SULLA GUERRA DI COREA
DALLA DIVISIONE IN DUE
DEL PAESE AL CONFLITTO
di Lorenzo Bruni
La separazione della penisola
coreana in due entità distinte è da
far risalire al termine della
seconda
guerra mondiale: in una conferenza
tenuta al Cairo il 22 novembre 1943
venne stabilito che, a tempo debito,
l’allora possedimento giapponese
della Corea sarebbe dovuto diventare
uno Stato libero e indipendente con
capacità di autogovernarsi;
nell’incontro tenutosi invece a
Jalta nel febbraio 1945, si convenne
che la decisione più conveniente,
per il momento, sarebbe stata quella
non di concedere immediatamente
l’indipendenza alla penisola, ma di
provvedere a una divisione politica
del territorio seguendo il 38°
parallelo, con una parte
settentrionale sotto il controllo
sovietico e una meridionale sotto
quello occidentale.
La
volontà era quella di non creare
conflitti politici in una fase
cruciale della guerra, né di
consentire ad alcuna potenza di
ottenere un decisivo ascendente su
una zona di notevole importanza. In
ogni caso, l’idea di partenza era
che tale suddivisione avrebbe dovuto
durare soltanto cinque anni, cioè
fino al momento in cui si riteneva
che la nuova Repubblica Popolare di
Corea avrebbe potuto contare su
un’organizzazione propria abbastanza
stabile da riuscire a controllare il
proprio territorio senza l’aiuto
straniero.
In realtà, i contrasti tra le
potenze vincitrici iniziarono ben
presto ad allontanare una soluzione
comune: sebbene nel dicembre 1945,
in una conferenza tenuta a Mosca,
tutte le parti in causa si fossero
trovate d’accordo sulla decisione di
stabilire un protettorato comune e
fosse stata creata una commissione
congiunta sovietico-statunitense per
supervisionare l’evoluzione della
situazione coreana, negli anni
seguenti quest’organo speciale si
riunì in modo discontinuo e
inefficace a Seul, senza riuscire a
trovare un accordo sull’istituzione
di un governo di unità nazionale.
Infastiditi da tale
impasse,
e sempre più catapultati in quel
clima di feroce competizione che
avrebbe caratterizzato la Guerra
Fredda, gli Stati Uniti posero la
questione all’attenzione dell’ONU,
che, nell’agosto 1948, stabilì la
creazione di una nuova Repubblica di
Corea, con capitale a Seul e sotto
la presidenza di Syngman Rhee. Nel
settembre successivo, a Nord venne
istituita la Repubblica Democratica
di Corea, il cui controllo venne
affidato a Kim Il-Sung, che stabilì
la capitale a Pyongyang.
Nonostante il conseguente ritiro di
truppe statunitensi dal
sud
e di quelle sovietiche dal
nord,
il desiderio principale di entrambi
i nuovi Stati era quello di
diventare promotori di una nuova
organizzazione unitaria della
penisola. Il governo di Pyongyang
così iniziò a preparare
accuratamente l’inizio del
conflitto: la
Repubblica Democratica Popolare di
Corea (RDPC)
non soltanto risultava essere meglio
armata e più sviluppata dal punto di
vista industriale ed economico
rispetto ai territori del Sud, ma
disponeva anche di un esercito più
temprato e di un abile comandante,
lo stesso Kim Il-Sung, che si era
impegnato in prima persona
nell’organizzare e combattere la
guerriglia coreana contro il
Giappone, il quale ordinò che per
tutto il 1949 i propri soldati
venissero duramente addestrati in
Manciuria.
In un primo momento il dittatore
nordcoreano si fece promotore di
attività di semplice partigianato
comunista, finanziato da Unione
Sovietica e Cina, nei territori del
Sud; quando divenne palese però che
esso non avrebbe dato alcun esito
positivo nella Repubblica di Corea,
soprattutto a causa della dura
soppressione di qualsiasi gruppo
comunista voluta da Rhee, Kim
Il-Sung comprese che era arrivato il
momento di passare all’azione
pratica.
