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N. 91 - Luglio 2015 (CXXII)

Congiure e dissenso sotto Alessandro
I retroscena della spedizione che arrivò ai confini del mondo antico

di Giulio Talini

 

Il re e il suo esercito

 

“Quello che amo in Alessandro Magno non sono le sue battaglie, di cui non possiamo farci un’idea precisa, ma la sua arte politica”. A parlare è Napoleone, che non nascose mai di ispirarsi costantemente alla grandezza degli antichi. Qui coglie l’aspetto probabilmente più significativo dell’epopea di Alessandro. Sarebbe stato, infatti, infinitamente arduo far arrivare le falangi macedoni fino all’India, terra del mito, senza una visione politica in grado di rendere omogeneo e coeso il mosaico di popoli che nella seconda metà del IV secolo a.C. abitavano i territori compresi tra la penisola balcanica e l’odierno Pakistan.

 

Il disegno del grande condottiero lo scopriamo a poco a poco, da alcuni episodi salienti del suo cammino verso l’Oriente estremo, iniziato nel 334 a.C.: sbarcò in Asia da re dei Macedoni e hegemòn dei Greci; conquistò l’Egitto e si fece proclamare “figlio di Zeus” dall’oracolo di Siwa, accostandosi alla figura del faraone, tradizionalmente salutato quale “figlio di Ra”; infine, sconfitto Dario a Gaugamela (331 a.C.), preferì presentarsi come successore degli Achemenidi, piuttosto che come spietato conquistatore straniero. A circa 26 anni, Alessandro incarnava le quattro figure più importanti del mondo antico, divenendo il simbolo di un impero cosmopolita, universale.

 

Voleva che ogni suddito, qualunque ne fossero la cultura o le tradizioni, si riconoscesse in lui e in lui soltanto. A tal fine, accoglieva nel suo entourage, su un piano di parità, figure di spicco dei popoli sottomessi, come l’augure licio Aristandro, e offriva spesso doni e sacrifici a divinità straniere. Addirittura, ci racconta Diodoro Siculo, “si cinse del diadema persiano e indossò la tunica bianca, la cintura persiana e ogni altro ornamento”, secondo il costume delle dinastie regnanti in Persia, in modo che, anche nell’abbigliamento, potesse essere riconosciuto come il vero successore di Ciro il Grande.

 

Di tutto questo, gli unici a capirci davvero poco erano i suoi stessi Macedoni, che con il loro re avevano condiviso la gioia e il dolore, il fallimento e il trionfo. È indubbio che Alessandro si sia sforzato in tutti i modi di convincerli che quella campagna militare fosse anche la loro, che l’immortalità toccasse tanto al condottiero quanto ai suoi soldati. Il sovrano macedone infatti, attraverso una accorta propaganda, cercò almeno in principio di spacciare la spedizione in Asia come una nuova guerra di Troia guidata da un re che non a caso era un lontano discendente di Achille.

 

Ebbe poi la cura di affidare il governo delle prime satrapie conquistate proprio a dei Macedoni, senza far mancare a nessuno di essi una cospicua parte di bottino. Ma, mentre Alessandro unificava popoli e realizzava il suo piano politico, gli uomini che erano partiti con lui lo veneravano sempre meno, quasi si sentissero come degli amanti traditi. L’impressione generale, dapprima serpeggiante, poi, come vedremo, manifestata apertamente, era che Alessandro stesse a poco a poco rinnegando i suoi Macedoni, sia sul piano politico che su quello militare, sedotto dalla corruzione dei molli costumi persiani. “[...] concesse libero sfogo alle proprie passioni, e mutò continenza e moderazione, le qualità di spicco di ogni eccezionale fortuna, in superbia e dissolutezza” riporta Curzio Rufo, cogliendo in pieno l’idea che del loro re si stavano facendo i suoi soldati.

 

L’affare filota

 

Lo strisciante malcontento di alcune frange dell’esercito sfociò nella più drammatica delle possibilità per un re: la congiura. L’esercito macedone trascorreva il novembre del 330 a.C. negli accampamenti. Dario era morto nell’estate, ma la marcia continuava a ritmi serrati, almeno finché l’usurpatore Besso respirava ancora. In quei giorni, un certo Dimno, soldato poco gradito al sovrano, rivelò un segreto di vitale importanza al suo amante, Nicomaco. “Gli svelò il complotto contro il re da effettuarsi di lì a due giorni e al quale egli partecipava insieme a persone di valore e autorevoli” spiega Curzio Rufo. Ma l’amante, oltre a pronunciarsi contrario all’iniziativa con risolutezza, ne parlò con il fratello, Cebalino.

