N. 46 - Ottobre 2011
(LXXVII)
Le Confraternite abruzzesi del Sacro Monte dei Morti nel Seicento
aspetti definitori e storiografici
di Olga Di Loreto
Fornire una risposta assoluta all’interrogativo: "Cosa sono le Confraternite?" risulta, a tutt’oggi, impervio quand’anche anzidetta questione venga circoscritta in una determinata epoca, in una precipua area geografica, ad una specifica societas, ecc.
Partendo
dall’assunto,
ormai
pressoché
indiscusso,
che
getta
le
basi
della
storiografia
confraternale
italiana
nell’età
medievale,
è
doveroso
ricordare
quanto,
già
nel
1742,
lo
storico
modenese
Ludovico
Antonio
Muratori,
elevando
l’oggetto
della
confraternita
a
dignità
di
tema
storiografico,
dichiarò
nel
descrivere
la
diffusione
ubiqua
e
plurima
di
queste
associazioni
laicali/religiose,
ovvero
le
molteplici
problematiche
legate
allo
studio
delle
confraternite
stesse:
la
definizione
dell’oggetto,
la
terminologia,
le
fonti,
le
tipologie,
le
funzioni,
ecc.
Avanzando
una
definizione
ampia
di
confraternita
la
si
potrebbe
definire
come
un
gruppo
variamente
composto
da
laici
e
chierici,
da
uomini
e da
donne,
consociatosi
nei
centri
urbani
come
in
quelli
rurali,
per
scopi
di
edificazione
e
solidarietà
religiosa,
di
impegno
liturgico,
di
pratica
caritativa,
socio-assistenziale
e
pedagogica.
Il
loro
fine
è,
pertanto,
massimamente
inscrivibile
all’esercizio
di
opere
di
pietà
e di
carità
(soccorso,
elemosina,
beneficienza,
assistenza),
all’incremento
di
una
religione
popolare
come
pure
al
culto
dei
morti,
fino
alla
concessione
di
piccoli
prestiti-crediti.
Le
confraternite,
in
realtà,
rappresentano
un
fenomeno
molto
più
articolato
e
composito,
in
quanto
esse
rappresentano
uno
degli
strumenti
di
cui
la
Chiesa
si è
servita
soprattutto
dal
Concilio
di
Trento
(1545-1563)
in
poi.
Spesso
gli
storici
hanno
preferito
usare
delle
circonlocuzioni
atte
a
cogliere
l’essenza
di
tali
congregazioni
piuttosto
che
termini
puntuali.
Si
ricordano,
a
riguardo:
l’espressione
utilizzata,
nella
prima
metà
del
Novecento,
da
Gioacchino
Volpe
che,
collocando
le
confraternite
all’interno
del
vasto
ventaglio
di
movimenti
religiosi
medievali,
circoscrisse
le
stesse
in:
«Raggruppamenti
su
base
religiosa
o,
almeno,
religiosamente
motivati»,
come
pure
l’esplicazione
di
Edoardo
Grendi
che
le
inquadra
in «Fenomeni
associativi
e
religiosi»
o
l’asserzione
fornita
da
Gabriel
Le
Bras,
uno
dei
padri
della
sociologia
religiosa,
di «Famiglie
artificiali»,
tesa
a
sottolineare
l’inscindibilità
dei
due
aspetti
-
quello
collegato
alle
dinamiche
associative
laicali
e
quello
attinente
alla
sfera
della
religiosità
-
costitutivi
della
morfologia
confraternale
soprattutto
medievale.
Di
poi
agli
studi
di
G.
Le
Bras,
a
partire
dagli
anni
Sessanta
del
Novecento,
allorquando
si
definirono
i
criteri
ed i
metodi
della
sociologia
religiosa
retrospettiva
e si
irrobustì
l’approccio,
più
innovatore,
socio-antropologico,
le
confraternite
iniziarono
a
costituire
nell’ambito
della
storiografia
francese
un
perseverante
oggetto
di
studio;
ciò
anche
grazie
alle
ricerche
principiate
dallo
storico
Louis
Pérouas
nella
diocesi
della
Rochelle
tra
i
secc.
XVII
e
XVIII
e,
altresì,
agli
studî
di
Maurice
Agulhon
sulla
Provenza
durante
il
Settecento.
In
Italia,
l’inversione
di
tendenza
rispetto
ai
tradizionali
studi
muratoriani
–
incentrati
principalmente
sulla
storia
ecclesiastica
e su
erudite
ricerche
di
settore
inerenti
singole
confraternite
– è
solitamente
collocata
agli
inizi
degli
anni
1960
contestualmente
al
settimo
centenario
del
movimento
dei
disciplinati
ed
ai
dibattimenti
interni
del
concernente
Convegno
internazionale
di
studî.
Ivi
l’approccio
nei
confronti
della
tematica
si
presentava
rinnovato
soprattutto
grazie
ai
lavori
sul
movimento
dei
disciplinati
agli
inizi
dell’età
moderna
di
Giuseppe
Alberigo.
Di
qui
si
aprì
una
dinamica
stagione
storiografica
che
considerava
sì
la
natura
propriamente
religiosa
delle
confraternite
ma
in
relazione
al
tessuto
sociale
e
alle
relative
influenze,
specie
di
natura
politico-economica,
che
esso
vi
esercitava.
