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Antica


N. 54 - Giugno 2012 (LXXXV)

caio marcio coriolano
il traditore della patria tradito dall'amore materno

di Paola Scollo

 

Appartenente all’antica gens Marcia, Caio Marcio Coriolano è protagonista delle vicende politiche di Roma dopo la cacciata dei re etruschi, all’epoca della guerra contro i Volsci. Secondo alcuni testimoni, il cognomen di Coriolanus è dovuto alla località di Corioli, da cui proveniva la sua famiglia.

 

Tito Livio e Plutarco, invece, spiegano che tale appellativo viene assegnato a Marcio in seguito alla vittoria sui Volsci di Corioli, sotto il consolato di Postumio Cominio Aurunco e Spurio Cassio Vecellino nel 494 a.C. A tal proposito, Plutarco racconta (Cor. VIII 5 - 6): «Esortava e incoraggiava i commilitoni, gridando che la sorte aveva aperto la città a vantaggio degli inseguitori più che dei fuggitivi. Sebbene non fossero molti quelli disposti a tenergli dietro, Marcio, spintosi avanti tra i nemici, si slanciò contro le porte e balzò dentro con loro, senza che nessuno osasse, sulle prime, opporsi o resistergli. […] Marcio allora, combattendo fianco a fianco sia degli amici che dei nemici, si impegnò, a quanto si dice, in una lotta addirittura incredibile all’interno della città, dimostrandosi forte di mano, veloce sui piedi e ardimentoso nel cuore: vinse tutti quelli che attaccò, respingendone una parte sino ai margini della città, mentre altri dovettero rinunciare alla lotta e gettare le armi […]».

 

Per Plutarco non esistono dubbi: è a partire dalle mirabili gesta compiute nella guerra contro i Volsci che Caio Marcio riceve il terzo nome di Coriolano. In particolare, sarebbe stato Cominio a proporre l’attribuzione (Cor. XI 1): «Certo non potete, o commilitoni, costringere ad accettare doni ad un uomo che non li accetta e non è disposto a prenderli; offriamogli allora quel dono che non può rifiutare, una volta che gli sia stato assegnato, e decretiamo che d’ora innanzi egli sia chiamato Coriolano, se pure tale appellativo, ancor prima che da noi, non gli è già stato conferito dall’impresa stessa che ha compiuto». Anche Tito Livio celebra l’impresa, che non esita a definire gloriosa (Ab Urbe Condita II 33): «Così furono sbaragliati i Volsci anziesi e fu presa Corioli; e con la sua gloriosa impresa Marcio offuscò tanto la fama del console che, se il trattato con i Latini inciso su una colonna di bronzo non stesse a testimoniare di essere stato concluso dal solo Spurio Cassio in assenza del collega, non resterebbe memoria della guerra condotta da Postumio Cominio contro i Volsci».

 

La presa di Corioli segna dunque l’inizio dell’ascesa, ma anche della caduta, di Coriolano. Sotto il consolato di Marco Minucio Augurino e Aulo Sempronio Atratino nel 491 a.C., la città di Roma è sede della prima secessio plebis: la popolazione, vedendosi negare le scorte di grano, è protagonista di sommosse e tumulti. Sullo scenario delle tensioni tra patrizi e plebei, Coriolano rappresenta l’ala più oltranzista dei patrizi, che auspica l’eliminazione del tribunato della plebe, affermando apertamente (Cor. XVI 7): «[…] Se invece vorremo agire saggiamente, toglieremo alla plebe il tribunato, che annulla il potere consolare e divide la città; Roma, infatti, non è più una sola cosa come prima, ma è stata per così dire tagliata in due, in modo tale che noi non siamo più né uniti né concordi, né riusciamo a porre fine ai malanni e ai reciproci turbamenti che ci affliggono».

 

Coriolano si oppone tenacemente alla distribuzione del grano proveniente dalla Sicilia a prezzo inferiore. Di qui il commento di Livio (Ab Urbe Condita II 35): «Si voleva prenderli per fame come nemici, privarli del nutrimento, toglier loro di bocca quel grano forestiero, l’unico cibo che la fortuna, contro ogni speranza, aveva offerto, se non si fossero consegnati prigionieri i tribuni a Caio Marzio, se non si desse soddisfazione ai patrizi con le spalle della plebe; questo novello carnefice era sorto per la plebe, che la costringeva o a morire o a servire». Secondo la testimonianza di Plutarco, proprio per le sue posizioni, nel corso di un’assemblea Coriolano rischia di essere mandato a morte, gettato dalla rupe Tarpea.

