N. 91 - Luglio 2015
(CXXII)
Congiure e dissenso sotto Alessandro
I retroscena della spedizione che arrivò ai confini del mondo antico
di Giulio Talini
Il re e il suo esercito
“Quello
che
amo
in
Alessandro
Magno
non
sono
le
sue
battaglie,
di
cui
non
possiamo
farci
un’idea
precisa,
ma
la
sua
arte
politica”.
A
parlare
è
Napoleone,
che
non
nascose
mai
di
ispirarsi
costantemente
alla
grandezza
degli
antichi.
Qui
coglie
l’aspetto
probabilmente
più
significativo
dell’epopea
di
Alessandro.
Sarebbe
stato,
infatti,
infinitamente
arduo
far
arrivare
le
falangi
macedoni
fino
all’India,
terra
del
mito,
senza
una
visione
politica
in
grado
di
rendere
omogeneo
e
coeso
il
mosaico
di
popoli
che
nella
seconda
metà
del
IV
secolo
a.C.
abitavano
i
territori
compresi
tra
la
penisola
balcanica
e
l’odierno
Pakistan.
Il
disegno
del
grande
condottiero
lo
scopriamo
a
poco
a
poco,
da
alcuni
episodi
salienti
del
suo
cammino
verso
l’Oriente
estremo,
iniziato
nel
334
a.C.:
sbarcò
in
Asia
da
re
dei
Macedoni
e
hegemòn
dei
Greci;
conquistò
l’Egitto
e si
fece
proclamare
“figlio
di
Zeus”
dall’oracolo
di
Siwa,
accostandosi
alla
figura
del
faraone,
tradizionalmente
salutato
quale
“figlio
di
Ra”;
infine,
sconfitto
Dario
a
Gaugamela
(331
a.C.),
preferì
presentarsi
come
successore
degli
Achemenidi,
piuttosto
che
come
spietato
conquistatore
straniero.
A
circa
26
anni,
Alessandro
incarnava
le
quattro
figure
più
importanti
del
mondo
antico,
divenendo
il
simbolo
di
un
impero
cosmopolita,
universale.
Voleva
che
ogni
suddito,
qualunque
ne
fossero
la
cultura
o le
tradizioni,
si
riconoscesse
in
lui
e in
lui
soltanto.
A
tal
fine,
accoglieva
nel
suo
entourage,
su
un
piano
di
parità,
figure
di
spicco
dei
popoli
sottomessi,
come
l’augure
licio
Aristandro,
e
offriva
spesso
doni
e
sacrifici
a
divinità
straniere.
Addirittura,
ci
racconta
Diodoro
Siculo,
“si
cinse
del
diadema
persiano
e
indossò
la
tunica
bianca,
la
cintura
persiana
e
ogni
altro
ornamento”,
secondo
il
costume
delle
dinastie
regnanti
in
Persia,
in
modo
che,
anche
nell’abbigliamento,
potesse
essere
riconosciuto
come
il
vero
successore
di
Ciro
il
Grande.
Di
tutto
questo,
gli
unici
a
capirci
davvero
poco
erano
i
suoi
stessi
Macedoni,
che
con
il
loro
re
avevano
condiviso
la
gioia
e il
dolore,
il
fallimento
e il
trionfo.
È
indubbio
che
Alessandro
si
sia
sforzato
in
tutti
i
modi
di
convincerli
che
quella
campagna
militare
fosse
anche
la
loro,
che
l’immortalità
toccasse
tanto
al
condottiero
quanto
ai
suoi
soldati.
Il
sovrano
macedone
infatti,
attraverso
una
accorta
propaganda,
cercò
almeno
in
principio
di
spacciare
la
spedizione
in
Asia
come
una
nuova
guerra
di
Troia
guidata
da
un
re
che
non
a
caso
era
un
lontano
discendente
di
Achille.
Ebbe
poi
la
cura
di
affidare
il
governo
delle
prime
satrapie
conquistate
proprio
a
dei
Macedoni,
senza
far
mancare
a
nessuno
di
essi
una
cospicua
parte
di
bottino.
Ma,
mentre
Alessandro
unificava
popoli
e
realizzava
il
suo
piano
politico,
gli
uomini
che
erano
partiti
con
lui
lo
veneravano
sempre
meno,
quasi
si
sentissero
come
degli
amanti
traditi.
