IL
TRIONFO DELL’ITALDAVIS
IL TENNIS TORNA NEL CUORE DEGLI
ITALIANI
di Valerio Acri
Uno sport ritrovato come un trofeo
che mancava all’Italia da quasi
mezzo secolo e la consacrazione del
Campione capace di trascinare una
squadra, catalizzare l’entusiasmo
popolare e convogliare la passione
collettiva. Il tennis azzurro e la
classe da predestinato di Jannik
Sinner ci hanno consegnato lo
scorso novembre 2023 una storia
italiana, una di quelle capaci anche
di spiegare l’astrazione del
concetto di Nazione.
La Coppa Davis riconquistata
dopo 47 anni è a tutti gli effetti
uno di quei momenti attraverso i
quali il Paese si riscopre fiero
specchiandosi nei riflessi di un
successo sportivo che è anche una
prima volta assoluta per tre
generazioni di appassionati. Per
oltre quattro lustri l’Italia
tennistica ha peregrinato in attesa
del suo fuoriclasse, cullandosi nel
ricordo di quell’unica insalatiera
d’argento conquistata nel 1976 pochi
giorni prima di Natale a Santiago
del Cile, nel bel mezzo della
dittatura sanguinaria di Augusto
Pinochet e dei dissensi di quanti
avevano chiesto a gran voce di
boicottare la coppa in segno di
protesta.
Forse anche per i suoi connotati
extra-sportivi quella vittoria ha
potuto perpetuarsi nell’immaginario
collettivo, celebrata anno dopo anno
come un’eccezione sempre più antica,
meritevole infine anche di una
docu-serie a puntate narrata dai
suoi protagonisti Nicola
Pietrangeli, Adriano Panatta,
Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci
e Antonio Zugarelli.
Il trionfo del 2023 al Palacio de
Deportès di Malaga ha quindi portato
con sé quella sottile sensazione di
liberazione che accompagna
spontaneamente la fine di ogni lunga
astinenza, ancor più tale se si
pensa che la Davis è di fatto il
Mondiale del tennis ma, a differenza
della massima rassegna calcistica,
non ha una cadenza quadriennale e si
mette regolarmente in palio ogni
anno dal 1900 (uniche eccezioni
l’edizione del 1901, quelle degli
anni delle due guerre mondiali e il
2020 in piena pandemia).
Brevettata dall’americano Dwight
Davis, ottimo giocatore di doppio, a
ben vedere è la più antica
competizione sportiva mondiale per
Nazioni, “un’autentica anomalia di
squadra in uno sport individuale
come il tennis”, secondo la
definizione dello Scriba della
racchetta Gianni Clerici. Per oltre
70 anni è rimasta appannaggio di una
ristretta élite composta da Gran
Bretagna, Stati Uniti, Australia e
Francia per poi aprirsi finalmente
ad altre latitudini tennistiche
compresa la nostra.
Da Santiago del Cile a Malaga è
stato però un guado a tratti
interminabile, imboccato dopo il
lento crepuscolo del quartetto
Panatta-Barazzutti-Bertolucci-Zugarelli
che si congedò di fatto nel 1980 con
la finale persa a Praga contro la
Cecoslovacchia di Ivan Lendl. Nel
1998 si raggiunse una sponda con la
finale disputata per la prima e
unica volta in Italia nell’indoor
milanese del Forum di Assago. Era la
Nazionale di buoni giocatori come
Andrea Gaudenzi, Diego Nargiso e
Davide Sanguinetti che dovette
arrendersi alla Svezia e alla
sfortuna (nel primo singolare
Gaudenzi giocò stoicamente con un
tendine della spalla martoriato fino
ad alzare bandiera bianca al
tie-break del quinto set).
L’onta di una doppia retrocessione
nei primi anni 2000, in Serie B e
poi in Serie C, sembrò spingere la
Nazionale e l’intero movimento in un
deserto sportivo, fino a riemergere
nel tennis che conta grazie
soprattutto a un top-10 come Fabio
Fognini, primo azzurro a vincere il
prestigioso Masters 1000 di
Montecarlo nell’era Open (quella
aperta ai professionisti) e alfiere
di Davis dell’ultimo decennio prima
di Malaga.
Due estati fa sentimmo chiaramente
che sul tennis azzurro soffiava
ormai un vento nuovo e a tratti
sconosciuto, come l’emozione di
vedere un italiano in finale a
Wimbledon. Mai in 100 anni di storia
un nostro tennista era arrivato
all’atto conclusivo del Major più
illustre e pazienza se Matteo
Berrettini dovette poi inchinarsi a
Novak Djokovic e successivamente
anche ai ripetuti infortuni che lo
hanno costretto a essere a Malaga
solamente come tifoso al seguito.