 

Questo è quanto si legge (Cor. XVIII 3 - 4): «[…] Al che il più acceso dei tribuni, Sicinio, dopo aver brevemente discusso con i colleghi, si fece avanti e proclamò che i tribuni avevano decretato la morte di Marcio: diede quindi ordine agli edili di condurlo subito alla rocca e di precipitarlo nel baratro sottostante». Tuttavia, spiega ancora Plutarco, a molti plebei tale gesto risulta «orrendo ed eccessivo». Si decide allora di sottrarre Marcio alla parte più atroce della sentenza, ovvero la morte violenta e senza giudizio, per consegnarlo, piuttosto, al giudizio del popolo. Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom. VII 36. 2 - 3) presenta il processo come il primo caso di iudicium populi, in quanto il popolo è chiamato a esprimersi con votazione in ambito giudiziario.

 

A questo punto, però, le testimonianze di Livio e Plutarco divergono. Secondo Livio, Coriolano si rifiuta di sottoporsi a giudizio nel giorno prestabilito, per cui sceglie l’esilio volontario presso i Volsci, che lo accolgono festosamente (benigne excepere). Coriolano sarebbe stato quindi condannato all’esilio in contumacia. Per Plutarco, invece, viene giudicato dal popolo per essersi opposto all’abbassamento del prezzo del grano e per aver distribuito il tesoro di Anzio tra i commilitoni, piuttosto che consegnarlo all’Erario. In ogni caso, anche per Plutarco la condanna definitiva è di esilio a vita. Dopo la sentenza, il popolo va via soddisfatto; il Senato, invece, reca i segni di grande dolore e di terribile sconforto, «pentendosi e rammaricandosi di non essere stato capace di fare e subire qualsiasi cosa piuttosto che permettere alla plebe di acquistare tanto potere da potersene servire per ledere la sua autorità» (Cor. XX 8).

 

Da parte sua, Coriolano non si mostra impaurito o umiliato. Anzi, sembra non temere affatto per la propria sorte, perché «in preda piuttosto alla collera e al rancore, sentimenti che -benché i più lo ignorino- sono anch’essi espressione del dolore» (Cor. XXI 1). Plutarco spiega, infatti, che il dolore si muta in furore, «si infiamma e spazza via il senso di umiliazione e la passività. L’uomo adirato appare perciò attivo, così come brucia chi ha la febbre alta, perché il suo animo sembra quasi palpitare fortemente, dilatarsi, gonfiarsi» (Cor. XXI 2).

 

In seguito alla condanna, per alcuni giorni Coriolano «dimorò in certi suoi poderi, diviso fra molti pensieri contrari che la collera gli suggeriva, e quindi senza riuscire a formulare alcun proposito nobile e costruttivo, ma solo quello di vendicarsi dei Romani: decise così di suscitare contro di loro una grave guerra da parte dei popoli vicini» (Cor. XXI 5). Si reca in esilio nella città di Anzio, presso Attio Tullo, e qui, animato da spirito di vendetta, si impegna ad alimentare l’ostilità dei Volsci nei confronti dei Romani (Cor. XXVI 1): «Frattanto ad Anzio, Marcio e Tullo conducevano trattative segrete con i cittadini più potenti e li esortavano a intraprendere la guerra contro i Romani finché questi erano in preda a discordie intestine».

 

Guidati da Marcio e Tullo, i Volsci dichiarano guerra a Roma. Scrive a tal proposito Tito Livio (Ab Urbe Condita II 39): «Comandanti di questa guerra furono per unanime consenso eletti Attio Tullo e Caio Marcio, l’esule romano (exsul romanus), nel quale particolarmente si riponeva speranza: la quale speranza egli non deluse in nessun modo, onde apparve evidente che ai suoi capitani più che ai suoi soldati doveva Roma la propria potenza». In effetti, Coriolano non delude le speranze dei suoi seguaci. Almeno in un primo momento. Almeno fino a quando, lungo la via Latina, laddove si trova il confine dell’Ager Romanus Antiquus, mentre i consoli del 488 a.C. Spurio Nauzio e Sesto Furio stanno provvedendo all’organizzazione delle difese della città, decide di fermarsi.