L’impressione
generale,
dapprima
serpeggiante,
poi,
come
vedremo,
manifestata
apertamente,
era
che
Alessandro
stesse
a
poco
a
poco
rinnegando
i
suoi
Macedoni,
sia
sul
piano
politico
che
su
quello
militare,
sedotto
dalla
corruzione
dei
molli
costumi
persiani.
“[...]
concesse
libero
sfogo
alle
proprie
passioni,
e
mutò
continenza
e
moderazione,
le
qualità
di
spicco
di
ogni
eccezionale
fortuna,
in
superbia
e
dissolutezza”
riporta
Curzio
Rufo,
cogliendo
in
pieno
l’idea
che
del
loro
re
si
stavano
facendo
i
suoi
soldati.
L’affare filota
Lo
strisciante
malcontento
di
alcune
frange
dell’esercito
sfociò
nella
più
drammatica
delle
possibilità
per
un
re:
la
congiura.
L’esercito
macedone
trascorreva
il
novembre
del
330
a.C.
negli
accampamenti.
Dario
era
morto
nell’estate,
ma
la
marcia
continuava
a
ritmi
serrati,
almeno
finché
l’usurpatore
Besso
respirava
ancora.
In
quei
giorni,
un
certo
Dimno,
soldato
poco
gradito
al
sovrano,
rivelò
un
segreto
di
vitale
importanza
al
suo
amante,
Nicomaco.
“Gli
svelò
il
complotto
contro
il
re
da
effettuarsi
di
lì a
due
giorni
e al
quale
egli
partecipava
insieme
a
persone
di
valore
e
autorevoli”
spiega
Curzio
Rufo.
Ma
l’amante,
oltre
a
pronunciarsi
contrario
all’iniziativa
con
risolutezza,
ne
parlò
con
il
fratello,
Cebalino.
I
due
si
risolsero
a
chiedere
udienza
ad
Alessandro,
per
informarlo
della
gravità
della
situazione.
Ed è
qui
che
la
vicenda
si
fa
interessante.
Cebalino
si
era
rivolto,
onde
essere
presentato
al
re
come
si
conveniva,
a
Filota,
uno
di
quelli
che,
presso
Alessandro,
contavano
davvero.
Questi
era
figlio
di
Parmenione
ed
era
considerato
un
uomo
fidato
e
coraggioso.
Sennonché
da
qualche
tempo,
concordano
le
fonti,
si
era
insuperbito,
arrivando
perfino
a
mettere
in
dubbio
i
meriti
di
Alessandro,
che
sosteneva
dovuti
in
buona
misura
anche
a
lui
e a
suo
padre.
Ora,
sebbene
i
resoconti
che
ci
sono
pervenuti
non
forniscano
un’unica
versione
dei
fatti,
risulta
che
Filota,
non
è
chiaro
perché,
si
fosse
rifiutato
di
concedere
a
Cebalino
un
colloquio
con
il
re.
Voleva
tener
nascosto
il
complotto?
Se
sì,
vi
aveva
preso
attivamente
parte
o
semplicemente
ne
era
al
corrente?
Non
ci è
dato
di
saperlo
con
certezza.
Ma
la
notizia
ad
Alessandro
arrivò
comunque
e
non
la
prese
per
niente
bene.
Si
tenne
un
processo
vero
e
proprio,
in
cui
fu
concesso
a
Filota
di
difendersi
personalmente.
Convinse
poco,
soprattutto
perché
ammise
egli
stesso
di
essere
venuto
a
conoscenza
delle
trame
dei
cospiratori,
adducendo
quale
motivo
della
sua
mancata
denuncia
al
re
la
scarsa
credibilità
di
quanto
gli
era
stato
riferito.
L’unico
epilogo
possibile
era
la
condanna
a
morte
dei
congiurati
e
dello
stesso
Filota,
dopo
ore
di
atroci
torture.
Immediatamente
dopo
Alessandro
fece
uccidere
anche
Parmenione,
rimasto
a
Ecbatana,
“perché
non
riteneva
credibile
che
non
avesse
parte
col
figlio
nel
disegno”.
In
realtà
l’insolita
fretta
con
la
quale
il
re
macedone
uccise
padre
e
figlio
palesava
verità
celate
tra
le
pieghe
della
monarchia
macedone.
