N. 141 - Settembre 2019
(CLXXII)
dallo stato libero del congo al congo belga
una
tragedia
poco
nota
di
Raffaele
Pisani
Fino
al
1870
la
presenza
europea
in
Africa
era
perlopiù
limitata
alle
zone
costiere
con
modeste
acquisizioni
territoriali
verso
l’interno;
con
questa
modalità
si
erano
insediati
in
primis
i
Portoghesi,
seguiti
da
Francesi,
Inglesi
e
Olandesi.
Con
gli
ultimi
tre
decenni
dell’Ottocento
si
verificò
da
parte
delle
potenze
europee
una
corsa
all’esplorazione
e
alla
successiva
conquista
dei
territori
dell’interno.
Saranno
soprattutto
Francia
e
Inghilterra
a
contendersi
il
primato,
arrivando
molto
vicino
a
uno
scontro
armato
a
Fashoda
sul
Nilo
sudanese
(1898).
Anche
la
Germania,
già
nell’epoca
bismarkiana
ma
ancor
più
in
quella
guglielmina,
andrà
alla
conquista
di
territori.
L’Italia
si
insedierà
nella
zona
dell’Eritrea
e
nel
Corno
d’Africa.
I
motivi
che
spingevano
gli
Europei
verso
le
conquiste
coloniali
erano
in
primo
luogo
dettati
dalla
necessità
di
approvvigionamento
di
materie
prime
e di
sbocchi
commerciali,
ma
servivano
anche
ad
affermare
il
prestigio
e la
potenza
di
una
nazione
in
competizione
con
altre.
Non
mancavano
motivazioni
che
avanzavano
pretese
etiche,
liberare
dall’ignoranza
e
dalla
schiavitù,
o
religiose,
portare
il
messaggio
cristiano
a
popolazioni
che
fino
al
momento
ne
erano
state
escluse.
In
questa
situazione
ebbe
luogo
l’iniziativa
di
Leopoldo
II,
re
del
Belgio,
di
costituire
nel
1876
un’Associazione
Internazionale
con
scopi
scientifici,
umanitari
e
religiosi.
“Aprire
alla
civiltà
la
sola
parte
del
mondo
in
cui
essa
non
è
ancora
penetrata,
squarciare
l’oscurità
che
incombe
su
interi
popoli
è,
oserei
dire,
una
missione
degna
di
questo
secolo
di
progressi”,
è
con
queste
parole
che
il
monarca
si
espresse
nel
discorso
inaugurale
alla
Conferenza
Geografica
tenutasi
a
Bruxelles
nel
1876;
in
realtà
si
trattava
solo
di
un
paravento
per
un
progetto
di
dominio
personale
nella
vasta
regione
del
Congo.
Un
enorme
bacino
fluviale
con
infinite
diramazioni,
che
al
tempo
costituiva
l’unica
strada
di
comunicazione,
apriva
la
via
alle
esplorazioni
degli
Occidentali.
Fondamentale
risultò
essere
la
figura
di
Henry
Morton
Stanley,
giornalista
esploratore
per
conto
del
New
York
Herald
e
del
Daily
Telegraph
e
poi
ingaggiato
da
re
Leopoldo
per
lo
sfruttamento
della
zona.
Accordi
con
capi
tribù
locali,
con
avventurieri
e
commercianti
di
schiavi
portarono
a
una
effettiva
sottomissione
delle
popolazioni
locali.
Le
altre
potenze
coloniali
presenti
nei
territori
limitrofi
rilevavano
la
necessità
di
determinare
la
spartizione
di
quella
zona
dell’Africa;
per
iniziativa
di
Bismark,
nella
conferenza
internazionale
di
Berlino
(1876),
vennero
stabiliti
determinati
criteri.
Così
Inghilterra,
Francia,
Germania
e
Portogallo
giunsero
a un
accordo
di
mutuo
riconoscimento,
anche
se i
confini,
a
parte
qualche
caso,
non
erano
ben
determinati
e il
principio
dell’effettiva
occupazione
era
fondamentale.
A
Leopoldo
va
riconosciuta
la
grande
capacità
diplomatica
di
aver
convinto
gli
stati
e i
centri
di
potere
economico
internazionali
dell’opportunità
del
progetto,
dal
quale
evidentemente
molti
ne
trassero
vantaggio.
Una
grande
estensione
come
lo
Stato
libero
del
Congo
non
dipendente
direttamente
da
una
potenza
europea
poteva
essere
favorevolmente
accettata
dalle
parti
costituendo
una
sorta
di
cuscinetto
che
rendeva
meno
probabili
eventuali
zone
di
frizione.
