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N. 69 - Settembre 2013 (C)

LA CONGIURA DI PISONE
Il complotto che riuscì quasi a uccidere l’imperatore Nerone

di Silvia Mangano

 

“Dopo queste parole, tagliano le vene del braccio in un solo colpo. Seneca, poiché il suo corpo vecchio e indebolito dal vitto frugale procurava una lenta fuoriuscita al sangue, si recise anche le vene delle gambe e delle ginocchia” (Ann., XV 63).

 

Questa è la descrizione della famosa morte di Lucio Anneo Seneca, che nel 65 d.C. fu accusato di aver preso parte a una congiura contro l’imperatore Nerone. Sebbene il passo che narra la morte di Seneca sia oltremodo famoso, la congiura per cui fu condannato è un episodio quasi completamente ignorato dagli storici.

 

La fonte più autorevole riguardo ai fatti è l’opera Annales dello storico Publio Cornelio Tacito, all’epoca solo un bambino. Tacito non ha sufficienti dati per stabilire chi per primo abbia ordito il complotto, ma sottolinea più volte che all’inizio del consolato Silio Nerva e Attico Vestino “aveva già preso avvio e si era consolidata una congiura, cui avevano aderito a gara senatori, cavalieri, soldati e anche donne” (Ann. XV 48).

 

Correva l’anno 65 d.C., Nerone poteva contare alle sue spalle nove anni di governo, quattro dei quali caratterizzati da atti di populismo e persecuzioni nel ceto senatorio.

 

Questi ultimi anni avevano indotto un numero contingente di personalità dello stato romano a organizzare un complotto: Gaio Pisone, capo carismatico del gruppo, era un uomo molto apprezzato dal popolo per le qualità di oratore, per la bellezza e la prestanza fisica, godeva però di una certa fama di viziosità.

 

I suoi principali sostenitori erano il tribuno Subrio Flavo e il centurione Sulpicio Aspro, insieme al poeta Marco Anneo Lucano e Plauzio Laterano, ed erano essenzialmente mossi dall’odio nei confronti dell’imperatore e dall’amore nei confronti dello Stato.

 

A questi si associarono i senatori Flavio Scevino e Afranio Quinziano e i cavalieri romani Claudio Senecione, Cervario Proculo, Vulcacio Ararico, Giulio Augurino, Munazio Grato, Antonio Natale e Marcio Festo (Ann. XV 50).

 

I piani della cospirazione rimasero aleatori finchè i congiurati non ebbero la certezza che anche Fenio Rufo partecipasse al progetto, questi deteneva la prefettura del Pretorio insieme a Tigellino ed era, quindi, molto vicino al princeps.

 

Al complotto si unì anche Epicari, una liberta che fino ad allora – almeno a detta di Tacito – si era disinteressata “di problemi di alto e nobile livello”.

 

Tacito racconta che fu lei a spronare i congiurati a intervenire il prima possibile e che, stanca di attendere e “nauseata delle loro cautele”, cercò di sobillare una rivolta tra i comandanti della flotta di stanza al Miseno (Campania).

 

Tra questi, Volusio Proculo sembrava il più adatto su cui fare leva: era stato uno degli esecutori dell’omicidio di Agrippina, la madre di Nerone, ma non aveva ricevuto l’avanzamento di carriera sperato dopo aver compiuto un atto tanto infamante per conto del principe.

 

Se ne era talmente lamentato con Epicari, che la liberta, sperando di acquistarlo alla sua causa, gli aveva rivelato del complotto senza, però, fare i nomi dei congiurati. Per tale motivo la delazione di Proculo non ottenne i risultati sperati, Epicari venne arrestata e condotta dinnanzi all’imperatore, ma non poté essere condannata.

 

Nonostante non sussistesse nessun capo di imputazione, Nerone non la liberò, ma la tenne in prigione. Intanto, venuti a sapere della sorte della donna, i cospiratori decisero di affrettare la tabella di marcia e fissarono la data dell’esecuzione al giorno dei ludi circensi.

 

L’imperatore, infatti, viveva letteralmente barricato nella sua residenza e usciva di rado, di solito solo per prendere parte alle manifestazioni pubbliche.

 

L’attentato si doveva svolgere in due brevi e semplici fasi: Laterano avrebbe dovuto avvicinarsi al principe, attirare la sua attenzione con richieste di aiuto per la sua situazione economica e, una volta sicura di averlo a portata di mano, pugnalarlo a morte; intanto Pisone avrebbe dovuto attendere davanti al Tempio di Cerere il prefetto Fenio Rufo che l’avrebbe scortato nella caserma dei pretoriani per ingraziarsi il popolo.