 

I due si risolsero a chiedere udienza ad Alessandro, per informarlo della gravità della situazione. Ed è qui che la vicenda si fa interessante. Cebalino si era rivolto, onde essere presentato al re come si conveniva, a Filota, uno di quelli che, presso Alessandro, contavano davvero. Questi era figlio di Parmenione ed era considerato un uomo fidato e coraggioso.

 

Sennonché da qualche tempo, concordano le fonti, si era insuperbito, arrivando perfino a mettere in dubbio i meriti di Alessandro, che sosteneva dovuti in buona misura anche a lui e a suo padre. Ora, sebbene i resoconti che ci sono pervenuti non forniscano un’unica versione dei fatti, risulta che Filota, non è chiaro perché, si fosse rifiutato di concedere a Cebalino un colloquio con il re. Voleva tener nascosto il complotto? Se sì, vi aveva preso attivamente parte o semplicemente ne era al corrente? Non ci è dato di saperlo con certezza. Ma la notizia ad Alessandro arrivò comunque e non la prese per niente bene. Si tenne un processo vero e proprio, in cui fu concesso a Filota di difendersi personalmente.

 

Convinse poco, soprattutto perché ammise egli stesso di essere venuto a conoscenza delle trame dei cospiratori, adducendo quale motivo della sua mancata denuncia al re la scarsa credibilità di quanto gli era stato riferito. L’unico epilogo possibile era la condanna a morte dei congiurati e dello stesso Filota, dopo ore di atroci torture. Immediatamente dopo Alessandro fece uccidere anche Parmenione, rimasto a Ecbatana, “perché non riteneva credibile che non avesse parte col figlio nel disegno”.

 

In realtà l’insolita fretta con la quale il re macedone uccise padre e figlio palesava verità celate tra le pieghe della monarchia macedone. Molte volte in effetti gli storici antichi parlano del consenso e del prestigio raggiunti da Filota e da Parmenione nell’esercito e neppure una fonte equilibrata come Arriano riesce a nascondere il fatto che il re macedone avesse ordinato l’assassinio di Parmenione non già perché avesse una benché minima prova di un suo coinvolgimento nel complotto, quanto piuttosto per il fondato timore di una sua reazione dopo la morte del figlio che avrebbe potuto essere assai pericolosa. Le vanterie di Filota, perciò, un fondamento di verità lo avevano ed è prima di tutto su questa base che Alessandro mise in atto una repressione tanto spietata. Ad ogni modo, per quanto lunga potrebbe essere ancora la lista delle supposizioni, su un punto la certezza si fa granitica: Alessandro non era più amato da tutti.

 

Delitto a Maracanda

 

L’affare Filota, in ogni caso, rimase tutto sommato una questione piena di interrogativi e di passaggi poco chiari. Alessandro la ingigantì, certo, ma per fini squisitamente politici. Peraltro, il risultato che sperava di ottenere dalla feroce repressione fu solo in minima parte raggiunto. Secondo Plutarco dopo la congiura il re macedone divenne improvvisamente “temibile a molti dei suoi amici”, ma, pur trattandosi di un’asserzione indubbiamente fondata, lo spavento suscitato nei critici di Alessandro non durò a lungo.

 

In seguito alla cattura e all’orribile uccisione di Besso, Alessandro poteva dire di aver realmente ultimato la conquista del grande impero achemenide. In quanto successore del Gran Re di Persia a tutti gli effetti, portò a termine, come già accennato, l’assimilazione dei costumi dei vinti, in modo che i popoli sottomessi si sentissero liberati, non umiliati. Conseguentemente, il malumore tra i suoi fedelissimi si ripresentò in una forma peggiore della precedente, nonostante non potesse dirsi certo sopita la paura di fare la fine di Filota o di Parmenione.

 

Alla fine dell’autunno 328 a.C. Alessandro era riuscito a ristabilire la sua autorità sulla Battriana e sulla Sogdiana, il cui governo fu da lui conferito a Clito. Questi era stato uno dei collaboratori più fidati di Filippo II e rivestì un ruolo centrale anche presso la corte di Alessandro, soprattutto da quando gli aveva salvato la vita nella battaglia del Granico (334 a.C.). La sorella, Ellanice, aveva allevato il re, che finì per amarla di un amore quasi filiale.