Prima accusò,
probabilmente a ragione,
il governo di Seul di avere
effettuato
2.617
incursioni armate nei territori del
Nord, allo scopo di minare l’ordine
sociale, compiendo razzie, omicidi
mirati, saccheggi, rapimenti e
incendi dolosi; dopodiché, forte del
supporto materiale di Stalin e,
soprattutto, di Mao, il 25 giugno
1950, ordinò l’invasione del
territorio a Sud del 38° parallelo.
L’esercito del Nord poteva contare
su un effettivo di circa
350.000
uomini, i quali disponevano inoltre
di circa cinquecento carri armati,
duemila pezzi d’artiglieria e un
numero non meglio precisato di aerei
da combattimento; la controparte
sudcoreana invece non poteva vantare
una simile organizzazione:
l’esercito di Rhee non arrivava a
contare neppure
100.000
uomini, con poco addestramento
ed
esperienza alle spalle e
con uno scarso supporto tecnologico.
L’avanzata dell’esercito del Nord fu
fulminea e inarrestabile: a nulla
valsero le richieste delle Nazioni
Unite per un cessate il fuoco e un
ritorno allo
status quo,
né le sanzioni economiche e
commerciali che vennero decretate.
Il 27 giugno, quando la quasi
totalità della penisola, eccetto la
zona attorno al porto di Pusan, era
nelle mani della RDPC, il presidente
statunitense Truman ottenne dal
Consiglio di sicurezza delle Nazioni
Unite il permesso di intervenire
militarmente nel conflitto: il
giorno successivo assegnò al
generale Douglas MacArthur il
comando del
Far East Command
e inviò truppe americane nella zona
di guerra.
Nonostante un approccio estremamente
complesso, l’avanzata dei
nordcoreani venne rallentata dal
massiccio impiego dell’aereonautica
americana, dando il tempo alle
Nazioni Unite di formare
un’ulteriore forza internazionale,
organizzata dagli Stati Uniti, ma
comprendente soldati provenienti da
altri diciotto Paesi.
Tra il settembre e l’ottobre
successivo, l’esercito dell’ONU
riuscì ad arrestare completamente
l’avanzata nemica e a organizzare un
contrattacco: il 15 settembre, al
termine di un massiccio
bombardamento al napalm, venne
condotto un attacco anfibio circa
200 km a Nord di Pusan, in
prossimità del porto di Incheon, che
aveva come scopo quello di chiudere
l’esercito nordcoreano tra due
fuochi, impedire loro l’arrivo di
rifornimenti e precludere
un’eventuale ritirata verso
Pyongyang. Questo, colto alla
sprovvista, interruppe ogni piano di
conquista e ripiegò alla disperata
verso la propria terra d’origine.
Il 17 settembre
1950,
le truppe guidate dal generale
MacArthur ripresero il controllo
della capitale Seul e dopo altri
nove giorni raggiunsero il vecchio
confine al 38° parallelo,
sbaragliando ogni resistenza grazie
all’inarrestabile avanzata dei
propri mezzi corazzati. Il 29
settembre il presidente Truman,
vedendo davanti a sé la ghiotta
opportunità di debellare un regime
comunista,
diede l’autorizzazione a
oltrepassare il confine per
liquidare il governo di Kim Il-Sung:
i bombardamenti aerei si fecero più
massicci e distrussero città, linee
di rifornimento, ferrovie e porti,
mietendo numerose vittime tra i
civili.
