N. 79 - Luglio 2014
(CX)
LA CONGREGAZIONE DE PROPAGANDA FIDE
TRA EVANGELIZZAZIONE E POLITICA
di Silvia Mangano
La
predicazione
ad
gentes
costituisce
il
perno
del
mandato
apostolico,
che
si
tramanda
di
generazione
in
generazione
dalla
fondazione
della
Chiesa
e
giunge
fino
ai
nostri
giorni.
La
salvezza
delle
anime
rappresenta
l’obiettivo
fondamentale
della
Chiesa
quale
corpo
mistico
di
Cristo
e
istituzione
umana
visibile.
I
rivolgimenti
avvenuti
nel
XVI
secolo
(la
separazione
di
una
parte
della
cristianità,
la
scoperta
di
un
mondo
vergine
e di
anime
non
ancora
toccate
dal
messaggio
evangelico,
l’espansione
turca
nel
Mediterraneo)
scossero
la
Chiesa
nel
profondo
e
posero
interrogativi
e
sfide
che
necessitavano
di
una
risposta.
Sebbene
godesse
di
prosperità
in
territorio
italiano,
la
Santa
Sede
non
possedeva
un’influenza
così
massiccia
da
poter
incidere
nelle
politiche
interne
agli
stati
europei,
senza
contare
poi
che
nell’ultimo
secolo
si
era
avviato
un
processo
di
secolarizzazione
della
politica
internazionale
che
sarebbe
culminato
nella
pace
di
Westfalia,
suggellando
la
definitiva
perdita
di
influenza
del
papato
su
buona
parte
dell’Europa.
Per
tutti
questi
motivi,
la
Santa
Sede
sentì
la
necessità
di
fondare
un
dicastero
permanente
che
potesse
occuparsi
della
propagazione
della
fede
e
del
riacquisto
delle
anime
lontane
dalla
cattolicità
(siano
esse
di
eretici
o di
infedeli).
Tuttavia,
i
primi
tentativi
messi
in
atto
non
ottennero
il
risultato
sperato
e
furono
abbandonati
in
poco
tempo
(per
esempio,
la
congregazione
fondata
da
Clemente
VIII).
Per
questo
motivo,
il 6
giugno
1622,
quando
Gregorio
XV
divulgò
la
notizia
dell’avvenuta
fondazione
della
congregazione
de
Propaganda
Fide,
si
premunì
di
dotarla
di
basi
solide
per
garantirle
la
sussistenza:
l’anello
cardinalizio
per
un
finanziamento
stabile,
alcuni
privilegi
tra
cui
la
gratuità
della
registrazione
degli
atti,
un
collettore
di
elemosine
e un
segretario
in
grado
di
portare
avanti
i
lavori.
A
queste
misure
si
aggiunsero
anche
documenti
di
carattere
particolare
e di
importanza
politica:
per
esempio,
la
costituzione
apostolica
Inscrutabili
Divinae
Providentiae
(22
giugno
1622)
proclamava
come
obiettivi
del
dicastero
“la
conversione
dei
pagani
e
infedeli
e il
recupero
alla
Chiesa
romana
di
eretici
e
scismatici,
ma
anche
i
rapporti
con
le
comunità
di
cristiani
orientali
uniti
a
Roma
e
infine
l’assistenza
spirituale
delle
minoranze
cattoliche”
(G.
Pizzorusso)
nei
paesi
dove
imperversava
l’eresia
o
dove
aveva
trionfato
l’Islam.
Nei
documenti
stilati
dalla
curia
v’era
una
caratteristica
comune:
la
volontà
di
restare
su
un
piano
di
intervento
spirituale,
senza
il
coinvolgimento
di
tribunali
inquisitoriali
o
senza
il
progetto
di
“esercitar
giurisdittione
temporale
su
luogo
niuno”.
Pur
avendo
un
fine
prevalentemente
spirituale,
la
fondazione
della
congregazione
non
poteva
non
avere
ripercussioni
sugli
equilibri
internazionali,
soprattutto
perché
i
territori
a
cui
erano
destinati
i
missionari
erano
regni
su
cui
governavano
i
sovrani
europei
o le
regioni
sotto
il
loro
diretto
controllo
patronale.
Dalla
loro
collaborazione
o
dalla
loro
opposizione
poteva
dipendere
la
riuscita
o il
fallimento
delle
missioni:
è
indubbio,
infatti,
che
essi
giocarono
una
buona
parte
nel
fallimento
dei
precedenti
tentativi
di
fondazione
di
Propaganda.