Molte
volte
in
effetti
gli
storici
antichi
parlano
del
consenso
e
del
prestigio
raggiunti
da
Filota
e da
Parmenione
nell’esercito
e
neppure
una
fonte
equilibrata
come
Arriano
riesce
a
nascondere
il
fatto
che
il
re
macedone
avesse
ordinato
l’assassinio
di
Parmenione
non
già
perché
avesse
una
benché
minima
prova
di
un
suo
coinvolgimento
nel
complotto,
quanto
piuttosto
per
il
fondato
timore
di
una
sua
reazione
dopo
la
morte
del
figlio
che
avrebbe
potuto
essere
assai
pericolosa.
Le
vanterie
di
Filota,
perciò,
un
fondamento
di
verità
lo
avevano
ed è
prima
di
tutto
su
questa
base
che
Alessandro
mise
in
atto
una
repressione
tanto
spietata.
Ad
ogni
modo,
per
quanto
lunga
potrebbe
essere
ancora
la
lista
delle
supposizioni,
su
un
punto
la
certezza
si
fa
granitica:
Alessandro
non
era
più
amato
da
tutti.
Delitto a Maracanda
L’affare
Filota,
in
ogni
caso,
rimase
tutto
sommato
una
questione
piena
di
interrogativi
e di
passaggi
poco
chiari.
Alessandro
la
ingigantì,
certo,
ma
per
fini
squisitamente
politici.
Peraltro,
il
risultato
che
sperava
di
ottenere
dalla
feroce
repressione
fu
solo
in
minima
parte
raggiunto.
Secondo
Plutarco
dopo
la
congiura
il
re
macedone
divenne
improvvisamente
“temibile
a
molti
dei
suoi
amici”,
ma,
pur
trattandosi
di
un’asserzione
indubbiamente
fondata,
lo
spavento
suscitato
nei
critici
di
Alessandro
non
durò
a
lungo.
In
seguito
alla
cattura
e
all’orribile
uccisione
di
Besso,
Alessandro
poteva
dire
di
aver
realmente
ultimato
la
conquista
del
grande
impero
achemenide.
In
quanto
successore
del
Gran
Re
di
Persia
a
tutti
gli
effetti,
portò
a
termine,
come
già
accennato,
l’assimilazione
dei
costumi
dei
vinti,
in
modo
che
i
popoli
sottomessi
si
sentissero
liberati,
non
umiliati.
Conseguentemente,
il
malumore
tra
i
suoi
fedelissimi
si
ripresentò
in
una
forma
peggiore
della
precedente,
nonostante
non
potesse
dirsi
certo
sopita
la
paura
di
fare
la
fine
di
Filota
o di
Parmenione.
Alla
fine
dell’autunno
328
a.C.
Alessandro
era
riuscito
a
ristabilire
la
sua
autorità
sulla
Battriana
e
sulla
Sogdiana,
il
cui
governo
fu
da
lui
conferito
a
Clito.
Questi
era
stato
uno
dei
collaboratori
più
fidati
di
Filippo
II e
rivestì
un
ruolo
centrale
anche
presso
la
corte
di
Alessandro,
soprattutto
da
quando
gli
aveva
salvato
la
vita
nella
battaglia
del
Granico
(334
a.C.).
La
sorella,
Ellanice,
aveva
allevato
il
re,
che
finì
per
amarla
di
un
amore
quasi
filiale.
Durante
uno
di
quei
banchetti
faraonici
in
cui
i
generali
macedoni
bevevano
senza
posa
fino
al
mattino,
presso
Maracanda,
mentre
volavano
spassionati
encomi
rivolti
al
re,
Clito,
che,
evidentemente,
come
racconta
Arriano,
“da
tempo
era
adirato
per
il
mutamento
di
Alessandro
in
favore
di
abitudini
barbare
e
per
i
discorsi
degli
adulatori”
prese
a
parlare
in
toni
polemici.
Era
eccitato
dal
vino,
forse
troppo.
Anche
Alessandro
lo
era.
Disse
che
la
gloria
di
quest’ultimo
era
dovuta
anche
e
soprattutto
alle
truppe,
che
a
lui
in
primis
il
re
doveva
la
vita,
dopo
quanto
era
accaduto
sul
Granico,
che
le
imprese
di
Filippo
erano
superiori
per
importanza
rispetto
a
quelle
del
figlio.
