alla storia con l’infernale appellativo di “dantesca”. Una tempesta di neve rende impossibile l’ascesa di molti corridori, che rinunciano alle soglie dell’assiderazione. A spuntarla dopo nove ore nella bufera sarà il lussemburghese Charly Gaul grazie anche a due mastelli di acqua calda preparati dal suo dirigente Learco Guerra, in cui si immerse per evitare il congelamento. Nella stessa tappa ancora più stoica è l’impresa di Magni, l’immortale “terzo uomo”, capace di affermarsi in tre giri durante gli anni di Coppi e Bartali, che con una spalla fratturata arrivò al traguardo neanche troppo staccato tenendo il manubrio con i denti attraverso un sistema di lacci.

 

Gli anni Sessanta si aprono all’insegna del normanno Jacques Anquetil. Autore di sfide celebri con Gaul, il francese vincerà nel 1960 e nel 1964 abbinando al Giro in quest’ultima edizione anche il Tour ed eguagliando il suo maestro Coppi. Fausto dirà di lui: “Per fortuna quello lì è nato molto dopo di me, altrimenti sarebbero stati guai seri. A cronometro va come un treno”. Elegante e veloce, si diceva di lui che per quanto fosse composto in sella durante le cronometro, si poteva mettere un bicchiere colmo d’acqua sulla sua schiena e non sarebbe caduto.

 

Nel 1963 nasce il Processo alla Tappa, storica trasmissione televisiva condotta da Sergio Zavoli, che giunge sostanzialmente intatta nella struttura fino ai giorni nostri. E uno dei campioni più celebri a sedere negli studi allestiti nelle città di arrivo di ogni tappa e a rispondere alle domande del conduttore sarà Eddy Merckx, anche conosciuto come “il Cannibale”. Nella sua carriera il belga vincerà oltre 445 corse, lasciando le briciole agli avversari. Il suo soprannome nasce durante il Giro del 1968, quando si impone in tutte e quattro le classifiche ufficiali senza mai fermarsi. Vincerà anche nel 1970, 1971, 1973 e 1974, accompagnando in tre casi la vittoria con quella al Tour de France. Terminerà la sua esperienza nel Giro dopo ben 77 maglie rose indossate e 26 vittorie di tappa.

 

A cercare di intaccare il dominio del cannibale belga in quegli anni ci provano alcuni bravissimi italiani, come Felice Gimondi, Vittorio Adorni e Gianbattista Baronchelli. Gimondi partecipa ininterrottamente al Giro d’Italia dal 1965 al 1978, concludendo tutte e quattordici le edizioni e vincendo nel 1967, nel 1969 e nel 1976. Grande amico di Mercks, trionfa nel 1967 imponendosi sulle Tre Cime del Lavaredo (vittoria poi toltagli dalla giuria per spinte tra corridori), in una edizione storica che vede al via per l’ultima volta Jacques Anquetil e per la prima Eddy Merckx. Nel 1976 al suo ultimo giro vince grazie a una splendida volata su Merckx e Baronchelli nella tappa di Bergamo e poi indossa la maglia rosa nell’ultima cronometro per soli 19 secondi ai danni del belga De Muynck.

 

Gli anni Ottanta sono quelli di Giuseppe Saronni e di Francesco Moser. Saronni vince il suo primo Giro alla tenera età di 21 anni, più giovani di lui nella storia solo in due, Fausto Coppi e Luigi Marchisio. Nel 1983 impiegherà 100 ore e 45 minuti a percorrere i 3922 chilometri totali del percorso, alla medie record di quasi 39 chilometri orari, il giro più veloce della storia. Francesco Moser strabilierà il mondo nel 1984, quando vincerà il suo primo Giro dopo tanti piazzamenti, ma soprattutto stabilirà, trentaquattrenne e dodici anni dopo Merckx, il record dell’ora a Città del Messico.

