N. 139 - Luglio 2019
(CLXX)
PARIGI 1919
IL
CONGRESSO
DELLA
PACE
–
Parte
I
di
Raffaele
Pisani
Nell’agosto
del
1917,
nella
Nota
ai
capi
dei
popoli
belligeranti,
Benedetto
XV
esortava
alla
pace,
da
attuarsi
prima
che
uno
dei
fronti
contendenti
fosse
ridotto
all’impotenza.
Egli
sosteneva
che
la
vera
pacificazione
si
potesse
realizzare
solo
se
entrambi
i
contraenti
fossero
in
condizione
di
poter
trattare.
In
caso
contrario
ci
sarebbe
solo
una
resa
e
uno
spirito
di
rivincita
pronto
a
esplodere.
Sappiamo
come
questa
Nota
alla
fine
non
abbia
trovato
favorevole
accoglimento
da
ambedue
le
parti.
In
questa
circostanza
la
diplomazia
vaticana
giocò
un
ruolo
di
primo
piano,
le
riposte
arrivarono
dalle
potenze
centrali
che
parvero
accettare
in
parte
le
proposte
della
Nota.
Una
posizione
di
netto
rifiuto
venne
dall’Italia
che
vi
vedeva
una
manovra
per
dividere
gli
alleati;
il
risultato
fu
quello
che
tutti
conosciamo:
la
continuazione
del
conflitto.
Giova
notare
che
certi
aspetti
come
l’arbitrato
internazionale,
la
libertà
di
navigazione
e la
riduzione
bilanciata
delle
forze
armate
erano
analoghi
ai
Punti
che
Wilson
renderà
noti
sei
mesi
più
tardi,
ma
proprio
dal
presidente
degli
Stati
Uniti
vennero
formulate
tante
obiezioni
che
contribuirono
a
bocciare
la
proposta
pontificia.
Il
fallimento
della
Nota
fu
certamente
motivo
di
amarezza
per
il
Santo
Padre;
in
un
appunto
manoscritto
a
margine
di
una
copia
del
documento,
prefigurando
quanto
sarebbe
potuto
accadere,
si
espresse
nei
seguenti
termini:
«In
ogni
guerra
per
giungere
alla
pace
si è
dovuto
smettere
il
proposito
di
schiacciare
l’avversario:
mettere
l’avversario
in
condizioni
di
non
più
tentare
la
prova
è
una
stoltezza,
perché
la
prova
potrà
essere
ritentata
dopo
qualche
tempo,
sia
perché
realmente
l’avversario
ha
riconquistate
le
forze,
sia
perché
ha
creduto
di
averle
riconquistate.
Le
guerre
esisteranno
non
finché
vi
sarà
la
sola
forza,
ma
finché
vi
sarà
l’umana
cupidigia».
Intanto
la
guerra
continuava,
la
seconda
metà
del
1918
vide
la
netta
prevalenza
delle
forze
dell’Intesa
nei
confronti
degli
Imperi
centrali
e
dei
loro
alleati,
ormai
prossimi
al
collasso.
Il
primo
paese
a
chiedere
la
cessazione
delle
ostilità
fu
la
Bulgaria,
alla
fine
di
settembre,
seguita
il
mese
successivo
dall’Impero
Turco.
Il 3
novembre
anche
l’Impero
Austro-Ungarico
firmò
l’armistizio,
a
Villa
Giusti
presso
Padova,
la
settimana
successiva
a
Compiègne
la
Germania,
già
trasformata
in
repubblica,
firmerà
la
cessazione
delle
ostilità.
Il
periodo
immediatamente
successivo
fu
caratterizzato
da
grande
confusione,
i
governi
dei
paesi
vincitori
consideravano
troppo
dispendioso
occupare
militarmente
le
nazioni
sconfitte.
D’altra
parte
si
rendeva
necessario
stabilire
al
più
presto
un
nuovo
ordine
in
Europa
e
nel
Medio
Oriente,
non
dimenticando
le
altre
parti
del
mondo
nelle
quali
il
conflitto
aveva
messo
in
moto
rilevanti
cambiamenti.