Quello
che
è
accaduto
in
circa
trent’anni,
dagli
ultimi
decenni
dell’Ottocento
al
1909,
anno
della
formazione
ufficiale
del
Congo
Belga,
è
poco
documentato
e il
genocidio
diretto
e
indiretto
di
milioni
di
abitanti
è
passato
perlopiù
sotto
silenzio.
Anche
ora
è
certamente
meno
noto
di
altre
azioni
di
sterminio
più
attente
alla
contabilità
dei
morti.
Sono
stati
i
giornalisti,
gli
scrittori
e i
missionari
cristiani,
che
si
inoltrarono
in
quelle
zone
e
che
ebbero
modo
di
constatare
la
terribile
realtà
di
sfruttamento
e di
morte,
a
sollevare
la
questione.
Come
pochi
uomini
provvisti
di
strumenti
tecnicamente
avanzati
riescano
talvolta
a
sottomettere
popolazioni
numerose
lo
si
era
ben
visto
nelle
precedenti
colonizzazioni
delle
Americhe;
nella
seconda
metà
dell’Ottocento
il
divario
tra
le
popolazioni
primitive
e i
nuovi
conquistatori
risultava
ancora
più
accentuato,
oltre
alle
armi,
peraltro
sempre
più
micidiali,
anche
i
mezzi
di
trasporto,
di
comunicazione,
le
sostanze
chimiche
e i
medicinali
facevano
dell’uomo
bianco
un
essere
terribile
al
quale
bisognava
sottomettersi
in
una
sorta
di
adorazione.
Joseph
Conrad
nel
suo
Cuore
di
Tenebra
fa
dire
a
uno
dei
suoi
personaggi
a
proposito
di
Kurtz:
“È
arrivato
col
tuono
e
col
fulmine
in
mano;
questa
gente
non
aveva
mai
visto
nulla
di
simile”;
in
un
altro
passo
dice:
“Lo
adorano”.
Kurtz,
personaggio
letterario
verosimile,
era
un
avventuriero
senza
scrupoli
che
viveva
in
un
luogo
quasi
inaccessibile
della
foresta
e
agli
occhi
degli
indigeni
era
una
sorta
di
demone
terribile
e al
tempo
stesso
ammirabile.
La
sua
casa
era
circondata
da
una
palizzata
sulla
quale
erano
conficcate
delle
teste
di
indigeni
uccisi.
Aveva
composto
uno
scritto,
su
incarico
della
Società
internazionale
per
la
soppressione
delle
usanze
selvagge,
nel
quale
affermava
che
i
bianchi
civilizzati,
possono
“esercitare
un
potere,
al
servizio
del
bene,
praticamente
illimitato”.
André
Gide
nel
suo
Voyage
au
Congo
parla
di
un
periodo
successivo,
gli
anni
Venti
del
Novecento.
Pur
entrando
talvolta
nella
parte
belga
del
Congo,
il
suo
viaggio
si
svolse
perlopiù
nei
territori
dell’Africa
equatoriale
francese.
Certamente
negli
anni
Venti
del
Novecento
qualcosa
era
cambiato
ma
la
situazione
di
sfruttamento
persisteva.
La
crudeltà
lasciava
talvolta
il
posto
a
una
forma
di
paternalismo
che
portava
a
qualche
intervento
per
il
miglioramento
delle
condizioni
di
vita.
Tornando
al
periodo
del
dominio
personale
di
re
Leopoldo
II,
sappiamo
che
Stanley,
alle
sue
dipendenze,
si
adoperò
per
stabilire
dei
contratti
con
capi
di
tribù
del
luogo,
questi
prevedevano
la
consegna
di
determinate
quantità
di
prodotti,
in
primo
luogo
il
caucciù
e
l’avorio
ma
anche
animali
di
piccola
e
grossa
taglia
per
l’alimentazione
del
personale
bianco.
Le
quantità
pretese
erano
tali
da
richiedere
un
lavoro
estenuante
con
lunghi
spostamenti
senza
protezione
dagli
agenti
atmosferici
e
dalle
fiere.
Chi
non
rispettava
le
richieste
veniva
duramente
punito,
fino
alla
mutilazione.
Vi
era
una
struttura
di
potere
piramidale
con
tante
figure
di
oppressori
a
loro
volta
oppressi.
Gli
indigeni
che
cercavano
di
sottrarsi
al
lavoro
coatto
a
volte
venivano
semplicemente
eliminati,
alcuni
riuscivano
a
rifugiarsi
nei
luoghi
più
inaccessibili
dove,
se
sopravvivevano,
si
riducevano
a
uno
stato
primitivo.