 

Durante uno di quei banchetti faraonici in cui i generali macedoni bevevano senza posa fino al mattino, presso Maracanda, mentre volavano spassionati encomi rivolti al re, Clito, che, evidentemente, come racconta Arriano, “da tempo era adirato per il mutamento di Alessandro in favore di abitudini barbare e per i discorsi degli adulatori” prese a parlare in toni polemici.

 

Era eccitato dal vino, forse troppo. Anche Alessandro lo era. Disse che la gloria di quest’ultimo era dovuta anche e soprattutto alle truppe, che a lui in primis il re doveva la vita, dopo quanto era accaduto sul Granico, che le imprese di Filippo erano superiori per importanza rispetto a quelle del figlio.

 

Mentre Clito, ormai fuori di sé, lo diffamava pubblicamente, Alessandro tentava malamente di ribattere, onde placare l’animo bollente del suo generale. E intanto l’ira cresceva. Clito non cedeva, pervicace a tal punto da monopolizzare l’attenzione degli astanti, che iniziavano a temere seriamente per l’esito di quel diverbio tra ubriaconi. A un certo punto “osò difendere perfino Parmenione”. Fu allora che il re, punto sul vivo, cominciò a cercare un pugnale, a gridare al complotto. Quando poi Clito, citando un celebre verso di Euripide, esclamò: “Ohimè! Che cattivi costumi ci sono in Grecia!” Alessandro, nell’impeto, strappò la lancia ad uno degli scudieri e lo trafisse da parte a parte. Clito si accasciò a terra, moribondo. La scena lasciò tutti senza parole, con gli occhi sgranati fissi sul cadavere dell’uomo che conoscevano così bene. Nella sala riecheggiava solo un lamento cupo: era il pianto disperato di Alessandro.

 

Sarebbe eccessivo voler definire la contestazione aperta di Clito una congiura. Le modalità con cui quest’ultimo manifestò il suo pensiero non lasciano dubbi circa la responsabilità individuale dell’iniziativa e le intenzioni tutto sommato innocue. Alessandro, dal canto suo, dopo l’omicidio giacque nel suo letto per tre giorni in preda allo sconforto, invocando ora Clito ora la di lui sorella Ellanice. Spiegare la reazione del re non è facile. Di primo acchito verrebbe da dire che il dolore dovuto all’aver brutalmente ammazzato un amico avesse preso il sopravvento sul giovane re. Con un poco più di audacia, tuttavia, possiamo azzardarci a ipotizzare che, nel profondo, Alessandro fosse assillato da un dubbio atroce: Clito aveva detto la verità?

 

La congiura dei paggi

 

Alessandro ebbe poco tempo per piangersi addosso: l’India era vicina. L’atmosfera che si respirava nell’esercito rimaneva piuttosto tesa, considerato in particolare il fatto che nel 327 a.C. Alessandro aveva destato nuovo scandalo allorché aveva voluto a tutti i costi sposare Rossane, figlia dell’iranico Ossiarte. “I suoi amici si vergognavano” di quella scelta, stando alle fonti, e si rammaricavano del fatto che “dopo l’uccisione di Clito non v’era più ombra di libertà”. Anche in questa occasione Alessandro tentò, pur senza rinunciare all’opportunità politica, di rendere più digeribile la decisione ai suoi veterani, “ellenizzandola”: in fondo anche Achille aveva scelto Briseide, sua prigioniera e preda di guerra. La propaganda, un tempo utile, stavolta cadde nel vuoto: Alessandro non poteva cancellare il sangue di Clito, di Filota, di Parmenione, sangue già elevato da molti a simbolo del martirio per la libertà, un bene prezioso che dagli albori della polis connotava l’intera Storia greca. E che ora più che mai sembrava perduto.

 

In tale contesto si colloca la vicenda passata alla Storia come la congiura dei paggi. Le cause del complotto furono, in questo caso, di natura più marcatamente personale: uno dei giovani al servizio del re, Ermolao, si mise a capo di una cospirazione contro Alessandro per vendicare una punizione che questi gli aveva inflitto, umiliandolo. A seguito di una delazione al re, la congiura venne alla luce e i congiurati furono atrocemente torturati, per poi essere messi a morte. Tra i condannati figurava Callistene, un personaggio che vale la pena analizzare. Nativo di Olinto e imparentato con Aristotele, era partito in Asia al seguito di Alessandro, in qualità di storico ufficiale della spedizione.