Quello
che
stava
succedendo
in
Russia
a
poco
più
di
un
anno
dalla
rivoluzione
d’ottobre
era
fonte
di
grande
preoccupazione;
c’era
chi
pensava
fosse
opportuno
aiutare
militarmente
le
armate
bianche
contro
i
bolscevichi,
cosa
che
effettivamente
fu
fatta,
ma
c’era
anche
chi
pensava
di
poter
associare
la
nuova
Russia
al
contesto
europeo,
a
prescindere
dal
tipo
di
istituzione
essa
si
volesse
attribuire.
Per
questi
e
per
altri
motivi
venne
convocata
la
Conferenza
di
Parigi,
che
cominciò
i
suoi
lavori
a
partire
dal
gennaio
del
1919.
Le
potenze
della
coalizione
vincitrice
erano
molto
numerose,
anche
se
per
alcune
la
partecipazione
fu
solo
un
atto
formale.
Fra
quelle
che
effettivamente
avevano
sostenuto
il
peso
della
guerra
venne
a
determinarsi
una
sorta
di
gerarchia
nella
rappresentanza,
in
base
al
peso
politico
che
avevano,
alle
forze
impiegate
nel
conflitto
e al
numero
dei
caduti.
Le
delegazioni
degli
Stati
Uniti,
della
Gran
Bretagna,
della
Francia,
dell’Italia
e
del
Giappone
determinarono
la
prima
parte
dello
svolgimento.
I
lavori
congressuali
andarono
avanti
con
assemblee
plenarie,
pressoché
rituali,
e
confronti
a
cinque
e in
certi
periodi
anche
a
quattro
o a
tre,
per
l’uscita
del
Giappone
e,
per
qualche
tempo,
dell’Italia.
La
posizione
degli
Americani,
che
avevano
preso
parte
al
conflitto
come
associati,
si
distaccava
da
quella
delle
potenze
vincitrici
europee;
i
Quattordici
punti
che
il
presidente
Wilson
aveva
notificato
un
anno
prima
si
ispiravano
a
ideali
democratici
e
affermavano
l’autodeterminazione
dei
popoli,
la
libertà
di
navigazione
e di
commercio
e
l’impegno
a
non
stipulare
in
futuro
accordi
segreti.
Il
quattordicesimo
punto
prevedeva
la
costituzione
di
un
organismo
internazionale
capace
di
dirimere
eventuali
controversie
fra
stati.
Se
questi
principi
erano
funzionali
alla
situazione
americana,
non
lo
erano
altrettanto
a
quella
delle
potenze
europee,
che
chiedevano
adeguate
correzioni
a
difesa
dei
loro
interessi
territoriali;
visto
che
i
rapporti
di
forza
erano
piuttosto
bilanciati,
il
compromesso
sarà
la
regola
che
guiderà
i
lavori.
La
Società
delle
Nazioni,
che
rispondeva
alle
aspettative
del
presidente
americano,
mosse
i
suoi
primi
passi
già
nell’aprile
del
1919
con
l’approvazione
definitiva
del
suo
statuto,
anche
se
la
data
ufficiale
di
fondazione
è il
28
giugno,
coincidente
con
la
stipula
del
Trattato
di
Versailles.
Prevedeva
che
alle
cinque
grandi
potenze
vincitrici
fossero
assegnati
i
rispettivi
seggi
permanenti,
mentre
altri
quattro
a
rotazione
sarebbero
spettati
alle
potenze
minori.
C’era
pure
un
Segretariato
con
compiti
organizzativi
e
una
Corte
internazionale,
a
L’Aja,
per
dirimere
dispute
legali
fra
nazioni.
Nel
futuro
si
prospettava
che
questo
nuovo
organismo
internazionale,
dopo
aver
tentato
di
comporre
una
questione
tra
due
ipotetici
contendenti,
potesse
anche
richiamare,
condannare
e
sanzionare
i
trasgressori.
Esso
comunque
non
disponeva
di
una
forza
armata
propria,
ciò
impediva
di
rendere
esecutivo
quanto
avesse
stabilito.
Durante
i
mesi
del
congresso
affluirono
a
Parigi
portavoce
di
svariate
istanze
da
presentare
alle
numerose
commissioni
preposte:
dalle
femministe,
ai
rappresentati
di
gruppi
etnici
o di
popoli
soggetti
al
dominio
coloniale.