 

Quel decennio fu anche quello del bretone Bernard Hinault, anche conosciuto come ”Monsieur Blaireau”. Cinque Tour de France e Tre Giri d’Italia, il bottino più ricco del dopo Merckx. Accoppia Giro e Tour nel 1982 e nel 1985. Debutta al Giro d’Italia del 1980 e vince subito staccando tutti a tre tappe dalla fine a Cles e lasciando poi vincere sul traguardo il suo gregario Bernaudeau. Dietro di lui nella classifica generale arriva Wladimiro Panizza, il fedelissimo del Giro con diciotto partecipazioni. Hinault si ripete nel 1982 con l’appoggio del giovane compagno Laurent Fignon, poi vincitore del Giro sette anni più tardi, e vince sul Monte Campione strappando la maglia rosa a Silvano Contini. Nel 1985 la spunta dopo un memorabile duello con Moser. Decisiva la cronometro di Maddaloni e l’aiuto del suo scudiero, l’americano Greg Lemond, terzo all’arrivo e da cui, per una storia di gelosie e invidie, si farà strappare la sesta affermazione in un Tour nel 1986.

 

Alcuni ottimi ciclisti si alterneranno sul podio del Giro negli anni seguenti: Visentini, Roche (che vince il Tour nello stesso anno, il 1987), Hampsten, Fignon, Bugno, Chioccioli, prima che la corsa Rosa ritrovi un altro dominatore nel navarro Miguel Indurain. Il 1990 è però l’anno di Gianni Bugno, che si afferma alla Milano-Sanremo, al Giro e al Mondiale. Il monzese, nato in Svizzera, domina quel Giro vincendo il cronoprologo e tenendo la maglia per tutte e ventidue le tappe. Nascerà una rivalità con un altro italiano, Claudio Chiappucci detto “El Diablo” e successivamente con Miguel Indurain. In quel Giro l’ultimo ad arrendersi all’incontenibile Gianni Bugno fu il francese Charly Mottet, a cui il monzese cede la vittoria sul Pordoi dopo una fuga e a risultato acquisito, non senza mugugni da parte dei tifosi. Ma Gianni vincerà pochi giorni dopo la impervia cronometro da Gallarate a Varese, sotto il diluvio, raccontando a fine tappa che gli sembrava “di pedalare in una giornata di sole”. In quell’anno vince due tappe il giovane velocista Mario Cipollini, le prime due di una striscia vincente che lo porterà il “Re Leone” nel 2003, nella tappa di Montecatini Terme, a superare Binda per numero di vittorie assolute: 42.

 

Il dominatore del ciclismo mondiale nei primi anni Novanta è Miguel Indurain. Imbattibile a cronometro, un computer in montagna dove imponeva ritmi insostenibili. In cinque anni vince cinque Tour e due Giri, le accoppiate nel 1992 e 1993. A contrastarlo sia sulle strade italiane che francesi ci prova l’eterno secondo Claudio Chiappucci, senza però avere successo. Troppo era la differenza tra Miguel e i suoi contendenti a cronometro, dove vincerà la maggior parte dei giri a tappe nel suo carniere.

 

Ad eclissare la stella Indurain nel 1994 ci pensa un giovane russo, Evgeni Berzin, vincitore della classifica finale, e soprattutto un giovanissimo e già calvo Marco Pantani. Berzin a cronometro e Pantani in salita si dimostrano più forti dello spagnolo che non correrà mai più un Giro d’Italia, e si concentrerà sul Tour, dove i chilometri a cronometro sono maggiori rispetto al Giro.

 

Marco Pantani. Lo sfortunatissimo campione di Cesenatico vede la sua carriera costellata da infortuni, ma scrive pagine memorabili nella storia del ciclismo in quei pochi periodi tranquilli che la dea bendata gli concede. In montagna era dai tempi di Charly Gaul che non si vedeva un ciclista andare così forte, si guadagna prima il soprannome di “Elefantino”, per via delle orecchie sporgenti, e poi, definitivamente, quello di “Pirata”, a causa della bandana che indossava in salita. Il 14 febbraio 1994, il compagno di squadra di Chiappucci domina a Merano, riprendendo in salita uno dopo l’altro il suo caposquadra, lo svizzero Pascal Richard, e Gianni Bugno. Il giorno dopo si ripete all’Aprica e sul Mortirolo umilia Indurain. Arriverà secondo, perdendo troppi minuti a cronometro, anche a causa dei suoi pochi chili di peso.