 

Stando a Livio, Coriolano, «che non si era lasciato smuovere né da maestà di pubblici ufficiali né da sacro aspetto di sacerdoti (che opera sì potentemente sugli occhi e sugli animi), ben più insensibile rimaneva alle lacrime femminili» (Ab Urbe Condita II 40). Appena vede avanzare la schiera delle matrone romane, rimane immobile e in silenzio. E quando scorge la madre Veturia e la moglie Volumnia, dapprima si impone di non recedere dai «suoi fermi e impietosi propositi», poi, sopraffatto dall’emozione e sconvolto da quella vista, non sopporta di rimanere seduto, per cui va loro incontro e abbraccia per prima la madre, poi la moglie e i figli.

 

Senza più trattenersi dalle lacrime e dai gesti di tenerezza, lasciandosi quasi travolgere dai sentimenti, Coriolano balza dal suo seggio e si precipita ad abbracciare la madre. Prima di andargli incontro, pare che la madre abbia detto: «Fa’ che io sappia, prima di ricevere il tuo abbraccio, se io sono venuta da un nemico o da mio figlio, se prigioniera o se madre sono io nel tuo campo». Veturia è dunque scissa nell’animo: ha dubbi sulla possibilità di considerare Coriolano un figlio o, piuttosto, un nemico.

 

Dopo aver manifestato la terribile condizione in cui si trova a vivere, la donna conclude: «L’esito della guerra è incerto; l’unica cosa certa è che, se vincerai, sarai il distruttore della tua patria, mentre se sarai sconfitto tutti penseranno che per spirito di vendetta hai causato le peggiori sventure a uomini che erano i tuoi benefattori e amici» (Cor. XXXV 9). La donna ha piena consapevolezza della difficile scelta imposta al figlio, ovvero di tradire gli alleati oppure di causare la rovina dei propri concittadini. Tuttavia, questa richiesta si rende necessaria per la liberazione dalla sventura.

 

Stando a Plutarco, dapprima Coriolano ascolta la madre senza proferire alcuna parola. In seguito, quando Veturia gli si getta alle ginocchia, si arrende: «Hai vinto una vittoria fausta per la patria, ma rovinosa per me. Mi ritirerò infatti sconfitto, se pure da te sola» (Cor. XXXVI 5). Livio narra quindi che Volumnia e i figli corrono ad abbracciare Coriolano e «il pianto, levatosi da tutto quello stuolo di donne, e il loro lamento sul destino proprio e della patria, finalmente infransero l’uomo»(Ab Urbe Condita II 40). La mattina seguente Coriolano conduce indietro i Volsci. Tutti i templi vengono riaperti e i cittadini si cingono il capo di ghirlande come per una vittoria e offrono sacrifici.

 

Su richiesta delle matrone, viene edificato un tempio alla Fortuna Muliebre (Cor. XXXVII 4). Così anche in Livio. Riguardo alla morte di Coriolano, invece, le fonti divergono. Livio riporta la testimonianza di Fabio, secondo cui Coriolano vive fino alla vecchiaia, lamentando spesso la sua condizione di esule. Di contro, Plutarco narra (Cor. XXXIX 8): «I più violenti dei suoi seguaci si mettono a gridare che i Volsci non dovevano prestare ascolto al traditore né permettergli che la facesse da tiranno e si rifiutasse di deporre il comando; dopo di che, assalitolo tutti insieme, lo uccisero, e nessuno dei presenti si fece avanti per difenderlo».

 

«Tuttavia -precisa ancora Plutarco- che l’assassinio non fosse stato compiuto per volontà della maggioranza lo dimostrò subito il fatto che i Volsci accorsero dalle loro città per rendere omaggio alla salma che seppellirono con tutti gli onori, adornando la tomba di armi e di spoglie, come si usa fare per un prode generale» (Cor. XXXIX 9). Appena ricevuta notizia della morte di Coriolano, i Romani invece non mostrano né di volerlo onorare né di nutrire sentimenti di rancore nei suoi confronti. Si limitano a concedere alla matrone un periodo di lutto di dieci mesi, previsto per la morte di un padre, di un figlio o di un fratello.