Un
aiuto
cuoco
che
lavorava
all’Hôtel
Ritz
espose
in
una
petizione
scritta
la
sua
idea
sul
futuro
dell’Indocina,
si
chiamava
Nguyen
Sinh
Cung,
diverrà
noto
con
lo
pseudonimo
di
Ho
Chi
Minh.
La
situazione
tedesca
era
certamente
il
nodo
cruciale
del
congresso,
la
Germania,
sconfitta
ma
non
destrutturata,
suscitava
ancora
timori,
in
primis
per
la
Francia,
meno
per
l’Impero
Britannico
e
quasi
per
niente
per
gli
Stati
Uniti;
possedeva
ancora
notevoli
forze
di
terra
e di
mare
(l’autoaffondamento
dell’intera
flotta
avverrà
il
21
giugno
del
1919)
e
uno
spirito
combattivo
non
pienamente
domato.
Molti
europei
di
lingua
tedesca
facevano
riferimento
alla
Germania
e
questo
contrapponeva
75
milioni
di
Tedeschi
a 40
milioni
di
Francesi.
Fra
i
trattati
di
pace
quello
che
ebbe
maggiore
rilevanza
si
firmò
a
Versailles
il
28
giugno
1919,
come
abbiamo
già
detto.
La
galleria
degli
specchi,
la
stessa
che
nel
1871
aveva
visto
la
proclamazione
del
Secondo
Reich,
vide
in
quest’occasione
l’umiliazione
della
Germania.
Le
potenze
vincitrici
le
imposero
condizioni
molto
dure,
avrebbe
dovuto
pagare
ingentissime
somme
per
i
danni
alla
Francia
e al
Belgio,
conseguenze
di
una
guerra
di
cui
fu
costretta
a
dichiararsi
responsabile,
assieme
ai
suoi
alleati,
com’è
specificato
nell’articolo
231.
Non
furono
tanto
le
perdite
territoriali
a
determinarne
il
rigore,
quanto
le
limitazioni
della
sua
sovranità.
Fu
imposta
la
riduzione
dell’esercito
a
soli
100.000
effettivi,
stimando
che
questo
sarebbe
potuto
bastare
a
uno
stato
delle
sue
dimensioni
per
gestire
le
normali
attività
di
sicurezza
interna.
Anche
i
mezzi
militari
e
gli
strumenti
di
trasmissione
delle
comunicazioni
furono
sottoposti
a
rigide
limitazioni.
La
Francia
e il
Belgio
volevano
essere
sicuri
del
risarcimento
per
le
devastazioni
subite
durante
il
conflitto,
perciò,
fu
imposto
alla
Germania
di
mettere
disposizione
per
15
anni
il
bacino
carbonifero
della
Saar.
L’Alsazia
e la
Lorena
tornarono
alla
Francia,
mentre
alla
rinata
Polonia
andarono
parti
della
Posnania,
della
Prussia
occidentale
e
della
Slesia
con
la
formazione
del
Corridoio
polacco.
A
Danzica
fu
conferito
lo
status
di
città
libera
sotto
il
controllo
della
Società
delle
Nazioni,
un
piccolo
territorio
passò
al
Belgio.
Le
colonie
africane
furono
spartite
tra
Francia,
Inghilterra
e
Belgio;
l’Africa
tedesca
del
Sud-Ovest
divenne
mandato
del
Sudafrica.
Nel
Pacifico
meridionale
i
possedimenti
sottratti
alla
Germania
andarono
a
favore
dell’Australia
della
Nuova
Zelanda
e
del
Giappone.
A
quest’ultimo
andò
anche
la
concessione
tedesca
di
Kiao-Ciao
nello
Shandong,
con
grande
risentimento
dei
Cinesi,
che
pure
avevano
dato
il
loro
contributo
a
fianco
dell’Intesa.
Ai
rappresentanti
tedeschi
non
fu
permesso
porre
obiezioni,
pena,
la
ripresa
delle
ostilità;
non
fu
un
trattato
dunque,
ma
un
vero
Diktat.
Il
conte
Harry
Kessler,
attento
e
critico
osservatore,
affermò
quasi
profeticamente:
«Per
l’Europa
inizia
un
periodo
tremendo,
è la
calma
prima
della
tempesta
che
finirà
con
un’esplosione
forse
ancora
più
terribile
della
guerra
mondiale».