 

Era, dunque, un intellettuale e come tutti gli intellettuali aveva idee proprie che difendeva testardamente. Per esempio credeva senza riserve nella libertà della Grecia e dei Greci. Non amò mai realmente Alessandro: sembra sia partito con lui per ottenere la riedificazione della sua patria, Olinto, espugnata e poi rasa al suolo da Filippo II di Macedonia nel 348 a.C. Neanche Alessandro lo aveva in simpatia, a causa delle sue eccentriche stravaganze da filosofo e del modo di pensare libero, troppo libero. La tensione tra i due sfociò nell’ostilità a seguito del pubblico rifiuto di Callistene della proskynesis, usanza tipica delle corti orientali di prostrarsi di fronte al sovrano.

 

Alessandro aveva iniziato a pretendere questo cerimoniale anche dai Greci e dai Macedoni, oltre che dai suoi sudditi Persiani, già abituati, a differenza delle genti elleniche, a venerare il re come un dio. Inutile dire che, tra i suoi più stretti collaboratori, la vicenda aveva destato scandalo; ma, mentre i più si limitarono a mormorare il proprio dissenso, solo Callistene ebbe sufficiente coerenza da respingere pubblicamente la genuflessione, un fatto, questo, che gli attirò una profonda ammirazione presso i giovani dell’esercito, affascinati dall’alone socratico formatosi attorno alla figura della storico.

 

Il caso volle che tra i sostenitori di Callistene ci fosse proprio quell’Ermolao di cui parlavamo poco fa. Tanto bastò ad Alessandro per avere il pretesto per sbarazzarsi di quel pensatore ingombrante, nonostante il suo nome non fosse stato pronunciato da nessuno degli aderenti alla congiura messi sotto tortura. Con l’accusa infondata di complicità con i cospiratori Callistene venne condannato a morte o, secondo altre fonti, incarcerato.

 

Alessandro non aveva gestito la situazione con la necessaria freddezza politica: fece di una congiura di modesta portata un caso eclatante, di un suo contestatore un martire della libertà. A proposito della tragica vicenda di Callistene, infatti, Curzio Rufo riporta che “l’uccisione di nessun altro suscitò fra i Greci un odio più grande contro Alessandro”.

 

L’errore sarebbe costato caro al re, che d’altra parte mostrò poco dopo un “tardivo pentimento”. Ancora una volta.

 

La fine del sogno

 

La congiura dei paggi fu l’ultimo tentativo di stroncare la vita di Alessandro. Ciò non tragga in inganno: gli alterchi con l’esercito e gli intrighi di corte tennero occupato il re macedone fino alla fine della sua breve esistenza.

 

Nonostante i dissensi, le truppe macedoni andarono avanti, secondo i voleri di Alessandro. I suoi uomini giunsero in India nel 326 a.C., carichi di aspettative su quanto una terra mitica aveva da offrire a dei mortali come loro. Pensieri vani: il mestiere delle armi esigeva nuovamente il suo tributo. Nello stesso anno Alessandro affrontò la sua battaglia più sanguinosa contro un sovrano locale, Poro, fiero abbastanza da non sottomettersi supinamente all’invasore straniero. Fu un’altra vittoria folgorante, ottenuta però a caro prezzo: tra i moltissimi caduti, il re perse anche il suo cavallo, Bucefalo, per il quale nutriva un’affezione particolare.

 

Il trionfo diede ad Alessandro la fiducia necessaria per proseguire la sua marcia verso Est. I suoi soldati ben conoscevano la smisurata ambizione del loro capo e le sue intenzioni di arrivare fino ai confini del mondo; ma erano sfiancati, demoralizzati e oltretutto irritati dal crescente ruolo che andavano acquistando le milizie dei popoli orientali sottomessi, introdotte nell’esercito ed educate, per volere di Alessandro, “nelle armi e nelle lettere”. Così all’ennesimo fiume da attraversare nella marcia verso Oriente, l’Ifasi (un affluente dell’Indo), i suoi stessi Macedoni, per la prima volta, si rifiutarono di seguire il loro re.

 

Alessandro, considerata la situazione, si rese conto della necessità di mostrarsi a quei cuori turbati. E parlò al suo esercito come un padre amorevole parla al figlio. Ricordò loro la grandezza delle conquiste che avevano compiuto: da Pella a Babilonia, dai Balcani al Caucaso, fino all’India, dove solo Dioniso osò spingersi. A dei titani come i suoi soldati niente poteva far paura, neanche orde oceaniche di orientali, neanche migliaia di elefanti. “Se io, mettendomi alla vostra testa senza fatiche e senza pericoli, vi conducessi fra le fatiche e i pericoli, non a torto sareste abbattuti nel morale, quando a voi soltanto toccassero le fatiche doveste cederne ad altri le ricompense; ma ora in comune sono le nostre fatiche, ugualmente partecipiamo ai pericoli, la ricompensa è alla portata di tutti”. Le ferite, i tagli, le cicatrici sul corpo del re erano prove irrefutabili di quel che sosteneva. “Vostra è la terra e voi ne siete i satrapi”, aggiunse sul finire del discorso.