Mentre
Clito,
ormai
fuori
di
sé,
lo
diffamava
pubblicamente,
Alessandro
tentava
malamente
di
ribattere,
onde
placare
l’animo
bollente
del
suo
generale.
E
intanto
l’ira
cresceva.
Clito
non
cedeva,
pervicace
a
tal
punto
da
monopolizzare
l’attenzione
degli
astanti,
che
iniziavano
a
temere
seriamente
per
l’esito
di
quel
diverbio
tra
ubriaconi.
A un
certo
punto
“osò
difendere
perfino
Parmenione”.
Fu
allora
che
il
re,
punto
sul
vivo,
cominciò
a
cercare
un
pugnale,
a
gridare
al
complotto.
Quando
poi
Clito,
citando
un
celebre
verso
di
Euripide,
esclamò:
“Ohimè!
Che
cattivi
costumi
ci
sono
in
Grecia!”
Alessandro,
nell’impeto,
strappò
la
lancia
ad
uno
degli
scudieri
e lo
trafisse
da
parte
a
parte.
Clito
si
accasciò
a
terra,
moribondo.
La
scena
lasciò
tutti
senza
parole,
con
gli
occhi
sgranati
fissi
sul
cadavere
dell’uomo
che
conoscevano
così
bene.
Nella
sala
riecheggiava
solo
un
lamento
cupo:
era
il
pianto
disperato
di
Alessandro.
Sarebbe
eccessivo
voler
definire
la
contestazione
aperta
di
Clito
una
congiura.
Le
modalità
con
cui
quest’ultimo
manifestò
il
suo
pensiero
non
lasciano
dubbi
circa
la
responsabilità
individuale
dell’iniziativa
e le
intenzioni
tutto
sommato
innocue.
Alessandro,
dal
canto
suo,
dopo
l’omicidio
giacque
nel
suo
letto
per
tre
giorni
in
preda
allo
sconforto,
invocando
ora
Clito
ora
la
di
lui
sorella
Ellanice.
Spiegare
la
reazione
del
re
non
è
facile.
Di
primo
acchito
verrebbe
da
dire
che
il
dolore
dovuto
all’aver
brutalmente
ammazzato
un
amico
avesse
preso
il
sopravvento
sul
giovane
re.
Con
un
poco
più
di
audacia,
tuttavia,
possiamo
azzardarci
a
ipotizzare
che,
nel
profondo,
Alessandro
fosse
assillato
da
un
dubbio
atroce:
Clito
aveva
detto
la
verità?
La congiura dei paggi
Alessandro
ebbe
poco
tempo
per
piangersi
addosso:
l’India
era
vicina.
L’atmosfera
che
si
respirava
nell’esercito
rimaneva
piuttosto
tesa,
considerato
in
particolare
il
fatto
che
nel
327
a.C.
Alessandro
aveva
destato
nuovo
scandalo
allorché
aveva
voluto
a
tutti
i
costi
sposare
Rossane,
figlia
dell’iranico
Ossiarte.
“I
suoi
amici
si
vergognavano”
di
quella
scelta,
stando
alle
fonti,
e si
rammaricavano
del
fatto
che
“dopo
l’uccisione
di
Clito
non
v’era
più
ombra
di
libertà”.
Anche
in
questa
occasione
Alessandro
tentò,
pur
senza
rinunciare
all’opportunità
politica,
di
rendere
più
digeribile
la
decisione
ai
suoi
veterani,
“ellenizzandola”:
in
fondo
anche
Achille
aveva
scelto
Briseide,
sua
prigioniera
e
preda
di
guerra.
La
propaganda,
un
tempo
utile,
stavolta
cadde
nel
vuoto:
Alessandro
non
poteva
cancellare
il
sangue
di
Clito,
di
Filota,
di
Parmenione,
sangue
già
elevato
da
molti
a
simbolo
del
martirio
per
la
libertà,
un
bene
prezioso
che
dagli
albori
della
polis
connotava
l’intera
Storia
greca.
E
che
ora
più
che
mai
sembrava
perduto.
In
tale
contesto
si
colloca
la
vicenda
passata
alla
Storia
come
la
congiura
dei
paggi.