 

Pantani resterà fermo a causa di incidenti per lunghi periodi nel 1995 e nel 1996, ma nel 1998 sarà l’anno della leggenda, con la vittoria su un ostico russo, Pavel Tonkov, già vincitore del Giro del 1996. Nel cronoprologo in terra francese a Nizza, perde 39 secondi in soli sette chilometri. A Piancavallo vince, ma a cronometro perde minuti su minuti dai suoi rivali. In montagna Pantani domina sulla Marmolada, lasciando la vittoria a Beppe Guerini, e poi il giorno  dopo arriva insieme a Tonkov a Pampeago. La sfida decisiva è a Montecampione, quando il russo resiste a una serie infinita di attacchi di Marco, ma alla fine è costretto a cedere di schianto. E’ la sua prima vittoria al Giro, conquisterà in maniera leggendaria anche il Tour de France grazie a una pazzesca impresa a Les Deux Alpes. L’anno dopo inizierà il declino, vittima di un valore di ematocrito troppo alto nella tappa di Madonna di Campiglio mentre si apprestava a conquistare il suo secondo Giro consecutivo. Il suo carattere fragile in antitesi alla forza che aveva sui pedali lo porterà alla misteriosa morte in una stanza di un albergo a Rimini, avvenuta, ironia della sorte, il 14 febbraio 2004, a dieci anni esatti dalla sua esplosione come corridore.

 

Gli ultimi dieci anni della corsa rosa sono stati un monologo di corridori italiani. Ivan Gotti, ottimo scalatore, che aveva già vinto nel 1997, si ritrova tra le mani la vittoria del Giro del 1999 a causa della squalifica di Marco Pantani e in un podio tricolore gli fanno compagnia anche Paolo Savoldelli e Gilberto Simoni, due dei futuri vincitori del Giro. Il “falco” Savoldelli si imporrà nel 2002 e nel 2005 grazie alla sua atipica caratteristica di andare più forte di tutti in discesa. Gilberto Simoni è l’emblema del combattente, che guadagna podi su podi, vincendo tappe di montagna e non arrendendosi all’età. Sul Pordoi e sul Mottarone guadagnerà il suo primo Giro nel 2001 e si confermerà nel 2003 staccando il secondo, Stefano Garzelli, già vincitore nel 2000, di oltre otto minuti. Nel 2004 a vincere sarà un giovane compagno di squadra di Simoni, Damiano Cunego, che approfittando del suo ruolo di outsider, piazzerà una fuga solitaria a Falzes guadagnando oltre tre minuti su Simoni e Gontchar e limiterà i danni a cronometro trionfando al Giro a soli 22 anni. Nel 2006 sarà la volta di Ivan Basso, che non potrà difendere la maglia rosa l’anno successivo a causa del suo coinvolgimento in uno scandalo doping, costretto a scontare due anni di squalifica, così come il vincitore del giro del 2007, l’abruzzese Danilo Di Luca (il più meridionale di sempre ad affermarsi nella corsa rosa), che però è stato scagionato dalle accuse il 18 aprile 2008.

 

La corsa rosa, che giunge nel 2008 al suo novantanovesimo anno di vita, ha passato nell’ultimo decennio il periodo più difficile della sua storia, costretta a confrontarsi con lo spettro di uno sport infettato dal doping ed esposto, più di tanti altri, alla spietata gogna mediatica. Innumerevoli sono stati i casi di campioni smascherati o reo confessi. Una pagina nera della storia di una disciplina, che soprattutto in Italia è stata nei suoi anni d’oro tra le poche ad insidiare per popolarità, calore e seguito, il calcio. La notizia dell’assoluzione di Danilo Di Luca, ha fatto sì che uno spiraglio di luce si aprisse tra le nuvole che si erano addensate sopra il mondo della bicicletta. La speranza è che grazie a politiche di prevenzione e di responsabilizzazione, ma anche a severe prese di posizione di tutte le parti in causa (squadre, corridori, federazioni nazionali e internazionale) si arrivi un giorno a rischiarare definitivamente le ombre calate su questo massacrante e nobile sport.



 

 

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