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FILOSOFIA & RELIGIONE


N. 149 - Maggio 2020 (CLXXX)

LA SOFFERENZA DELL’INNOCENTE

MANZONI E CAMUS A CONFRONTO

di Raffaele Pisani

 

Del rapporto tra un Dio personale e la sofferenza dell’innocente hanno ampiamente trattato nel corso dei secoli teologi e filosofi. Può un Dio infinitamente buono e infinitamente potente permettere questo? Viene da pensare che almeno a uno dei due attributi manchi l’assolutezza.

 

Questo periodo di pandemia e di conseguente isolamento ci ha indotto a elaborare qualche considerazione su due episodi, narrati rispettivamente da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi e da Albert Camus ne La peste, due epoche e due visioni molto diverse dei rispettivi autori.

 

Il brano: La madre di Cecilia, che si trova nel XXXIV capitolo dei Promessi Sposi, descrive un’azione di tragica routine: la raccolta dei morti da parte dei monatti, ma in questo caso la situazione assume il carattere dell’evento. Così inizia: «Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunciava una giovinezza avanzata ma non trascorsa; e vi traspirava una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle e a un tempo maestosa che brilla nel sangue lombardo». Poco oltre continua: «Portava essa al collo una bambina si forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo e data per premio».

 

Già da questi pochi tratti possiamo vedere che l’umanità ha saputo conservarsi, la madre sa che moriranno ben presto anche le altre figlie e pure lei stessa; per questo stipula una sorta di accordo con il monatto che dovrà andarle a prelevare. In una Milano sconvolta dalla peste, ma anche abbruttita da una situazione che sfugge rischiando di mettere tutti in conflitto, cercando ognuno un proprio tornaconto, qui si entra in un’isola nella quale l’umanità resiste e pare anche acquisire consenso.

 

La provvidenza, che è l’anima di tutto il grande romanzo, in questo episodio non si coglie facilmente. Secondo il sentire popolare, processioni e celebrazioni porterebbero ristoro a una situazione così critica; abbiamo letto nel romanzo della posizione decisamente contraria del cardinale Federigo Borromeo. La provvidenza divina non interviene per risolvere i nostri problemi né i nostri stati patologici, se qualche volta questo avviene è una sorta di corollario per rendere più visibile l’evento.

 

Sembra indifferente di fronte a una città sconvolta dal flagello che semina morte. I segni provvidenziali sono poco evidenti e bisogna saperli leggere al di là della ragione e del sentimento comune. Ma l’atteggiamento della madre, che ha già preparato a festa la figlioletta appena morta e si dispone a vivere pregando con le altre le poche ore che le rimangono, già mostra che i suoi occhi e il suo cuore sono aperti al Dio Provvidente, è sicura che saprà accoglierle nell’eternità beata

 

Il secondo episodio è collocato a Orano sulla costa algerina negli anni Quaranta del Novecento, a quel tempo sotto il dominio francese; si narra il diffondersi di un morbo che poi risulterà essere peste. Si tratta di una peste metaforica, ma la descrizione di questa fenomenologia del contagio ha la sua verità profonda in una sorta di paradigma universale. Il narratore, che alla fine confesserà essere lo stesso protagonista: il dott. Rieux, sembra proprio coincidere con Camus, in questo stadio dello sviluppo del suo pensiero.

 

Intendiamo mettere a fuoco il momento culminante della tragedia: l’agonia e la morte del piccolo Philippe, figlio del giudice Othon. Gli era stato inoculato il siero che il dott. Castel stava sperimentando; date le condizioni disperate del piccolo paziente, si era deciso di intervenire con questo estremo tentativo. Il risultato fu un assurdo prolungamento delle sofferenze.

 

Il dottor Rieux, che nell’esercizio della sua professione di medico aveva visto morire molti uomini e anche parecchi bambini, di fronte a questa straziante agonia è preso da un moto di rivolta contro Dio e la creazione. «Questo almeno era innocente, lei lo sa bene», dice in tono violento, al gesuita padre Paneloux, che pochi mesi prima, all’inizio del contagio, aveva pronunciato un memorabile sermone sulla peste quale giusto castigo di Dio per le colpe degli uomini. Continua lo sfogo del dottor Rieux, che da poco ha visto morire il bambino: «No padre, io mi faccio un’altra idea dell’amore, e rifiuterò sino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati».

 

Il gesuita in seguito attenuerà la sua posizione alla vista di tante sofferenze apparentemente inutili. Certamente non potrà convincere il dottor Rieux l’affermazione che: «La sofferenza dei bambini era pane amaro, ma senza questo pane la nostra anima sarebbe perita di fame spirituale».

 

Rieux e Paneloux non avevano certamente idee di fondo comuni, ciò non impediva loro di stimarsi e di collaborare per alleviare le sofferenze dei malati; a Paneloux, che aveva detto: “Sì, sì, anche lei lavora alla salvezza dell’uomo», Rieux rispose: «La salvezza (salut) dell’uomo è un’espressione troppo grande per me. Io non vado così lontano: la sua salute (santé) m’interessa, prima di tutto la sua salute».

 

Il gesuita era formato anche su vari aspetti scientifici; nel suo operare, a giudizio di Rieux, era migliore di quanto dicesse di essere, si prodigò generosamente nell’assistenza dei malati, alla fine anche lui morirà di peste. Altri, che avevano idee diverse e contrapposte, attuarono le loro scelte, qualcuno cercò semplicemente di fuggire, ma i più scelsero coraggiosamente l’impegno disinteressato verso chi aveva bisogno.



 

 

 

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