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N. 104 - Agosto 2016 (CXXXV)

Gli USA E gli strascichi della Guerra fredda
SULLe conseguenze della caduta dell’URSS

di Valerio Mero

 

«Why do they hate us?» fu la domanda che si fecero molti americani dopo l’11 settembre. Le risposte sono state tante. Secondo la versione di Bush, i terroristi odiano le libertà americane perché invidiosi del fatto che gli Stati Uniti possano vantare un regime democratico, rispettoso quindi della dignità e dei diritti umani, mentre loro hanno solo leader autonominati (e sanguinari); più o meno sulla stessa lunghezza d’onda si trova Bernard Lewis, uno dei più importanti studiosi del Medio Oriente, «noi abbiamo avuto successo, mentre loro hanno fallito»; un’altra versione considera il coinvolgimento dei musulmani nei conflitti europei, quindi ritiene che noi occidentali siamo responsabili di aver insegnato loro a odiarci.

 

Durante gli anni di Clinton, cominciarono a rendersi sempre più concrete alcune forme di odio nei confronti degli statunitensi, un odio accentuato dalle molteplici situazioni di crisi mal gestite, come i bombardamenti sull’Iraq che proseguirono per tutti gli anni Novanta, il permanere delle truppe statunitensi in Arabia Saudita, nel Kuwait liberato e in altre aree della regione, che sollevarono l’ira di gruppi islamici radicali guidati da Osama Bin Laden; oltre alla vicinanza alla causa israeliana. Il Segretario di Stato, Madeleine Albright, sostenne che gli Stati Uniti non dovevano più affrontare un’unica grande e potente minaccia, come durante la Guerra fredda, ma tanti piccoli pericoli.

 

Una parola in particolare seguì tutto il primo mandato di Clinton, «allargamento». Anthony Lake, consigliere per la sicurezza, sostenne si dovesse passare da una strategia di contenimento a una di allargamento, mentre M. Albright sostenne che solamente agli Stati Uniti spettava il diritto di individuare un ruolo per se stessi. Le contraddizioni erano evidenti, sia dentro l’amministrazione che nell’attuazione della politica estera.

 

Dalle dichiarazioni di M. Albright si può intravedere una forma particolare di nazionalismo, che ritroviamo spesso nel dibattito politico. È un nazionalismo eccezionalista, nel senso che considera gli Usa un paese unico; si basa sulla convinzione che gli Stati Uniti costituiscano un “paradiso” di libertà e democrazia a cui tutti aspirano, e che siano investiti da Dio per portare al resto dell’umanità il dono della libertà.

 

I vari miti, come quello del «destino manifesto», presenti all’interno del dibattito politico statunitense, hanno di conseguenza influenzato il capitalismo, dando un carattere espansionistico e interventista alla politica estera americana. Il risultato, dal punto di vista economico, non è molto diverso da quello ottenuto con il colonialismo europeo.

 

Nel primo decennio del Novecento, il consumismo di massa si espanse oltre i confini americani giungendo prima in Europa e poi nel resto del mondo. Si formò quello che Victoria De Grazia chiama l’«Impero del Mercato», cioè un impero senza frontiere che ha raggiunto il suo massimo splendore nella seconda metà del secolo, e che già ormai da un po’di tempo ha iniziato a mostrare i primi segni di declino.

 

Come dice De Grazia, il mondo vide «l’ascesa di un grande impero con i contorni di un grande emporio» (De Grazia, 2006, p. XV). Attraverso il commercio di massa, quindi la capacità di produrre e vendere beni in grandissime quantità, si diffuse anche «l’idea che le comodità materiali siano il corollario indispensabile di diritti quali la libertà, il diritto alla vita e alla felicità»: il possesso e l’utilizzo di beni che favorivano la comodità e generavano un sentimento artificiale di felicità, venivano accostati alla libertà, alla giustizia e all’umanità (De Grazia, 2006, p. XIV).

 

Gli Stati Uniti si lanciarono, così, alla conquista del mondo in maniera apparentemente pacifica, con i mezzi del “soft power” dei consumi di massa, che si basavano sul diritto alla libertà di scelta e quindi sul consenso dei consumatori dato dal loro benessere materiale.

 

Questa idea di istituzione pacifica dell’impero del mercato, in grado di tenere la guerra lontano dall’Europa, veniva offuscata da numerose campagne militari in quelle aree del mondo dove non arrivava il coinvolgimento al consumo sfrenato; era quella “democrazia dei consumi”, o forse più “dittatura dei consumi”, che oggi ha disperso la richiesta di democrazia in Cina, rendendo i giovani studenti cinesi, che prima erano animati da sentimenti di protesta, assuefatti ai beni del consumismo.

