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N. 109 - Gennaio 2017 (CXL)

CORI DI ANIMALI

LE COMMEDIE DI ARISTOFANE - PARTE IiI
di Paola Scollo

 

Nel panorama della critica moderna la tesi della visibilità delle rane è stata avanzata da Mac Dowell nel 1959. Dopo aver sottolineato la difficoltà di ricezione di canti retroscenici, Mac Dowell esclude l’ipotesi dell’esistenza di un doppio coro. Senza precedenti nelle commedie di Aristofane, gli stessi coreuti interpretano sia il ruolo delle rane sia il ruolo degli iniziati. L’episodio di Empusa offrirebbe agli interpreti il tempo necessario per abbandonare i variopinti costumi animaleschi e indossare le vesti logore degli iniziati. La presenza e la visibilità delle rane è legata all’importanza e al significato della scena, che per Mac Dowell ha duplice funzione: «it is an elaborate musical entertainment, and it presents an important part of Athenian religious life in a manner suitable for comedy».

 

Tra i maggiori sostenitori della tesi della visibilità delle rane figura senz’altro Dover. Lo studioso immagina le rane gracidare e saltare in tutte le direzioni, vestite di costumi appariscenti, facendo poi notare che l’economia di Atene durante la guerra del Peloponneso non doveva essere a tal punto negativa da impedire l’allestimento di un doppio coro. Infine, giustifica la scelta del titolo della commedia, sottolineando che il coro delle rane per primo entrava in scena e che Aristofane sentiva molto la tradizione, tipica della commedia antica, di formare un coro con animali.

 

Marshall ha immaginato che le rane nuotassero con visibilità per gli spettatori, ma non per Dioniso, impegnato a remare. Questa soluzione al problema drammaturgico è stata avanzata anche da Rothwell. Aristofane non descrive le rane solo con caratteristiche acustiche: saltano nella palude tra le canne, le loro bolle d’aria hanno impatto visivo oltre che uditivo. Il problema dei costi per l’allestimento di un doppio coro non doveva sussistere.

 

Anche un’analisi sintetica, come quella fin qui compiuta, delle posizioni della critica evidenzia come la questione della presenza e della visibilità delle rane nelle Rane non abbia ancora ricevuto una risposta adeguata. Come è emerso nel corso dell’indagine, il problema di drammaturgia impone riflessioni sul ruolo e sulla funzione delle rane nello svolgimento del dramma. Tutto questo indica con sufficiente chiarezza un aspetto di cui si deve tener conto: l’importanza del problema ai fini della comprensione della scena in sé. Osserviamo, dunque, in maniera puntuale questo segmento di commedia (209 - 267).

 

La scena del duetto lirico tra le rane e Dioniso viene preparata da Eracle (137) e, soprattutto, da Caronte (205 - 207), che annuncia canti bellissimi e meravigliosi di rane-cigni. I cigni sono meravigliosi cantori per antonomasia e il loro canto melodioso è in rapporto nella tradizione con Apollo, dio della musica e della poesia. Basti pensare a un celebre frammento di Alcmane (1 101 PMG) in cui il poeta allude non solo alla dolcezza del canto del cigno ma anche alla sua bellezza. Il riferimento alla chioma bionda potrebbe alludere all’ideale greco di bellezza.

 

È poi opinione diffusa già in Anacreonte (58 8 Gentili) e in Omero (Il. II 460 - 461) che il cigno sia originario del Nord della Grecia e dei fiumi d’Asia. Dover cita alcuni famosi versi degli Uccelli (769 - 784): «tale è il canto dei cigni,/ tiotiotiotiotiotiotiotinx/ che levano insieme allo strepito/ delle ali inneggiando ad Apollo/ tiotiotiotiotinx/ posati sulle rive dell’Ebro,/ tiotiotiotio/ e attraverso le nubi del cielo giunge la voce:/ palpitano le stirpi molteplici delle fiere/ e un sereno senza venti spiana le onde,/ totototototototototinx/ tutto l’Olimpo fa eco al fragore/ e un brivido prende i sovrani del mondo; e al grido risponde/ il canto delle Grazie celesti e delle Muse/ tiotiotiotiotinx».

 

Riguardo al nesso rane-cigni Del Corno considera i due termini legati in asindeto per designare un unico essere: il primo qualifica la specie, il secondo allude alla bellezza del canto. Il nesso è parodia degli hapax di Eschilo e di certi poeti ditirambici. Dietro questo epiteto lo studioso ha poi ipotizzato una sottile ironia in puro stile aristofaneo: «esse sono cigni, così le presenta Caronte: i sacri cantori divini -ma, quasi proverbialmente, i cigni muoiono, mentre queste rane sono immortali. C’è dello scherzo, naturalmente, sia nell’epiteto, sia nel fastidioso frastuono del loro gracidare: i Greci sapevano che senza lo scherzo ogni verità più alta diventa un tumore».

 

Secondo Campbell, presupporre un legame tra cigni e morte non è affatto necessario, dal momento che la scena è ambientata nell’Ade: i cigni non sono altro che meravigliosi cantori proprio come in Alcmane. Non è però da escludere un rapporto con il canto che i cigni producono prima della morte, un canto ben individuato da Eschilo nell’Agamennone (1444 - 1446).

 

Come fa notare Frenkel nel suo commento all’Agamennone, in questi versi Eschilo paragona il lamento di morte di Cassandra al canto meraviglioso prodotto dal cigno per annunciare la sua imminente fine. Un’altra celebre testimonianza sul canto del cigno è presente nel Fedone di Platone (84 e 1 - 85 a 3), in cui viene ripresa l’immagine del cigno che canta splendidamente prima di morire, in segno di gioia per il ricongiungimento con Apollo, di cui è servitore. In ogni caso, Dunbar osserva che Aristofane gestisce il canto delle rane con il suono soave del canto del cigno. In tal senso, nel nesso rane-cigni è possibile scorgere un rapporto ossimorico.



 

 

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