Per
questo
motivo
e a
tal
proposito,
gli
storici
si
sono
spesso
interrogati
sui
motivi
del
cambiamento
che
aveva
reso
i
sovrani
favorevoli
alla
costituzione
della
nuova
congregazione.
Quali
sono
stati
i
motivi
dell’effettiva
riuscita
di
quest’ennesimo
tentativo
di
costituzione
e
qual
era
la
primaria
finalità
della
Congregazione?
Nonostante
le
interpretazioni
divergano,
il
comun
denominatore
viene
rintracciato
nello
stretto
legame
con
i
regni
d’Europa
e le
loro
politiche
internazionali.
Per
alcuni
storici,
nei
suoi
primi
anni
di
vita,
la
congregazione
aveva
trovato
il
suo
motivo
d’essere
nella
contrapposizione
alla
logica
del
patronato
e
nel
progetto
di
rinnovamento
dell’apostolato
basato
sull’universalismo
pontificio.
La
tesi
di
Metzler
è
suffragata
dai
rapporti
e
dalle
note
del
segretario
Ingoli,
che
mostrano
anche
come
si
sia
cercato
un
rapporto
collaborativo
con
la
Spagna,
senza
il
cui
appoggio
(almeno
formale)
era
impossibile
operare.
Il
sostanziale
compromesso
messo
in
atto
prevedeva
che
un
cardinale
spagnolo
venisse
inserito
come
membro
della
Congregazione
e
fosse
predisposto
a
dirimere
tutte
le
questioni
che
riguardassero
il
dominio
coloniale
spagnolo.
Non
esplicitato,
ma
sottinteso,
era
la
necessaria
rinuncia
da
parte
della
congregazione
a
qualsiasi
tipo
di
aspirazione
giurisdizionale
(anche
in
materia
spirituale)
sui
domini
coloniali
spagnoli:
il
patronato
restava
suprema
lex.
Altri
storici
ritengono
che
lo
sguardo
di
Propaganda
fosse
proiettato
più
sull’Europa
e
che
molto
abbia
giocato,
negli
anni
della
fondazione,
le
sorti
che
sembrava
aver
preso
la
Guerra
dei
Trent’Anni
(siamo
dopo
la
vittoria
della
Montagna
Bianca).
La
lotta
al
protestantesimo
era,
dunque,
considerata
l’obiettivo
primario
e lo
si
comprende
concretamente
se
si
ispezione
l’enorme
mole
archivistica
prodotta
nei
primi
anni
relativa
all’Europa
rispetto
alle
Americhe
e
all’Oriente.
Come
ulteriore
prova
a
sostegno
di
questa
tesi,
si
può
segnalare
che
il
primo
vicariato
apostolico
dipendente
da
Propaganda
fu
in
carica
in
territorio
protestante
(Province
Unite)
e
solo
dopo
sarebbero
seguiti
quelli
fuori
dal
Vecchio
continente.
Pur
avendo
finalità
e
metodologie
diverse,
i
due
campi
d’azione
(dentro
e
fuori
l’Europa)
continuarono
a
convivere
in
un’unica
congregazione,
che
si
consolidò
definitivamente
sotto
il
pontificato
di
Urbano
VIII
(Barberini).
Oltre
a
funzioni
missionarie,
la
congregazione
fungeva
da
sistema
di
controllo
per
quel
clero
regolare
che
pretendeva
facoltà
amplissime,
soprattutto
in
quei
territori
dove
mancava
una
giurisdizione
vescovile.
Nacquero
così
molti
contrasti
in
seno
ai
diversi
ordini
religiosi
e
soprattutto
tra
gli
ordini
che
prima
di
Propaganda
detenevano
un
“monopolio
missionario”,
come
i
gesuiti,
e
Roma.
Innanzitutto
venne
concepita
una
giurisdizione
universale
sanzionata
dalla
Divisio
Provinciarum
Orbis
Terrarum,
codificata
da
Giovanni
Battista
Agucchi,
con
cui
si
divideva
il
mappamondo
allora
conosciuto
in
13
parti,
ognuna
affidata
a un
cardinale
protettore.
Questa
giurisdizione
non
era
astratta,
ma
si
basava
su
una
rete
informativa
che
avrebbe
dovuto
estendersi
sul
mondo
intero,
facendo
anche
affidamento
a
centri
intermedi
che
si
occupassero
della
trasmissione
di
notizie.