 

Sin da prima della Grande Guerra, gli Stati Uniti guardavano all’Europa come a un continente in continua crisi, dalla natura decadente, un insieme di Stati ormai in declino, in preda a frequenti litigi di tipo politico o per contendersi porzioni di territorio.

 

Il modo di vedere l’Europa non è cambiato nel corso degli anni, infatti nella seconda metà degli anni Trenta e durante tutta la Seconda guerra mondiale, molti americani, Roosevelt in testa, erano convinti che il sistema europeo fosse marcio, che la guerra fosse una condizione cronica e che chiarisse quale fosse il vero carattere dell’Europa (Langer e Gleason, 1952, p. 14).

 

Paradossalmente, dopo la Seconda guerra mondiale, i ruoli si invertirono. Durante tutto il secondo Novecento, gli Stati Uniti utilizzarono più volte il pretesto della Guerra fredda e del terrorismo per un intervento armato, fino alla Guerra in Iraq del 2003. Infatti, la campagna contro il terrorismo dell’amministrazione Bush fu subito criticata da molti alleati degli Usa.

 

Al contrario del primo Novecento, negli Stati Uniti erano popolari le tesi che contrapponevano una nuova «Europa femminea» e incapace di affrontare le situazioni di crisi internazionali, a un’America virile, l’unica in grado di garantire la sicurezza mondiale (Keagan, 2003). Mentre, da contrasto, l’Europa vedeva gli Stati Uniti come un paese di guerrafondai, contrapposto al modello europeo, civile e pacifico, di un continente che aveva conosciuto sulla propria terra e sulla propria pelle cosa fosse la guerra.

 

Il paradosso che vedeva l’Impero del mercato, da una parte impegnato in numerose guerre e dall’altra portatore della pace e della democrazia del consumo di massa, non sembrò danneggiare più di tanto l’immagine americana fino al termine della Guerra fredda.

 

Dopo la caduta del comunismo sovietico iniziò a cambiare qualcosa, sia fuori sia dentro gli Usa. Da una parte, la perdita dell’avversario fece percepire la potenza americana in senso negativo: se la prepotenza delle azioni americane potevano essere in un certo qual modo giustificate durante la Guerra fredda a causa della contrapposizione con il nemico comunista, ora non lo erano più; dall’altra, fu il concetto di “soft power” che venne utilizzato in maniera differente.

 

Se con l’eredità di Wilson il consumismo americano andava a conquistare l’Europa per scoprire quello che gli europei volevano adattando i prodotti ai loro desideri, ora il marketing era diventato l’imposizione di un desiderio: «l’arte di vendere era diventata non uno strumento dell’arte di governare, bensì un suo surrogato e l’inquietante vetrina dove era esposta la politica dell’Impero, con la sua bellicosità globale» (De Grazia, 2006, pp. 507-508).

 

Il nemico era venuto meno e gli Stati Uniti avevano iniziato a esercitare la loro influenza internazionale, non in maniera cooperativa, ma attraverso una politica unilateralista del tutto anacronistica, convinti che, con la caduta dell’Unione Sovietica, si fosse passati a un unipolarismo americano.

 

Ma il sistema internazionale, fino ad ora strutturato in senso bipolare con la contrapposizione Usa-Urss, si vide riorganizzato in più centri di potere, nessuno dei quali in grado di dominare sugli altri, sicuramente, gli States erano il più influente, ma non era più in grado di controllare la situazione internazionale con le sue sole forze. I tanti errori di politica estera, commessi durante la Guerra fredda, avevano alimentato una forma di mal contento, che si andò a sommare all’arroganza della potenza unilaterale o super potenza, come era stata battezzata.

 

Lucio Caracciolo sostiene che, quando l’Urss venne meno, gli Stati Uniti «pensarono di aver vinto, scambiando l’altrui suicidio per il proprio successo» (Caracciolo, 2011, pp. 9-10). Per definizione, la Guerra fredda è uno scontro ideologico che non potendo essere risolto militarmente, può solamente concludersi con la consunzione dell’avversario, quindi con l’autodistruzione.

 

Al contrario di ciò che afferma Caracciolo, gli Usa non persero la Guerra fredda, piuttosto non furono capaci di gestire le conseguenze dalla vittoria, spinti dal loro nazionalismo eccezionalista.

 

 

Riferimenti bibliografici

 

V. De Grazia, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Einaudi, Torino 2006.

Langer e Gleason, The Challenge to isolation, 1937-1940, New York 1952.

P Keagan, Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Mondadori, Milano 2003.

L. Caracciolo, America vs America. Perché gli Stati Uniti sono in guerra contro se stessi, Laterza, Roma-Bari 2011.



 

 

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