N. 24 - Maggio 2007
CORPI
VIOLATI,
VOLONTà
DISTRUTTE
Violenze
impunite
contro le
donne
di
Nicola Ricchitelli
In occasione dell'8 marzo, giornata internazionale
delle donne, Amnesty International ha pubblicato un
raccapricciante rapporto sulla violenza contro di
loro, di cui vediamo alcuni estratti.
Se ne traggono due lezioni fondamentali:
primo, i maltrattamenti avvengono soprattutto
all'interno della famiglia;
secondo, i governi sono poco determinati a proteggere
le vittime e punire i colpevoli.
1° caso
Una donna di Suva Reka, Kosovo. "Mi misero una spugna
bagnata sotto il collo e mi stesero su un tavolo. Per
ore mi torturarono con scariche elettriche...
Poi mi spostarono su un altro tavolo, portarono un
bastone, e mi dissero: "Inginocchiati". E mi
inserirono lentamente il bastone nell'ano.
Poi, bruscamente, con uno spintone, mi obbligarono a
mettermi seduta sul bastone.
Cominciai a sanguinare... uno di loro si avvicinò, si
allungò su di me e mi violentò".
2° caso
Gli ufficiali della polizia turca, sospettati di aver
torturato Zeynep Avei alla fine del 1996, non sono mai
stati incriminati.
3° caso
Quando aveva quindici anni, i genitori di G. la
diedero in sposa ad un vicino in cambio del suo aiuto
nel pagare un'ipoteca sulla loro fattoria. Suo marito
la violentava e la picchiava regolarmente,
provocandole ferite che doveva farsi curare in
ospedale. G. andò per ben due volte a chiedere la
protezione della polizia, ma si sentì dire che non
potevano fare niente perché si trattava di un problema
personale.
A vent'anni, fuggì con i suoi due bambini.
I genitori e il marito la ritrovarono e fu proprio sua
madre a tenerla stesa a terra mentre il marito la
picchiava con un bastone. I figli furono presi dal
padre e da allora non li ha più rivisti. G. è fuggita
negli Stati uniti e ha fatto richiesta di asilo.
L'anno scorso, il presidente del servizio immigrazione
ha dichiarato al suo avvocato di avere l'intenzione di
rimandarla in Salvador.
Una donna di un villaggio europeo devastato dalla
guerra, una giovane kurda imprigionata dalla polizia
turca, una ragazza centroamericana, madre di due
figli, maltrattata e alla ricerca di un rifugio negli
Stati uniti. In apparenza, poche cose le uniscono
salvo il sesso e la sofferenza: vengono da paesi
lontani, da comunità differenti e gli uomini che le
hanno aggredite hanno storie molto diverse.
Il legame tra queste situazioni è dato dal fatto che
le vittime, tutte donne, sono state seviziate. Hanno
dovuto affrontare non solo violenze fisiche, ma anche
il silenzio o l'indifferenza ufficiali.
In tutti e tre i casi, gli aguzzini hanno compiuto il
loro atto criminale nella più completa impunità.
In tutti e tre i casi, lo stato non ha preso le misure
minime necessarie per proteggere le donne dalle
aggressioni fisiche e sessuali.
È allo stato, quindi, che va imputata la
responsabilità delle sofferenze subite,
indipendentemente dal fatto che l'aggressore sia un
soldato, un ufficiale di polizia o un marito brutale.
I supplizi inflitti alle donne affondano le proprie
radici in una cultura universale che nega la parità
dei diritti e considera legittimo appropriarsi con la
forza del corpo femminile per il piacere degli uomini
o per fini politici. In questi ultimi decenni, un po'
ovunque nel mondo, molte donne e molti militanti dei
diritti umani hanno lottato con grande coraggio per
frenare le violenze e ottenere una maggiore
eguaglianza tra i sessi. In molti paesi hanno
realizzato progressi importanti e, sul piano
internazionale, hanno modificato in modo irreversibile
i termini del dibattito sui diritti della persona.
Tuttavia, a dispetto di tutte le conquiste raggiunte
nel mondo con l'affermazione dei loro diritti, le
donne continuano a guadagnare meno degli uomini,
possiedono meno beni e hanno minor accesso
all'istruzione, al lavoro e alla salute. Una
discriminazione largamente diffusa continua a
rifiutare loro la piena parità politica ed economica.
La violenza si nutre di una discriminazione che
contribuisce a perpetuarla. Che una donna sia
martirizzata in carcere, violentata dalle forze armate
come "bottino di guerra", segregata in casa col
terrore, tutto ciò testimonia di una profonda
diseguaglianza nelle relazioni di potere tra i due
sessi. Gli autori degli atti di violenza possono
essere di volta in volta ufficiali dello stato o
poliziotti, guardie carcerarie o soldati. Talvolta
sono membri di gruppi armati in lotta contro il
governo.