Non
potendosi
svincolare
dalla
collaborazione
con
gli
stati,
Propaganda
Fide
elaborò
una
strategia
d’intervento
incentrata
sulla
natio,
intesa
come
specifica
realtà
etnico-linguistica
e
religiosa
all’interno
dell’entità
statuale
in
cui
si
muovevano
i
missionari.
La
conoscenza
di
queste
nationes
attraverso
l’opera
informativa
dei
nunzi,
degli
ambasciatori,
degli
agenti,
dei
mercanti,
etc.,
costituiva
la
prima
fase
dell’azione
della
congregazione.
Il
passo
successivo
si
concentrava
sull’organizzazione
di
una
strategia
missionaria
ad
hoc,
che
prevedeva
la
formazione
di
clero
indigeno,
lo
studio
delle
lingue
e
della
cultura,
la
costituzione
di
una
gerarchia
ecclesiastica
locale.
A
Roma
fu
dato
ampio
impulso
all’istituzione
di
realtà
multietniche
come
il
Collegio
Urbano
o a
opere
per
la
divulgazione
e la
conoscenza
delle
culture
delle
nationes.
Per
quanto
riguarda
le
problematiche
dottrinarie
incontrate
durante
le
missioni,
la
congregazione
lavorava
a
stretto
contatto
con
il
Sant’Uffizio,
che
riceveva
per
trasmissione
di
Propaganda
i
ricorsi
dei
religiosi
e
forniva
le
direttive
necessarie
alle
decisioni
da
prendere.
Bisogna
anche
dire
che,
in
molti
casi,
la
congregazione
si
dimostrava
moto
più
indulgente
rispetto
al
Tribunale
sopra
citato,
soprattutto
quando
si
trattava
delle
religioni
con
cui
i
missionari
entravano
in
contatto.
Pur
non
sfociando
nell’irenismo,
Propaganda
spronava
i
religiosi
a
conoscere
le
altre
religioni
e a
trovare
elementi
utili
per
agevolare
il
processo
di
conversione,
strategia
che
veniva
spesso
sanzionata
dall’Inquisizione.
Le
notizie
raccolte
in
tutto
il
mondo
confluirono
in
due
rapporti:
le
Quattro
parti
del
mondo
(1631)
di
Francesco
Ingoli
e la
Relazione
sullo
stato
di
Propaganda
Fide
(1678)
di
Urbano
Cerri.
Entrambi
i
testi
presentavano
alla
fine
di
ogni
sezione
le
proposte
di
intervento
e la
ricapitolazione
delle
iniziative
assunte
da
Propaganda
Fide.
Il
contenuto,
strettamente
riservato
all’epoca,
mostra
tutte
le
difficoltà
incontrate
dalla
congregazione
nei
territori
sottoposti
alla
giurisdizione
spagnola
e
portoghese.
Il
confronto
con
la
Spagna
restava
invariato
sulla
contrapposizione
pretese
romane-patronato.
La
difesa
dei
diritti
patronali
si
radicalizzò,
esautorando
del
tutto
Propaganda
e il
nunzio
di
Madrid
dai
poteri
decisionali
in
materia
ecclesiastica
nel
Nuovo
Mondo.
Ciononostante,
Propaganda
riusciva
ad
avere
notizie
tramite
canali
non
ufficiali,
come
gli
informatori
che
raccoglievano
tra
le
fila
dei
religiosi
missionari.
Il
patronato
portoghese
si
presentava
più
complesso
da
gestire.
Prima
di
tutto,
la
debolezza
dell’impero
lusitano
gli
impediva
di
costituire
una
gerarchia
ecclesiastica
che
facesse
capo
al
re
di
Portogallo;
in
secondo
luogo,
le
particolari
modalità
di
insediamento
da
parte
dei
portoghesi,
che
non
occupavano
il
territorio
espandendo
la
propria
influenza
dalla
costa
verso
l’entroterra,
ma
si
limitavano
alla
fondazione
di
porti
commerciali,
lasciavano
incontrollate
vaste
aree
del
Brasile.
Per
superare
queste
problematiche,
Roma
arrivò
persino
a
elaborare
una
teoria
secondo
cui
i
diritti
patronali
portoghesi
erano
validi
soltanto
laddove
vi
era
un
effettivo
controllo
da
parte
della
corona.