Lo
smembramento
dell’Impero
Austro-Ungarico
comportò
la
nascita
di
molte
entità
statali:
Austria,
Cecoslovacchia,Ungheria
e
Regno
dei
Serbi,
Croati
e
Sloveni,
che
poi
si
chiamerà
Jugoslavia.
L’Italia
era
particolarmente
interessata
alla
questione
perché
era
la
potenza
contro
la
quale
aveva
combattuto
direttamente
e
dalla
quale
si
aspettava
adeguati
compensi
territoriali.
Ottenne
il
Trentino,
che
in
un
certo
senso
le
spettava
per
l’italianità
delle
genti,
e
pure
il
Sud
Tirolo,
poi
chiamato
Alto
Adige
abitato
da
popolazioni
quasi
totalmente
di
lingua
tedesca.
Ottenne
pure
la
Venezia
Giulia,
l’Istria
e la
città
di
Zara,
sulla
costa
dalmata.
Non
si
ritenne
adeguatamente
risarcita
in
relazione
al
peso
della
guerra
sostenuto;
nel
corso
dei
lavori
il
primo
ministro
italiano
Vittorio
Emanuele
Orlando
per
affermare
il
suo
dissenso
abbandonò
il
congresso,
ma
questo
non
servì
a
far
cambiare
idea
agli
altri
tre
grandi:
il
presidente
americano
Thomas
Woodrow
Wilson,
il
cancelliere
inglese,
David
Lloyd
George
e il
primo
ministro
francese
George
Clemenceau.
Il
trattato
di
pace
con
l’Austria
avvenne
nel
settembre
del
1919
a
Saint-Germain-en-Laye,
quello
con
l’Ungheria
vedrà
la
luce
nel
giugno
del
1920
a
Versailles,
porta
il
nome
Trianon,
il
palazzo
nel
quale
fu
stipulato.
La
Bulgaria,
che
aveva
partecipato
alla
guerra
a
fianco
degli
Imperi
centrali,
venne
punita
con
sottrazione
di
territori,
a
sud
perse
lo
sbocco
sul
Mar
Egeo,
a
vantaggio
della
Grecia,
e a
Nord-est
la
Dobrugia
meridionale,
a
vantaggio
della
Romania,
qualche
modesto
lembo
di
territorio
andò
alla
Jugoslavia.
Venne
firmato
il
trattato
di
Neuilly-sur-Seine
nel
novembre
del
1919.
Più
complessa
fu
la
questione
dell’Impero
turco,
al
quale
vennero
sottratti
territori
dal
Mediterraneo
orientale
al
Golfo
Persico.
Visto
che
il
Consiglio
non
riteneva
che
le
popolazioni
di
quei
luoghi
fossero
in
grado
di
autogovernarsi,
furono
istituiti
dei
mandati,
una
sorta
di
protettorato,
sotto
la
direzione
della
Francia
(Siria
e
Libano)
e
dell’Inghilterra
(Palestina
Iraq).
L’Italia
mantenne
il
controllo
di
Rodi
e
delle
isole
del
Dodecaneso,
che
con
un
successivo
trattato
(Losanna
1923)
con
la
Turchia
nel
frattempo
divenuta
repubblica,
diventeranno
italiane
a
tutti
gli
effetti.
Con
il
trattato
di
Sèvres,
nell’agosto
del
1920,
l’impero
Ottomano
si
era
ridotto
alla
sola
penisola
anatolica.
Dopo
i
primi
sei
mesi,
conclusa
la
questione
con
la
Germania,
i
lavori
congressuali
entrarono
in
una
fase
di
stanca
e
continuarono
a
livello
di
ministri
degli
esteri
fino
al
20
gennaio
del
1920.
Nel
frattempo
il
Senato
americano
aveva
respinto
le
risoluzioni
approvate
a
Parigi;
gli
Stati
Uniti
firmeranno
trattati
separati
con
le
potenze
sconfitte
e
non
entreranno
nella
Società
delle
Nazioni.
Se
quest’ultima
istituzione
fu
un
tentativo
lodevole
per
cercare
di
mettere
ordine
nelle
controversie
internazionali
basandosi
sul
diritto
dei
popoli,
se i
trattati
di
pace
chiudevano
comunque
un
periodo
di
incertezza,
tante
cose
rimanevano
da
fare
che
neanche
gli
stati
vincitori
erano
in
grado
di
attuare
pienamente.