IL CONGO DI DAVID VAN REYBROUCK
UN VIAGGIO DENTRO LA STORIA
di Alessio Guglielmini
Congo di David Van Reybrouck
è molto più della storia
dell’immenso stato africano, tra il
1870 e il 2010. È un viaggio
abissale, sospeso tra annotazioni
storiche e testimonianze dirette,
tra reminiscenze e osservazioni sul
campo. L’idea di Congo nasce nel
2003 a Bruxelles: Van Reybrouck è
già stato diverse volte in Africa
Meridionale, ma non ha mai visitato
il Paese di cui si accinge a
scrivere. L’unico modo è recarsi sul
posto.
Fin dall’introduzione si capisce
come al resoconto plausibile debba
per forza di cose intersecarsi la
leggenda. Il 6 novembre 2008, in uno
dei suoi tanti soggiorni a Kinshasa,
Van Reybrouck entra in una casa
fatiscente, con un tetto di lamiera
ondulata. Qui incontra il
capofamiglia, “Papa Nkasi”, un uomo
che dice di essere nato nel 1882 e
di avere quindi 126 anni. Se le date
sono un concetto relativo in Congo,
come ammette l’autore,
quell’improvviso salto all’indietro
permette di risalire al nome di
Henry Stanley, che il venerabile
Nkasi non ha conosciuto di persona,
ma di cui ha ovviamente sentito
parlare.
È l’origine della vicenda coloniale
del Congo: Stanley, inizialmente
partito per ritrovare David
Livingstone, si mette a risalire il
fiume Congo fino alla foce. Le
esplorazioni di Stanley fanno da
pendant ai primi interessamenti
di Bruxelles, sulle prime
filantropici, per quel territorio
sconfinato. Filantropia che si
camuffa presto in un’impresa
commerciale e che porta re Leopoldo
II a trasformare il Congo in un suo
possesso personale.
Il dispendiosissimo governo privato
del sovrano dura ufficialmente dal
1° giugno 1885 al 15 novembre del
1908, quando il Congo diviene, a
tutti gli effetti, una colonia
belga. Mentre i missionari belgi,
sollecitati da Leone XIII, cercano
di estirpare le usanze tribali e la
poligamia, si comincia a lavorare
alla ferrovia ed esplode il boom
della gomma provocato dalla recente
invenzione dello pneumatico (1888)
da parte dello scozzese Dunlop.
Dopo la fine del regno di Leopoldo
II, la gestione degli affari
congolesi diviene più sobria e
gerarchizzata. Nel 1910 un decreto
stabilisce che ogni indigeno
appartenga a una chefferie o
sous-chefferie: chi vuole
spostarsi deve inoltre dotarsi di un
passaporto medico. Si tratta di una
misura indispensabile per evitare il
diffondersi delle numerose patologie
registrate in Congo in quel periodo,
dalla malaria alla malattia del
sonno causata dalla mosca tse-tse.
Le iniezioni e le soluzioni
scientifiche si scontrano
inevitabilmente con le superstizioni
locali e l’attaccamento ai rimedi
della medicina tradizionale.
A proposito di tradizione e culti
locali, il pluricentenario Papa
Nkasi rievoca a Van Reybrouck la
figura del mitologico Simon
Kimbangu, nato nel 1889 e passato
alla storia come profeta. A quanto
pare Kimbangu è protagonista nel
1921 di una miracolosa risurrezione
e ha la facoltà di dare la
guarigione agli ammalati o di
spostarsi a suo piacimento da un
posto all’altro, in pochi secondi.
Ancora nel 1991 il suo seguito è
fervido, tanto da inaugurare un
tempio in suo onore. Alcuni di
questi movimenti assumono peraltro
un carattere anticolonialista, come
nel caso dello ngunzismo, una
variante del kimbanguismo
diffusasi dal 1934 nel Basso Congo e
favorevole alla cacciata dei belgi.