Ma la maggior parte delle aggressioni subite dalle
donne nella vita quotidiana sono compiute da persone
con le quali vivono, cioè membri della famiglia, della
comunità o datori di lavoro. Esiste un fascio continuo
di violenze degli uomini ai danni di donne su cui
esercitano un controllo.
Amnesty International ha denunciato innumerevoli casi
di donne torturate in prigione. Seguendo i conflitti
armati, l'organizzazione ha denunciato l'abuso
sessuale sistematico, usato come arma di guerra. Dal
1997, si occupa delle aggressioni commesse da singoli
individui. Reclama una carta dei diritti umani per
lottare contro la violenza esercitata sulle donne e
sottolinea che, a norma di legge, lo stato ha il
dovere di proteggerle dai maltrattamenti, siano essi
imputabili a rappresentanti dello stato o a singoli.
Ha stilato un rapporto in cui studia le circostanze
nelle quali le aggressioni, che avvengano in carcere o
a casa, costituiscono sevizie. Come punto focale della
sua campagna contro la tortura, Amnesty considera gli
stati responsabili di tutte le forme di violenza
contro le donne, quale che sia il contesto nel quale
vengono commesse e chiunque ne sia l'autore. "Un dente
spezzato in un eccesso di collera, una gamba rotta
durante una brutale aggressione, una vita spezzata tra
grida di terrore nel pieno della notte.
La litania fin troppo nota delle violenze coniugali in
Kenya è costellata da racconti di questo tipo; un
numero impressionante di vittime mutilate e senza
risorse; bambini abbandonati che diventano preda della
delinquenza; cuori feriti che piangono di vergogna.
Siamo costantemente costretti a contare i morti,
perché ogni giorno una nuova vittima soccombe alle
percosse".
Questo è il riassunto di un articolo che è valso al
suo autore un premio molto ambito. Raccontare le
violenze può portare gratificazioni, ma combatterle
richiede tempo, mezzi, fantasia e volontà politica,
oltre che un impegno costante.
Ben lontani dal fornire un'adeguata protezione alle
donne, gli stati sono conniventi con le violenze, le
coprono o le accettano, permettendo che si perpetuino
senza ostacolarle.
Ogni anno, la violenza all'interno delle famiglie e
delle comunità devasta la vita di milioni di donne.
Nel giugno 2000, il segretario generale dell'Onu, Kofi
Annan, ha riconosciuto che, a distanza di cinque anni
dalla quarta conferenza mondiale delle donne, la
violenza, pur dichiarata illegale praticamente
ovunque, nei fatti è aumentata notevolmente.
Essa si radica nella discriminazione, e la rafforza.
Il fallimento di uno stato nel garantire pari
opportunità nell'accesso a istruzione, casa, cibo e
lavoro, oltre che ai poteri pubblici, costituisce un
altro aspetto della sua responsabilità nei confronti
delle violenze subite dalle donne. Una costante
discriminazione contribuisce a renderle scarsamente
partecipi dei momenti decisionali.
Farne ascoltare la voce a tutti i livelli di governo è
invece fondamentale per permettere loro di contribuire
a scelte politiche che sappiano contrastare le
violenze e combattere la discriminazione.
Le donne povere ed emarginate sono particolarmente
esposte a torture e maltrattamenti. In molti casi,
scelte politiche e comportamenti razzisti e sessisti
aggravano la violenza subita e amplificano una
vulnerabilità esasperata da norme sociali e culturali
che negano la parità dei diritti. Discriminare, negare
loro i diritti elementari semplicemente perché sono
donne è la regola comune. "Salvo eccezioni, i rischi
più gravi per quanto riguarda l'esposizione alla
violenza non provengono da un"pericolo esterno", ma da
maschi conosciuti, spesso uomini della famiglia o
mariti... Ciò che colpisce è fino a che punto la
situazione è identica in tutto il mondo", conclude un
recente studio. La violenza domestica è un fenomeno
molto diffuso. Le cifre possono variare nei diversi
paesi, ma le sofferenze e le cause sono identiche. K.
originaria della Repubblica democratica del Congo (ex-Zaire),
era sposata con un ufficiale dell'esercito che la
maltrattava regolarmente, picchiandola e
strattonandola, spesso di fronte ai figli.
La violentava in continuazione e le trasmise una
malattia sessuale. Minacciò anche di ammazzarla col
fucile. Durante una lite, le ruppe un dente, le
danneggiò una mascella e la colpì ad un occhio con
tale violenza che le dovettero mettere dei punti di
sutura e le rimase poi un dolore costante al naso, al
collo, alla testa, alla colonna vertebrale, alle anche
o ai piedi. K., che alla fine cercò rifugio negli
Stati uniti, sostenne che era inutile rivolgersi alla
polizia, sia per le relazioni di suo marito con la
famiglia al potere, sia perché "in Congo le donne non
contano niente". Un giudice americano addetto
all'immigrazione, definì "atrocità" le violenze da
lei subite, ma respinse la sua richiesta d'asilo, una
decisione confermata successivamente dalla corte
d'appello.