L’intenzione
di
Ingoli
era
quella
di
costituire
una
Chiesa
“realmente
formata”,
cioè
“costituita
da
diocesi
e
retta
da
vescovi”,
e
per
realizzarla
si
pensò
all’invio
in
loco
di
vicari
apostolici,
in
grado
di
creare
un
nucleo
originario
di
una
Chiesa
secolare
scevra
dall’influenza
portoghese.
Sembrò
un
piano
vincente,
soprattutto
per
il
contemporaneo
vuoto
di
potere
seguito
alla
rivoluzione
che
avrebbe
portato
al
trono
i
Bragança,
ma
una
volta
ristabiliti
gli
equilibri
iniziarono
una
lunga
serie
di
controversie
per
la
“riconquista”
delle
prerogative
patronali.
A
disturbare
i
portoghesi
era,
tra
le
altre
cose,
anche
la
scelta
di
vicari
apostolici
francesi.
L’invio
di
vicari
apostolici
era
per
Roma
la
realizzazione
pratica
dell’immagine
teoria
della
plantatio
ecclesiae,
tipica
della
spiritualità
tridentina:
i
vescovi
(e,
quindi,
i
vicari)
erano
“l’architrave
dell’espansione
mondiale
della
Chiesa
tridentina”
(G.
Pizzorusso).
Tuttavia,
i
vescovi
missionari
come
“architrave”
della
giurisdizione
spirituale
nel
mondo
incontravano
due
oppositori:
le
potenze
coloniali
e
gli
ordini
religiosi
(soprattutto
i
gesuiti),
legati
alle
corone
e
gelosi
dell’indipendenza
conquistata
sul
campo.
Le
due
visioni
si
erano
stigmatizzate
in
due
concezioni
politico-religiose
completamente
opposte:
da
una
parte,
il
patronato
si
era
trasformato
in
una
sorta
di
manifesto
di
politica
internazionale
e di
difesa
della
propria
autonomia
rispetto
alla
Santa
Sede;
dall’altra,
si
sviluppava
una
dottrina
imperniata
sull’universalismo
missionario
di
Roma
che
si
rifaceva
proprio
all’idea
di
plantatio
ecclesiae
summenzionata.
A
giocare
un
ruolo
fondamentale
in
questi
primi
anni
fu
soprattutto
la
Francia,
che
intervenne
al
fianco
di
Roma
desiderosa
di
affermarsi
nel
teatro
mondiale.
Schieratasi
in
sua
difesa,
la
corona
francese
costituì
un
potente
alleato
di
Propaganda
Fide
per
tutta
la
prima
metà
del
Seicento,
fino
all’insorgere
della
“questione
gallicana”
che
impegnò
nello
scontro
Luigi
XIV
e il
papato.
Pur
nella
sua
originalità,
l’azione
della
congregazione
romana
presentò
molti
limiti,
i
quali
difficilmente
si
sarebbero
potuti
arginare.
Innanzitutto
l’impossibile
indipendenza
dagli
stati,
rendeva
l’originaria
separazione
tra
evangelizzazione
e
politica
coloniale
un’istanza
del
tutto
velleitaria.
È
interessante
notare
che,
da
questo
punto
di
vista,
maggiori
possibilità
si
aprirono
con
l’espansione
delle
corone
protestanti:
si
poteva
arginare
così
lo
stringente
collare
rappresentato
dal
patronato.
La
difficoltà
principale
incontrata
da
Propaganda
lungo
il
suo
complesso
percorso
non
fu
tanto
esterna,
essa
nasceva
piuttosto
da
un
difetto
congenito
del
suo
operato.
Il
primo
limite
delle
missioni
era
la
scarsa
comprensione
delle
realtà
locali
che
avevano
Roma
e i
suoi
inviati.
Essi,
infatti,
dovevano
essere
persone
di
fiducia
inviate
dalla
sede
romana,
ma
una
volta
giunte
a
destinazione
si
dimostravano
inadatte
per
il
compito
chiamate
a
svolgere.
Questo
fu
l’ostacolo
che
impedì
l’evangelizzazione
di
territori
come
la
Cina,
in
cui,
alle
enormi
differenze
linguistiche
e
culturali,
si
aggiunsero
anche
la
scarsa
capacità
e
l’inadeguata
preparazione
dei
missionari
inviati
da
Propaganda.