L’indipendenza arriva solo nel 1960,
il 30 giugno, ma inesorabilmente con
condizioni penalizzanti per la
futura economia dello stato
autonomo: il 27 giugno, in perfetto
orario, il Parlamento belga, senza
obiezioni da parte del governo
congolese, scioglie il Comité
Spécial del Katanga che gestisce gli
affari della provincia più ricca di
giacimenti minerari. Questa mossa va
a tutto vantaggio dei grandi trust
belgi.
Il passaggio di consegne è
anacronistico: re Baldovino, venuto
appositamente da Bruxelles,
trasferisce ufficialmente il potere
al presidente Kasavubu, senza
nascondere il suo paternalismo:
«Il vostro compito è immenso e voi
siete i primi a rendervene conto.
[…] Non abbiate paura a rivolgervi a
noi. Siamo pronti a restare al
vostro fianco per aiutarvi con i
nostri consigli».
Sul fatto che il compito sia
immenso, non vi sono dubbi. Il primo
ministro Lumumba dimostra fin da
subito di non essere allineato a
Kasavubu. L’esordio della Prima
Repubblica congolese è tutt’altro
che lineare e il bilancio di Van
Reybrouck aiuta a capire come le
ingerenze estere siano notevoli: «La
Prima Repubblica fu caratterizzata
da un turbinio di nomi di politici e
militari congolesi, consiglieri
europei, personale delle Nazioni
Unite, mercenari bianchi e ribelli
indigeni. Quattro nomi tuttavia
dominarono la scena: Kasavubu,
Lumumba, Tshombe e Mobutu. […] La
storia della Prima Repubblica è la
storia di un’implacabile corsa a
eliminazione tra quattro uomini
impegnati per la prima volta nel
gioco della democrazia. Una missione
impossibile, tanto più se si
considera che ciascuno di loro
veniva assillato da stati stranieri
che volevano difendere i propri
interessi in Congo. Kasavubu e
Mobutu erano corteggiati dalla Cia,
Tshombe era a tratti un giocattolo
nelle mani dei consiglieri belgi.
Lumumba subiva le fortissime
pressioni degli Stati Uniti,
dell’Unione Sovietica e delle
Nazioni Unite».
Ad avere la meglio, dopo la morte di
Lumumba nel 1961 e l’allontanamento
di Kasavubu e Tshombe, è Mobutu, il
trionfatore della “partita a
quattro”. Mobutu, dal 1965, è
l’eccentrico ripristinatore della
tradizione, a partire dal nome
scelto al posto di Congo. Il padre
della rivoluzione si basa su una
cartina portoghese del sedicesimo
secolo, in cui il famoso fiume
veniva designato come “Zaire”. Zaire
è in verità lo “spelling sbilenco”
della parola nzadi che in
lingua kongo significa “fiume”. Con
ciò, il primo decennio di Mobutu al
potere è attraversato da grandi
ambizioni e speranze: il mercato
della birra esplode, spuntano
ovunque antenne e ripetitori e nel
1974 la spettacolarizzazione del
potere di Mobutu confluisce nel
famoso incontro di boxe tra Ali e
Foreman.
L’era Mobutu si prolunga stancamente
fino alla fine degli anni Ottanta
del Novecento, tra nepotismo,
corruzione e inflazioni indicibili.
Il 24 aprile 1990 il leader è
costretto ad annunciare la
democratizzazione dello Zaire. Il
popolo lo prende in parola: dopo 25
anni senza partiti, se non quello di
Stato, nel 1991 ce ne sono 112.
Eppure, lo zampino di Mobutu è
ancora palpabile: tra il 1990 e il
1997 si alternano otto diversi Primi
Ministri, sette dei quali piazzati
dall’ex dittatore. Il genocidio in
Ruanda del 1994 paradossalmente
nobilita il ruolo di Mobutu quale
figura stabilizzatrice della
regione.
La carneficina ruandese avvia però
al contempo una guerra che per
qualche anno confonde il destino del
Congo con quello delle nazioni
confinanti: Burundi, Uganda e
Ruanda, per l’appunto.