Le
cause
del
complotto
furono,
in
questo
caso,
di
natura
più
marcatamente
personale:
uno
dei
giovani
al
servizio
del
re,
Ermolao,
si
mise
a
capo
di
una
cospirazione
contro
Alessandro
per
vendicare
una
punizione
che
questi
gli
aveva
inflitto,
umiliandolo.
A
seguito
di
una
delazione
al
re,
la
congiura
venne
alla
luce
e i
congiurati
furono
atrocemente
torturati,
per
poi
essere
messi
a
morte.
Tra
i
condannati
figurava
Callistene,
un
personaggio
che
vale
la
pena
analizzare.
Nativo
di
Olinto
e
imparentato
con
Aristotele,
era
partito
in
Asia
al
seguito
di
Alessandro,
in
qualità
di
storico
ufficiale
della
spedizione.
Era,
dunque,
un
intellettuale
e
come
tutti
gli
intellettuali
aveva
idee
proprie
che
difendeva
testardamente.
Per
esempio
credeva
senza
riserve
nella
libertà
della
Grecia
e
dei
Greci.
Non
amò
mai
realmente
Alessandro:
sembra
sia
partito
con
lui
per
ottenere
la
riedificazione
della
sua
patria,
Olinto,
espugnata
e
poi
rasa
al
suolo
da
Filippo
II
di
Macedonia
nel
348
a.C.
Neanche
Alessandro
lo
aveva
in
simpatia,
a
causa
delle
sue
eccentriche
stravaganze
da
filosofo
e
del
modo
di
pensare
libero,
troppo
libero.
La
tensione
tra
i
due
sfociò
nell’ostilità
a
seguito
del
pubblico
rifiuto
di
Callistene
della
proskynesis,
usanza
tipica
delle
corti
orientali
di
prostrarsi
di
fronte
al
sovrano.
Alessandro
aveva
iniziato
a
pretendere
questo
cerimoniale
anche
dai
Greci
e
dai
Macedoni,
oltre
che
dai
suoi
sudditi
Persiani,
già
abituati,
a
differenza
delle
genti
elleniche,
a
venerare
il
re
come
un
dio.
Inutile
dire
che,
tra
i
suoi
più
stretti
collaboratori,
la
vicenda
aveva
destato
scandalo;
ma,
mentre
i
più
si
limitarono
a
mormorare
il
proprio
dissenso,
solo
Callistene
ebbe
sufficiente
coerenza
da
respingere
pubblicamente
la
genuflessione,
un
fatto,
questo,
che
gli
attirò
una
profonda
ammirazione
presso
i
giovani
dell’esercito,
affascinati
dall’alone
socratico
formatosi
attorno
alla
figura
della
storico.
Il
caso
volle
che
tra
i
sostenitori
di
Callistene
ci
fosse
proprio
quell’Ermolao
di
cui
parlavamo
poco
fa.
Tanto
bastò
ad
Alessandro
per
avere
il
pretesto
per
sbarazzarsi
di
quel
pensatore
ingombrante,
nonostante
il
suo
nome
non
fosse
stato
pronunciato
da
nessuno
degli
aderenti
alla
congiura
messi
sotto
tortura.
Con
l’accusa
infondata
di
complicità
con
i
cospiratori
Callistene
venne
condannato
a
morte
o,
secondo
altre
fonti,
incarcerato.
Alessandro
non
aveva
gestito
la
situazione
con
la
necessaria
freddezza
politica:
fece
di
una
congiura
di
modesta
portata
un
caso
eclatante,
di
un
suo
contestatore
un
martire
della
libertà.
A
proposito
della
tragica
vicenda
di
Callistene,
infatti,
Curzio
Rufo
riporta
che
“l’uccisione
di
nessun
altro
suscitò
fra
i
Greci
un
odio
più
grande
contro
Alessandro”.
L’errore
sarebbe
costato
caro
al
re,
che
d’altra
parte
mostrò
poco
dopo
un
“tardivo
pentimento”.
Ancora
una
volta.
La fine del sogno
La
congiura
dei
paggi
fu
l’ultimo
tentativo
di
stroncare
la
vita
di
Alessandro.
Ciò
non
tragga
in
inganno:
gli
alterchi
con
l’esercito
e
gli
intrighi
di
corte
tennero
occupato
il
re
macedone
fino
alla
fine
della
sua
breve
esistenza.