Nel frattempo Sinner aveva
cominciato a farci alzare il
sopracciglio vincendo prima le
NextGen (2019, il torneo riservato
ai migliori Under-21 del mondo) e
poi facendo il suo esordio (2021)
sul palcoscenico delle AtpFinals,
subentrato proprio in sostituzione
di Berrettini infortunato. Erano i
primi bagliori del suo talento
cristallino che oggi sembra
destinato a brillare per lungo tempo
nel firmamento del tennis mondiale e
autorizza a sognare nel futuro nuovi
trionfi come la vittoria di uno
Slam, quella agli Internazionali di
Roma sulla terra del Foro Italico e
magari anche la conquista del numero
1 del ranking Atp.
Intanto è riuscito, in due settimane
di autentica febbre tennistica, a
scalzare addirittura il TG1 sul
primo canale Rai per la diretta
della finale delle AtpFinals di
Torino contro Novak Djokovic e ad
aggregare oltre sei milioni di
telespettatori per quella del match
decisivo dell’insalatiera nel quale
ha strapazzato l’australiano Alex De
Minaurlasciandogli appena tre
giochi. Una sorta di rigenerazione
mediatica per il tennis che, dopo la
retrocessione dell’ItalDavis in
Serie B nel 2000, era gradualmente
sparito dai palinsesti
dell’emittente di Stato insieme alle
esaltanti telecronache di Giampiero
Galeazzi.
Erano gli anni nei quali i pochi
spazi di visibilità lasciati dal
calcio agli altri sport divenivano
appannaggio dei record di Federica
Pellegrini nel nuoto, dei successi
di Valentino Rossi nel motociclismo
e del ciclo vincente di Michael
Schumacher alla guida della Ferrari.
Il nobile sport della racchetta
sopravviveva invece a stento nelle
televisioni a pagamento e,
all’occorrenza, gli archivi delle
reti di Stato potevano rispolverare
le immagini in pellicola del
fotografo Gigi Oliviero, unico
reporter presente nel ‘76 a Santiago
del Cile – a titolo personale e a
proprie spese – per documentare la
prima insalatiera azzurra perché la
Rai, in sdegno al regime di
Pinochet, disertò la trasferta
sudamericana limitandosi a inviare
Mario Giobbe per una radiocronaca
degli incontri.
Separati da 47 anni i due trionfi
tennistici del nostro Paese
raccontano ovviamente anche
l’evoluzione di uno sport e del suo
pubblico. Quella attuale è una Davis
in formato ridotto, compressa in due
sole settimane l’anno per lasciare
spazio ai tornei del Circuito Atp in
un calendario divenuto nel tempo
sempre più fitto e all’interno del
quale i top-player faticano a
concedersi alla Nazionale. Lo stesso
Sinner aveva preferito declinare la
convocazione azzurra per gli
incontri del Round Robin e, priva di
lui, la squadra capitanata da
Filippo Volandri aveva barcollato
all’Unipol Arena di Bologna,
sconfitta impietosamente dal Canada
e vittoriosa solo in rimonta sul
Cile con Lorenzo Sonego costretto a
salvare quattro match-point contro
Nicolas Jarry.
La necessità di assecondare le
esigenze dei giocatori e mantenere
alto l’interesse del pubblico ha di
fatto mandato in soffitta la formula
storica della Coppa Davis
–certamente più rispondente alla sua
ultracentenaria tradizione – che
prevedeva quattro singolari (anziché
due) e il doppio in match al meglio
dei cinque set (come negli Slam)
all’interno di un tabellone con
confronti a eliminazione diretta
diluiti in tre giorni dal venerdì
alla domenica.
Anche nel suo formato 2.0, però,
l’affascinante anomalia di questa
coppa capace di trasformare il
tennis in uno sport di squadra ha
regalato un’eccezione nella (quasi)
eccezione quando Jannik Sinner,
opposto a Djokovic nella semifinale
contro la Serbia, ha saputo risalire
la china e imporsi in un match nel
quale il tennista più vincente di
sempre è uscito battuto dopo essere
stato per tre volte a un solo
“quindici” dal successo.
Il campione altoatesino ha poi
firmato il Davis-point servitogli
con coraggio da Matteo Arnaldi,
messo alle corde nel primo singolare
della finale dall’australiano Alexei
Popyrin, al quale ha dovuto
annullare otto palle-break nel set
decisivo prima di strappargli il
servizio e consentire all’Italia di
allungare le mani sui manici
dell’insalatiera più ambita. Per
sollevarla la squadra azzurra ha
dovuto attendere la vittoria di
Sinner su De Minaur, una formalità
che ha spezzato il tabù
consegnandoci un’impresa sportiva
destinata a essere raccontata.
Riferimenti bibliografici:
Gianni Clerici, Il grande tennis,
Mondadori, Milano 1978.