Laurent-Désiré Kabila, originario
del Katanga, che vive di
contrabbando d’oro e d’armi in
Tanzania, prende il comando
dell’Afdl, Alliance des Forces
Démocratiques pour la Libération.
L’Afdl, tramite una manovra a
tenaglia, conquista lo Zaire,
avvalendosi dell’appoggio di Ruanda,
Uganda e Stati Uniti, ma anche della
popolazione locale esasperata da
Mobutu che, nel frattempo, è andato
a curarsi il cancro in Europa. Le
cure non gli impediscono di morire
in esilio, a Rabat, il 7 settembre
del 1997. Qualche mese prima Kabila
si è autoproclamato presidente della
neonata Repubblica Democratica del
Congo.
Se quella dell’Afdl è di fatto la
“Prima guerra del Congo”, il 2
agosto 1998 inizia il secondo
capitolo di un altro conflitto
sanguinoso che si prolunga fino al
giugno del 2003. Nei primi mesi
della nuova ostilità, Ruanda, Uganda
e un esercito improvvisato di
ribelli provano a rovesciare Kabila.
Dopo di che le forze d’invasione
rinunciano a Kinshasa,
accontentandosi di sfruttare le
materie prime del territorio
occupato che equivale a metà
dell’intero Congo. Non a caso, “nel
1999 e nel 2000 le esportazioni
d’oro dell’Uganda ammontarono a
90-95 milioni di dollari l’anno.
Il Ruanda allora esportava, ogni
anno, 29 milioni di dollari in oro.
Molto, se si pensa che entrambi i
paesi non hanno una significativa
produzione di oro”. A trarre
profitto dalla ricettazione delle
risorse provenienti dal Congo, tra
cui il coltan, in quel periodo sono
in molti, dalle multinazionali ai
trafficanti d’armi.
I ruandesi e gli ugandesi si
ritirano solo nel 2003, quando i
caschi blu dell’ONU rafforzano il
loro presidio nella zona dopo
l’Accordo di pace di Pretoria del
2002. A Laurent-Désiré Kabila,
assassinato nel 2001, succede il
figlio Joseph, artefice della
pacificazione che rimarrà presidente
fino al 2019. Ma questo il Van
Reybrouck di Congo non può ancora
saperlo.
Gli ultimi capitoli della sua
monumentale ricognizione sono
dedicati a nuovi sorprendenti
fenomeni, come la guerra tra le
marche di birra: da una parte la
Bralima e, dall’altra, la Bracongo.
Uno scontro fino all’ultima
bottiglia, reso perfino più sonante
e spettacolare dalla rivalità dei
rispettivi ambassador, le pop star
J.B. Mpiana e Werrason. Il più
famoso dei due, Werrason, è il
testimonial della Bracongo, ma nel
luglio del 2005, a sorpresa, decide
di passare alla Bralima, con grande
scalpore generale.
Lo sguardo di Van Reybrouck, prima
che si chiuda il sipario,
paradossalmente esce dal Congo.
L’autore accompagna due donne a
Guangzhou: si tratta di giovani
congolesi che vanno in Cina ad
acquistare la merce per poi
rivenderla in patria con introiti
vantaggiosi. A Canton s’imbatte
anche in Jules Bitulu, emigrato dal
1988 che ha fatto successo cantando
canzoni cinesi nei bar e nei
ristoranti.
Van Reybrouck riempie i suoi
taccuini mentre ascolta le peripezie
di colui che ha dato vita alla
comunità congolese locale. È quasi
il preambolo del rientro a Kinshasa,
insieme alle due donne che indossano
un’improbabile parrucca biondo
platino.
È la fine di un viaggio allucinante,
il ritorno in un luogo sfruttato,
martoriato, quasi sognato e
immaginato, tanto è il materiale
narrativo che l’autore ha saputo
trarre dai suoi testimoni
inaspettati e dalle sue densissime
zone d’ombra.