I
legami
parentali
e
tribali
che
prima
garantivano
la
sussistenza
vennero
a
mancare.
Tutto
questo
porterà
a un
aumento
esponenziale
della
mortalità
e a
un
drastico
calo
della
natalità.
Si
racconta
di
un
missionario
che
giunto
nel
Congo
nel
1910
si
accorse
della
pressoché
totale
assenza
di
bambini
tra
i
sette
e i
quattordici
anni,
quelli
che
sarebbero
dovuti
nascere
nel
periodo
in
cui
la
raccolta
del
caucciù
raggiunse
il
suo
acme.
Il
genocidio,
poco
ricordato,
che
avvenne
nel
cosiddetto
Stato
libero
del
Congo
conta
milioni
di
morti,
le
stime
vanno
da
tre
a
dieci
milioni;
troppi
anche
uno
standard
coloniale
che
vedeva
come
inevitabile
per
il
progresso
della
civiltà
un
ragionevole
numero
di
sacrificati.
Oltre
che
le
uccisioni
dirette
per
punire
le
rivolte
o
semplicemente
per
la
raccolta
insufficiente
di
gomma,
la
fame,
le
malattie
e lo
sfinimento
portarono
a
questo
tremendo
risultato.
All’inizio
l’effettiva
situazione
fu
semplicemente
ignorata:
il
cittadino
comune
europeo
sapeva
invece
di
un
re
filantropo
che
impegnava
le
sue
risorse
per
liberare
le
popolazioni
del
Congo
dalla
schiavitù
e
dalla
loro
condizione
selvaggia.
Altri
preferivano
non
conoscere,
mentre
quelli
impegnati
nel
lavoro
sporco
sapevano
ma
ritenevano
che
andasse
bene
così.
Fortunatamente
i
principi
umanitari
presenti
in
alcuni
individui
spinsero
a
osservare
a
indagare
a
denunciare
e a
far
conoscere
ai
governanti
e
all’opinione
pubblica
una
realtà
tremenda;
oltre
agli
autori
sopradescritti,
è il
caso
di
Edmund
Dene
Morel,
dipendente
di
una
compagnia
di
navigazione,
del
giornalista
George
Washington
e di
William
Sheppard,
pastore
della
chiesa
presbiteriana.
Alla
morte
di
Leopoldo,
nel
1909,
seguì
subito
la
trasformazione
del
Congo
in
colonia
belga;
già
prima
il
vecchio
re
si
era
preoccupato
di
questa
transizione,
ben
deciso
a
conservare
il
suo
ingente
patrimonio
e a
disporre
l’uso
che
se
ne
doveva
fare
dopo
la
sua
morte.
Il
passaggio
da
dominio
personale
a
colonia
dipendente
dal
governo
nazionale
belga
portò
qualche
modesto
cambiamento:
furono
abolite
per
legge
le
pratiche
repressive
più
inumane
e si
cominciò
anche
a
cercare
di
migliorare
la
vita
degli
indigeni.
Il
progetto
aveva
uno
scopo
economico,
ancor
prima
che
umanitario:
da
una
gestione
di
rapina
e
distruzione
si
passò
a
una
di
produzione
e di
sfruttamento.
Nel
frattempo
erano
state
scoperte
nuove
e
ingenti
fonti
di
ricchezza,
soprattutto
nel
settore
minerario.
La
costruzione
di
infrastrutture
era
funzionale
all’economia
dello
stato
colonizzatore,
ma
un
certo
sviluppo
cominciava
pur
a
farsi
strada;
una
minima
istruzione
era
necessaria
per
l’organizzazione
del
lavoro,
la
stessa
politica
sanitaria
doveva
servire
per
avere
indigeni
sani
che
lavoravano
a
contatto
con
il
bianchi.
La
storia
del
Congo
vedrà
ancora
tante
sventure:
le
due
guerre
mondiali,
il
difficile
passaggio
all’indipendenza
nel
1960
con
tentativi
di
secessione
e
altri
conflitti,
poi
ancora
anni
di
dittature
fino
ad
arrivare
alla
situazione
attuale,
per
niente
tranquilla
e
democratica.
La
maledizione
del
Congo
è la
sua
ricchezza.
Riferimenti
bibliografici:
Conrad
J.,
Cuore
di
tenebra,
Feltrinelli,
Milano
2013;
Gide
A.,
Voyage
au
Congo,
Gallimard,
Paris
2017;
Hochschild
A.,
Gli
spettri
del
Congo,
Rizzoli,
Milano
2001.