Nonostante
i
dissensi,
le
truppe
macedoni
andarono
avanti,
secondo
i
voleri
di
Alessandro.
I
suoi
uomini
giunsero
in
India
nel
326
a.C.,
carichi
di
aspettative
su
quanto
una
terra
mitica
aveva
da
offrire
a
dei
mortali
come
loro.
Pensieri
vani:
il
mestiere
delle
armi
esigeva
nuovamente
il
suo
tributo.
Nello
stesso
anno
Alessandro
affrontò
la
sua
battaglia
più
sanguinosa
contro
un
sovrano
locale,
Poro,
fiero
abbastanza
da
non
sottomettersi
supinamente
all’invasore
straniero.
Fu
un’altra
vittoria
folgorante,
ottenuta
però
a
caro
prezzo:
tra
i
moltissimi
caduti,
il
re
perse
anche
il
suo
cavallo,
Bucefalo,
per
il
quale
nutriva
un’affezione
particolare.
Il
trionfo
diede
ad
Alessandro
la
fiducia
necessaria
per
proseguire
la
sua
marcia
verso
Est.
I
suoi
soldati
ben
conoscevano
la
smisurata
ambizione
del
loro
capo
e le
sue
intenzioni
di
arrivare
fino
ai
confini
del
mondo;
ma
erano
sfiancati,
demoralizzati
e
oltretutto
irritati
dal
crescente
ruolo
che
andavano
acquistando
le
milizie
dei
popoli
orientali
sottomessi,
introdotte
nell’esercito
ed
educate,
per
volere
di
Alessandro,
“nelle
armi
e
nelle
lettere”.
Così
all’ennesimo
fiume
da
attraversare
nella
marcia
verso
Oriente,
l’Ifasi
(un
affluente
dell’Indo),
i
suoi
stessi
Macedoni,
per
la
prima
volta,
si
rifiutarono
di
seguire
il
loro
re.
Alessandro,
considerata
la
situazione,
si
rese
conto
della
necessità
di
mostrarsi
a
quei
cuori
turbati.
E
parlò
al
suo
esercito
come
un
padre
amorevole
parla
al
figlio.
Ricordò
loro
la
grandezza
delle
conquiste
che
avevano
compiuto:
da
Pella
a
Babilonia,
dai
Balcani
al
Caucaso,
fino
all’India,
dove
solo
Dioniso
osò
spingersi.
A
dei
titani
come
i
suoi
soldati
niente
poteva
far
paura,
neanche
orde
oceaniche
di
orientali,
neanche
migliaia
di
elefanti.
“Se
io,
mettendomi
alla
vostra
testa
senza
fatiche
e
senza
pericoli,
vi
conducessi
fra
le
fatiche
e i
pericoli,
non
a
torto
sareste
abbattuti
nel
morale,
quando
a
voi
soltanto
toccassero
le
fatiche
doveste
cederne
ad
altri
le
ricompense;
ma
ora
in
comune
sono
le
nostre
fatiche,
ugualmente
partecipiamo
ai
pericoli,
la
ricompensa
è
alla
portata
di
tutti”.
Le
ferite,
i
tagli,
le
cicatrici
sul
corpo
del
re
erano
prove
irrefutabili
di
quel
che
sosteneva.
“Vostra
è la
terra
e
voi
ne
siete
i
satrapi”,
aggiunse
sul
finire
del
discorso.
Nessun
applauso,
nessuna
esultanza:
i
Macedoni,
col
capo
chino,
non
osavano
sostenere
lo
sguardo
deluso
di
Alessandro,
che
capì
di
non
averli
convinti.
Fattosi
coraggio,
Ceno,
valoroso
generale
da
sempre
tenuto
in
grande
stima
presso
la
corte,
parlò
con
franchezza
e
moderazione,
a
nome
dei
commilitoni:
“Tutti
costoro
sentono
il
desiderio
dei
genitori,
delle
mogli
e
dei
figli,
il
desiderio
della
loro
vera
terra:
sono
da
capire
se
desiderano
rivederla,
ora
che
ritornerebbero
con
il
prestigio
che
tu
hai
conferito
loro,
importanti
da
insignificanti
che
erano,
ricchi
da
poveri
che
erano”.
Queste
e
simili
parole
raccolsero
immediatamente
un
vasto
consenso,
quasi
fossero
quelle
che
ognuno
aveva
in
mente.