Mentre il 19 ottobre le truppe
statunitensi e sudcoreane
conquistavano Pyongyang, Kim Il-Sung
fuggiva a Pechino, implorando Mao
Tse-tung, al quale aveva fornito un
aiuto fondamentale durante la guerra
civile cinese, di combattere in suo
soccorso. Il regime cinese, che
probabilmente aveva contribuito
attivamente sin dagli inizi della
guerra coreana, intimò agli Stati
Uniti di cessare la conquista della
RDPC e di ristabilire lo
status quo
precedente. Ignorando tale monito,
MacArthur continuò ad avanzare,
giungendo fino alle rive del fiume
Yalu, cioè al confine con la Cina.
Il 27 ottobre, l’esercito cinese
guadò il fiume, abbattendosi su
quello statunitense: si calcola che
un numero compreso tra i
180.000
e il
260.000
uomini travolse le forze nemiche,
costringendole a una precipitosa
ritirata; già il 3 novembre,
abbandonando dietro di sé la maggior
parte delle attrezzature militari e
salvando i feriti solo grazie al
pronto intervento dell’aereonautica,
le truppe dell’ONU ripiegavano oltre
il fiume Ch’ŏngch’ŏn, abbandonando
il territorio nordcoreano.
I due mesi successivi videro
un’alternarsi di piccole vittorie
prima da una parte e poi dall’altra,
finché il 5 dicembre l’esercito
cinese non riuscì a recuperare
Pyongyang, spingendosi, il 4 gennaio
1951, a superare il 38° parallelo e
a occupare Seul. Questo momento
rappresenta però l’ultimo successo
cinese in Corea del Sud: sfiancati
dalla lunga marcia e dilaniati dal
continuo bombardamento statunitense,
iniziarono a subire la nuova
controffensiva americana, perdendo
definitivamente il controllo della
capitale della Repubblica di Corea
il 14 marzo.
Tra la fine del mese e inizio
aprile, quando le truppe dell’ONU
superarono nuovamente il 38°
parallelo, accadde un fatto che ebbe
grosse ripercussioni sul susseguirsi
degli eventi: preoccupato, o
innervosito, dai numerosi tentativi
del generale MacArthur di
convincerlo a sganciare la bomba
atomica su Pechino, il presidente
Truman lo sollevò dall’incarico,
sostituendolo con il generale
Ridgway e iniziando, su suggerimento
di Stalin, a intavolare trattative
di pace a Kaesŏng. Intanto la
guerra, che aveva visto una nuova
controffensiva cinese concludersi
con un nulla di fatto, si era
trasformata in un’estenuante guerra
di posizione, composta da attacchi e
contrattacchi incessanti e a ritmo
frenetico, ai quali doveva
aggiungersi il terribile incubo dei
bombardamenti aerei.
Stremati dall’enorme peso economico
del conflitto e dalla grande
quantità di vite umane
cadute,
dal giugno 1951 le due parti
iniziarono a negoziare ufficialmente
la fine dei combattimenti. Nei due
anni successivi, le trattative di
pace, rese insicure e difficoltose
dall’improvvisa ripresa delle
ostilità di entrambi gli
schieramenti, portarono il 27 luglio
1953 alla firma dell’armistizio di
Panmunjeom. In base a tale accordo,
la penisola di Corea veniva divisa
definitivamente in due Stati
autonomi e indipendenti, la Corea
del Nord e la Corea del Sud, mentre
si stabiliva che nel cuore del
territorio, in prossimità del 38°
parallelo, venisse creata una zona
neutrale, la Zona Demilitarizzata
Coreana, occupata militarmente dagli
Stati Uniti e dalle Nazioni Unite,
che fungesse da “cuscinetto” contro
ogni eventuale ripresa delle
ostilità.
Tutt’oggi,
l’armistizio di Panmunjeom non è da
considerarsi un trattato di pace,
bensì un concordato di cessate il
fuoco che interrompesse il conflitto
in attesa di giungere a un accordo
migliore. La tregua del 1953 è da
considerarsi la più duratura della
storia e ha gettato le basi
per la condizione attuale
che tutt’oggi si mantiene tra i due
Paesi.