 

Tale periodo era stato fissato da Numa Pompilio. Dionigi di Alicarnasso parla, piuttosto, di un periodo di un anno. Stando a Plutarco, i Volsci rimpiangono ben presto il loro comandante: di lì a poco, infatti, sarebbero entrati in conflitto con la popolazione degli Equi, subendo numerose perdite. Poi, sarebbero stati vinti dai Romani in uno scontro in cui sarebbero morti Tullo e la parte più giovane dell’esercito.

 

Nella tradizione esegetica, sono stati espressi giudizi severi nei confronti di Caio Marcio Coriolano, in quanto traditore della patria. Nell’immagine di Plutarco, l’ambizione insoddisfatta e il risentimento nei confronti della plebe sono da porre alle origini della caduta del comandante romano. I vizi quali irritabilità, arroganza e invidia scaturiscono da un’educazione incentrata sull’esercizio fisico, che assegna un ruolo marginale alle Muse (Cor. I 4). Infatti, in tale dimensione un’indole incline alla violenza si rafforza piuttosto che addolcirsi (Cor. I 5): «Nessun altro vantaggio che gli uomini traggono dalla benevolenza delle Muse vale quanto l’ingentilirsi dell’indole naturale a opera della cultura e dell’educazione: è grazie alla cultura che essa accoglie la moderazione e respinge l’eccesso».

 

Coriolano viene educato secondo la morale tradizionale, che esalta soprattutto la virtù relativa alle imprese militari e guerresche (Cor. II 2): «incline più degli altri alla lotta e alla guerra, fin da fanciullo maneggiava le armi; e, ritenendo che a nulla giovassero le armi acquisite per chi non è provvisto di quell’arma innata che la natura fornisce e non la mette in opera, venne allenando il proprio corpo a ogni forma di combattimento, in modo tale da essere agile nella corsa, saldo nelle prese e duro da superare nelle lotte con l’avversario. Pertanto, quelli che contendevano con lui in qualche prova di coraggio e di valore attribuivano la causa delle loro sconfitte alla forza del suo corpo, che non si lasciava piegare e non cedeva ad alcuna fatica».

 

Marcio si propone di gareggiare con se stesso in valore e, desideroso sempre di nuove azioni, accumula imprese su imprese, ammassa spoglie su spoglie e «i suoi comandanti, di volta in volta, facevano sempre a gara con quelli che li avevano preceduti nel conferirgli onori e nell’attestare i suoi meriti. E così da nessuna delle numerose contese e guerre che i Romani ebbero a sostenere in quel tempo egli ritornò senza corona di lauro o senza qualche riconoscimento» (Cor. IV 3 - 4). Di qui Plutarco precisa: «Mentre però per gli altri la virtù si propone come fine di gloria, per lui la gloria ebbe come fine ultimo la felicità di sua madre. Infatti, che essa lo sentisse lodare e lo vedesse incoronato e lo abbracciasse piangendo di gioia era per lui l’onore più grande e la più grande fonte di felicità» (Cor. IV 5).

 

E anche dopo essersi sposato, Coriolano continua a vivere nella casa della madre: «quando questa desiderò che egli prendesse moglie e glielo chiese, si sposò ed ebbe dei figli, ma continuò sempre a vivere nella stessa casa con la madre» (Cor. IV 7). Stando a Plutarco, l’educazione ricevuta da Veturia «dimostrò che il crescere senza genitore comporta sì altri svantaggi, ma non costituisce ostacolo al diventare uomo valente e che sa distinguersi fra molti» (Cor. I 2).

 

Pregi di Coriolano sono dunque la forza e il vigore dell’intelletto che, di fatto, lo portano a grandi slanci e a nobili risultati; d’altro canto, però, gli incontenibili impeti di collera di cui era preda e la sua caparbia litigiosità lo rendevano difficile e duro nei rapporti con gli uomini; per queste ragioni la gente, «pur ammirando la sua indifferenza ai piaceri, alle fatiche e al denaro, e pur citando di lui la temperanza, la giustizia e la fortezza, di contro nelle relazioni pubbliche lo detestava, trovandolo sgradevole, antipatico e scorbutico» (Cor. I 4).



 

 

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