Alessandro
si
adirò
e
rimase
per
tre
giorni
nella
sua
tenda,
senza
vedere
nessuno.
Difficile
capire
cosa
abbia
pensato
per
tutto
quel
tempo.
Le
lamentele
dei
suoi
Macedoni
avevano
reso
evidente
quanto
remote
rischiavano
di
divenire
le
possibilità
di
realizzare
il
suo
immenso
piano
politico
se
avesse
deciso
di
spingersi
ancora
a
Oriente:
il
filo
con
cui,
nel
bene
e
nel
male,
aveva
cercato
di
legare
i
popoli
sottomessi
tra
loro
e
con
i
Macedoni
si
era
assottigliato,
fino
quasi
a
spezzarsi.
Forse
l’aveva
teso
troppo.
Di
certo
un’altra
forzatura
avrebbe
dato
il
colpo
di
grazia
a un
equilibrio
già
precario.
La
saggezza
prevalse:
Alessandro
fece
annunciare
all’esercito
la
sua
decisione
di
tornare
indietro.
“Essi
gridarono
come
potrebbe
gridare
una
folla
confusa
in
preda
alla
gioia
e i
più
piangevano”,
ci
dice
Arriano.
Era
finita,
anche
se
nella
mente
di
Alessandro
quanto
deciso
non
era
un
addio
alla
gloria,
bensì
un
arrivederci.
Non
poteva
sapere
che
non
avrebbe
mai
più
rivisto
l’India,
né
condotto
campagne
militari
di
rilievo
prima
della
sua
precoce
morte,
avvenuta
il
13
giugno
del
323
a.C.,
a
Babilonia.
Paradossalmente
Alessandro,
il
“liberatore”
di
popoli,
il
creatore
di
un
“impero
armonioso”,
come
felicemente
lo
ha
definito
Robin
Lane
Fox,
fu
sconfitto
proprio
da
coloro
che
quell’impero
lo
avevano
costruito
con
lui.
Perse
la
battaglia
più
ardua:
dar
vita
ad
un
solido
regno
in
cui
far
convivere,
in
pace,
Greci
e
Persiani,
cultura
ellenica
e
tradizioni
locali.
A
certificare
il
suo
fallimento
stanno
i
circa
quarant’anni
di
ininterrotti
conflitti
tra
i
suoi
generali,
che
come
sciacalli
famelici
cercarono
di
appropriarsi
della
carcassa
dell’impero
macedone.
Che
genere
di
eredità
ci
ha
lasciato
allora?
Alessandro
spezzò
i
rigidi
confini
del
mondo
antico,
sia
geografici
che
mentali.
Il
fatto
che
il
suo
grande
sogno
non
sia
stato
compreso
non
ne
sminuisce
la
dignità:
il
disegno
politico
universalistico
di
Alessandro
rimane,
per
caratteristiche
e
modalità
di
esecuzione,
un
unicum
nell’Evo
Antico.
Il
suo
audace
volo
del
pensiero
si
scontrò
con
realtà
che
un
uomo,
da
solo,
non
avrebbe
mai
potuto
rivoluzionare.
Per
farlo
sarebbe
stata
necessaria
la
forza
di
un
Dio.
Anche
Alessandro,
nel
profondo,
lo
sapeva.
E ne
soffriva:
“Vedete?
È
sangue
umano!
Umano!
Non
divino!”.
Riferimenti
bibliografici:
Plutarco,
“Vite
parallele.
Alessandro
e
Cesare”,
introduzioni
di
Domenico
Magnino
e
Antonio
La
Penna,
traduzioni
e
note
di
Domenico
Magnino,
BUR,
Milano,
2008
Arriano,
“Anabasi
di
Alessandro”,
a
cura
di
Dino
Ambaglio,
BUR,
Milano,
2007
Curzio
Rufo,
“Storie
di
Alessandro
Magno”,
a
cura
di
Giovanni
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BUR,
Milano,
2005
Claude
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“Alessandro
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La
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Editori
Laterza,
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2003
Georges
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“Alessandro
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BUR,
Milano,
2003
Matthew
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“Ancient
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Social
and
Historical
Documents
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Archaic
Times
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Death
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Great”,
Routledge,
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2010
Robin
Lane
Fox,
“Alexander
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Great”,
Penguin
Books