In passato, la violenza domestica contro le donne era
considerata un fatto privato. Oggi, la comunità
internazionale l'ha esplicitamente riconosciuta come
un problema di responsabilità dello stato. Secondo
stime della Banca mondiale, almeno il 20 % delle donne
di tutto il mondo è stata aggredita sessualmente o
fisicamente (2).
Fonti ufficiali statunitensi riportano che ogni
quindici secondi una donna viene picchiata e 700mila
donne sono violentate ogni anno. Secondo alcune
inchieste condotte in India, oltre il 40 % delle donne
sposate afferma di essere stata picchiata o aggredita
sessualmente perché il marito era scontento della
cucina o della pulizia, per gelosia o per altri
pretesti di vario tipo. In Kenya, tra il 1998 e il
1999, almeno sessanta donne sono morte di violenza
coniugale, mentre in Egitto il 35 % ha affermato di
essere stato violentato dal marito. Per milioni di
donne, la casa non è un'oasi di pace, ma un luogo di
terrore.
La violenza coniugale è una violazione del diritto
all'integrità fisica. Può durare anni e intensificarsi
nel tempo. Oltre ai danni immediati, può provocare
gravi problemi di salute a lungo termine: le
ripercussioni fisiche e psicologiche possono cumularsi
e perdurare anche dopo che i maltrattamenti sono
cessati. Può anche assumere diversi aspetti. Grazie al
lavoro di vari gruppi di donne asiatiche, oggi si è
molto attenti alla violenza legata a problemi di
dote.
Benché nessuno possa indicare con precisione il numero
di indiane picchiate, bruciate, maltrattate per
questa ragione, il governo indiano ha fornito al
riguardo una stima relativa di 6.929 decessi nel 1998.
Tutte le donne, di qualunque classe sociale, razza,
religione ed età, subiscono la violenza degli uomini
con cui vivono, ma alcune categorie sono
particolarmente vulnerabili: le collaboratrici
domestiche e le donne sposate contro la propria
volontà. Se lo stato non agisce per prevenire,
perseguire e punire simili atti, dai maltrattamenti si
può arrivare alla tortura.
Il 22 settembre 1992, Bhanwari Devi, una donna che
lavorava in un villaggio in costruzione, impegnata
nella lotta contro i matrimoni precoci a cui vengono
costretti molti bambini in India, fu violentata, nel
villaggio di Bhateri, nel Rajastan, da cinque uomini
di una casta superiore. La polizia rifiutò di
registrare la sua querela e di procedere a un esame
medico. Nel corso di un'inchiesta aperta dal governo a
seguito di una massiccia mobilitazione, fu sottoposta
ad un interrogatorio spossante ed irregolare.
L'inchiesta confermò le sue affermazioni e fu
depositata una querela. Il processo iniziò nel
novembre 1994. Nel verdetto emesso nel novembre 1995,
la corte asserì che il lungo periodo di tempo
trascorso prima di fare registrare la sua querela
dalla polizia e ottenere un esame medico provava che
la donna aveva inventato tutto. La corte sostenne
inoltre che il fatto non poteva essere accaduto,
perché uomini di una casta superiore non avrebbero mai
violentato una donna di casta inferiore.
Gli imputati furono tutti assolti. Parte integrante
della società in cui vivono, i giudici ne riflettono i
valori culturali, le norme morali e i pregiudizi.
Sapersi muovere fuori dai pregiudizi sarebbe il minimo
per un'amministrazione giudiziaria, ma la
discriminazione e l'incapacità di analizzare la
violenza esercitata contro le donne finiscono per
determinare a priori il modo di istruire un processo,
decidere e legiferare.
In Italia, nel febbraio 1999, la Corte di Cassazione
ha riesaminato un verdetto di corte d'appello in cui
un istruttore di scuola guida era stato riconosciuto
colpevole dello stupro di una sua allieva di diciotto
anni. La Corte suprema, rilevando che la vittima al
momento dell'aggressione portava un paio di jeans, ha
dichiarato: "Tutti sanno ... che i jeans non possono
essere sfilati, neanche parzialmente, se non con la
collaborazione attiva della persona che li porta...
cosa impossibile se la vittima lotta con tutte le sue
forze."
La corte ha ritenuto quindi la donna consenziente e
rinviato il caso davanti ad un'altra corte,
dichiarando che lo stupro non era provato.
Come si fa a definire uomo, chi commette, certe
azioni? E come si fa a definire stato chi sa e non
agisce? |