 

Durante l’ultima riunione dei congiurati, Scevino aveva preteso un ruolo di primo piano, chiedendo che fosse dato a lui l’onere e l’onore di pugnalare Nerone con il coltello che lui stesso aveva preso dal tempio della dea Salute (o, secondo altre versioni, dal tempio della dea Fortuna).

 

Sembra davvero uno scherzo della sorte che la congiura venne scoperta proprio per colpa di quel pugnale: tornato a casa e accortosi che la lama aveva bisogno di essere affilata, Scevino aveva chiesto al liberto Milico di portarla da un fabbro e di reperirgli bende per ferite. Milico, insospettito e spronato dalla moglie, corse a denunciare tutto direttamente al liberto dell’imperatore, Epafrodito.

 

Scevino venne convocato immantinente, ma dapprima riuscì a cavarsela, finché non venne ordinato l’interrogatorio congiunto a Natale, altro cospirante. I due crollarono e iniziarono a elencare i nomi degli altri congiurati, Natale fece persino il nome di Seneca, il quale non fu mai veramente coinvolto nel complotto. A seguire tutti gli altri congiurati si accusarono a vicenda, sperando di aver salva la vita tradendo i propri amici.

 

Durante la lunga serie di interrogatori, Nerone si ricordò di quella liberta arrestata qualche tempo prima: Epicari fu torturata per ore senza che rivelasse un solo nome e, riportata nella sua stanza, si impiccò con una fascia che teneva attorno ai seni pur di non tradire i congiurati.

 

Tacito chiude il racconto della sventurata eroina con queste parole: “gesto tanto più nobile da parte di una donna, una liberta, la quale, in una situazione così disperata, cercava di salvare persone estranee e a lei quasi sconosciute, mentre uomini nati liberi, dei maschi, cavalieri e senatori romani, non sfiorati dalla tortura, tradivano, ciascuno, le persone più care” (Ann. XV 57).

 

Agli interrogatori seguirono le condanne a morte, che furono ordinate anche per chi era stato soltanto visto parlare o mangiare con uno dei congiurati. Fenio Rufo tentò di destreggiarsi tra il ruolo di congiurato e quello di inquisitore, ma fu presto smascherato dallo stesso Scevino durante un interrogatorio.

 

Le morti più eroiche sono senza dubbio quelle di Subrio Flavo e Sulpicio Aspro: il primo, alla domanda di Nerone sul perché avesse deciso di tradirlo, rispose “Ti odiavo. Nessun soldato ti è stato fedele più di me, finché hai meritato di essere amato; ho cominciato a odiarti da quando sei diventato assassino di tua madre e di tua moglie e auriga e istrione e incendiario” e al riguardo Tacito commenta: “Non risulta che, in quella congiura, abbiano dovuto ascoltare nulla di più pesante le orecchie di Nerone, il quale, se era pronto a commettere crimini, non era abituato a sentirsi imputare i gesti compiuti” (Ann. XV 67); Aspro, invece, alla stessa domanda rispose con fermezza che era l’unico modo per fermare le infamie di cui si era macchiato Nerone.

 

Segue poi il racconto della tragica morte del poeta Lucano, il quale dopo aver ricevuto l’ordine di suicidarsi si mise a declamare versi del Bellum civile, il poema per cui si era attirato l’odio e l’invidia dell’imperatore.

 

Dopo una lunga lista di morti e di esecuzioni, la popolazione romana impaurita dalle nevrotiche persecuzioni del principe, arrivò al punto di adulare Nerone pur di non incorrere nell’accusa di tradimento e nella condanna a morte: “Piena intanto la città di funerali e il Campidoglio di vittime: chi aveva avuto ucciso il figlio o il fratello o un parente o un amico, eccolo rendere grazie agli dèi, ornare la casa di alloro, gettarsi alle ginocchia di Cesare e coprirgli la destra di baci” (Ann. XV 71).

 

Per ringraziare gli dèi di averlo messo al corrente in tempo per salvarsi dalla congiura, Nerone costruì un tempio in onore della dea Salute, proprio nel luogo in cui Scevino aveva preso il pugnale. L’imperatore consacrò quel pugnale e vi incise la scritta Iovi Vindici, a Giove Vindice.

 

Tre anni dopo, quando Gaio Giulio Vindice sollevò una rivolta in Gallia, quell’infausta consacrazione venne interpretata come “auspicio e presagio della futura vendetta”.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

A. Arici (a cura di), Annali – Tacito, Torino, 1983.

E. Ferrero (a cura di), Nerone Caio Tranquillo Svetonio, Publio Cornelio Tacito, Torino, 1976.

D. Gagliardi, Lucano poeta della libertà, Napoli, 1976.

G. Geraci e A. Marcone, Storia romana, Firenze, 2002.



 

 

 

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