 

Nessun applauso, nessuna esultanza: i Macedoni, col capo chino, non osavano sostenere lo sguardo deluso di Alessandro, che capì di non averli convinti. Fattosi coraggio, Ceno, valoroso generale da sempre tenuto in grande stima presso la corte, parlò con franchezza e moderazione, a nome dei commilitoni: “Tutti costoro sentono il desiderio dei genitori, delle mogli e dei figli, il desiderio della loro vera terra: sono da capire se desiderano rivederla, ora che ritornerebbero con il prestigio che tu hai conferito loro, importanti da insignificanti che erano, ricchi da poveri che erano”. Queste e simili parole raccolsero immediatamente un vasto consenso, quasi fossero quelle che ognuno aveva in mente.

 

Alessandro si adirò e rimase per tre giorni nella sua tenda, senza vedere nessuno. Difficile capire cosa abbia pensato per tutto quel tempo. Le lamentele dei suoi Macedoni avevano reso evidente quanto remote rischiavano di divenire le possibilità di realizzare il suo immenso piano politico se avesse deciso di spingersi ancora a Oriente: il filo con cui, nel bene e nel male, aveva cercato di legare i popoli sottomessi tra loro e con i Macedoni si era assottigliato, fino quasi a spezzarsi. Forse l’aveva teso troppo. Di certo un’altra forzatura avrebbe dato il colpo di grazia a un equilibrio già precario.

 

La saggezza prevalse: Alessandro fece annunciare all’esercito la sua decisione di tornare indietro. “Essi gridarono come potrebbe gridare una folla confusa in preda alla gioia e i più piangevano”, ci dice Arriano. Era finita, anche se nella mente di Alessandro quanto deciso non era un addio alla gloria, bensì un arrivederci. Non poteva sapere che non avrebbe mai più rivisto l’India, né condotto campagne militari di rilievo prima della sua precoce morte, avvenuta il 13 giugno del 323 a.C., a Babilonia.

 

Paradossalmente Alessandro, il “liberatore” di popoli, il creatore di un “impero armonioso”, come felicemente lo ha definito Robin Lane Fox, fu sconfitto proprio da coloro che quell’impero lo avevano costruito con lui. Perse la battaglia più ardua: dar vita ad un solido regno in cui far convivere, in pace, Greci e Persiani, cultura ellenica e tradizioni locali. A certificare il suo fallimento stanno i circa quarant’anni di ininterrotti conflitti tra i suoi generali, che come sciacalli famelici cercarono di appropriarsi della carcassa dell’impero macedone.

 

Che genere di eredità ci ha lasciato allora? Alessandro spezzò i rigidi confini del mondo antico, sia geografici che mentali. Il fatto che il suo grande sogno non sia stato compreso non ne sminuisce la dignità: il disegno politico universalistico di Alessandro rimane, per caratteristiche e modalità di esecuzione, un unicum nell’Evo Antico. Il suo audace volo del pensiero si scontrò con realtà che un uomo, da solo, non avrebbe mai potuto rivoluzionare. Per farlo sarebbe stata necessaria la forza di un Dio. Anche Alessandro, nel profondo, lo sapeva. E ne soffriva: “Vedete? È sangue umano! Umano! Non divino!”.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Plutarco, “Vite parallele. Alessandro e Cesare”, introduzioni di Domenico Magnino e Antonio La Penna, traduzioni e note di Domenico Magnino, BUR, Milano, 2008

Arriano, “Anabasi di Alessandro”, a cura di Dino Ambaglio, BUR, Milano, 2007

Curzio Rufo, “Storie di Alessandro Magno”, a cura di Giovanni Porta, BUR, Milano, 2005

Claude Mossé, “Alessandro Magno. La realtà e il mito”, Editori Laterza, Roma-Bari, 2003

Georges Radet, “Alessandro Magno”, BUR, Milano, 2003

Matthew Dillon e Lynda Garland, “Ancient Greece. Social and Historical Documents from Archaic Times to the Death of Alexander the Great”, Routledge, New York, 2010

Robin Lane Fox, “Alexander the Great”, Penguin Books



 

 

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