A
riguardo,
in
ambito
italiano,
ragguardevoli
risultano
gli
studi
dell’anzidetto
Edoardo
Grendi
mentre,
nell’ambito
della
scuola
storiografica
inglese,
a
partire
dagli
anni
’70
del
Novecento,
si
distinsero
i
lavori
-
ancor
più
decisamente
in
direzione
di
un’analisi
segnata
dai
metodi
e
dagli
interrogativi
della
social
history
-
di
Brian
Pullan
che,
studiando
le
criticità
durante
l’Ancien
Régime,
specie
quelle
legate
al
rapporto
povertà/educazione,
elaborò
una
corposa
opera
sulle
“Grandi
Scuole”
a
Venezia.
Tra
i
successivi
lavori,
che
si
mossero
in
affine
direzione,
vanno
ricordati
quelli
di
Richard
Trexler,
Ronald
Weissman
e
John
Henderson.
Questi
studiosi
andarono
finalmente
a
considerare
il
rapporto
tra
le
dinamiche
sociali
dell’associazionismo
ed
il
ruolo
svolto
dalla
pubblica
carità
in
relazione
agli
equilibri
politici
degli
Stati
italiani
specie
durante
il
tardo
Medioevo
e
l’inizio
dell’età
moderna.
Su
questa
traccia
segue
il
saggio
di
Chistopher
Black
incentrato
sullo
studio
del
mondo
confraternale
dell’Italia
centro-settentrionale,
soprattutto
durante
il
Cinquecento.
A
partire
dai
primi
anni
Novanta
tuttavia,
al
di
là
dell’originale
e
consistente
contributo
fornito
dalla
storiografia
in
lingua
inglese
sulle
confraternite
-
con
particolare
riferimento
a
quelle
sorte
durante
il
basso
Medioevo
e il
Rinascimento
–
l’interesse
di
tali
studiosi
ha
avuto
come
conseguenza
positiva
soprattutto
l’intensificarsi
della
collaborazione
tra
scuole
storiografiche
differenti,
superando
la
precedente
incomunicabilità
tra
ricercatori
di
lingua
inglese
ed
europei.
Passiamo
ora
a
considerare
un’altra
discussione
orbitante
intorno
al
mondo
confraternale,
ovvero
quella
relativa
gli
esordi
delle
stesse,
su
cui
si
sono
incentrati
diversi
dibattiti,
in
primis
quello
relativo
al
rapporto
tra
corporazioni
artigiane
e
confraternite
e,
in
secondo
luogo,
quello
che
vede
una
continuità
tra
associazionismo
antico
e
associazionismo
medievale
(scholae).
Secondo
Ernesto
Sestan,
medievalista
e
storico
dell’età
moderna,
nonostante
si
possano
ravvisare
tracce
di
sodalizi
confraternali
in
Francia
già
nel
sec.
VIII
-
dacché
legate
al
Concilio
indetto
nella
diocesi
di
Nantes
nell’
895
e,
altresì,
derivanti
dal
movimento
mistico
dei
flagellanti
e
degli
ordini
mendicanti
- la
loro
diffusione
è
databile
non
prima
dei
secc.
XII-XIII,
in
concomitanza
con
la
nascita
delle
Corporazioni
delle
Arti
e
dei
Mestieri,
di
cui
condividevano
anzitutto
lo
spirito
associativo.
Dette
corporazioni,
infatti,
svolgevano
diverse
funzioni
assistenziali
che
si
manifestavano
nel
soccorrere
gli
associati
versanti
in
momentanee
condizioni
di
difficoltà,
nel
sostenere
le
vedove
e
gli
orfani
di
associati
-
cui
era,
tra
l’altro,
garantita
la
necessaria
istruzione
al
fine
di
inserirli
nell’attività
professionale
non
appena
raggiunta
l’età
prescritta
-
nel
manifestare
pubblicamente
la
fede,
mediante
la
partecipazione
collettiva
a
ricorrenze
celebrate
da
tutta
la
comunità
cristiana
e a
quelle
particolari
di
ogni
Arte.
L’anzidetta
ipotesi,
però,
che
annette
l’esordio
delle
Confraternite
alla
nascita
delle
Corporazioni
delle
Arti
e
dei
Mestieri,
è
soggetta
a
molte
controversie:
parecchi,
infatti,
sono
coloro
che
vedono
elementi
di
continuità
con
altri
tipi
di
comunità
organizzate
quali,
ad
esempio,
gli
ospedali
medievali.
Quanto
alla
prima
questione,
il
rapporto
tra
confraternite
e
corporazioni
è un
tema
che,
seppur
spesso
sottolineato
nella
storiografia
italiana,
ha
prodotto
poche
puntualizzazioni
sui
nessi
creatisi
fra
le
associazioni
professionali
e di
devozione
nelle
fasi
del
loro
sviluppo.
La
questione
è
ancora
aperta
e si
può
riesaminare
partendo
dalla
terminologia
usata
dal
Concilio
di
Trento
che,
nella
XXII
Sessione,
tenutasi
nell’autunno
del
1562,
ribadì
per
i
Vescovi
l’antico
ius
visitanda
hospitalia,
estendendo
tale
diritto
dell’autorità
ordinaria
anche
ai
collegi,
alle
confraternite
laicali
e
alle
scholae.
Il
Concilio
ha
individuato
nel
vocabolo
latino
schola
un
termine
sufficientemente
ampio
e
indefinito
per
riunire
sotto
di
sé
numerose
forme
associative,
per
lo
meno
in
alcune
aree.
Detto
termine
in
età
romana
fu
utilizzato
per
indicare
l’edificio
in
cui
conveniunt
plurimi
eiusdem
negotii
causa,
cioè
luogo
di
riunione
di
individui
aventi
interessi
comuni,
per
passare
poi
a
significare
“luogo
di
riunione”.
Data
la
sua
eterogeneità
il
termine
si
adattava
molto
bene
a
fungere
da
equivalente
a
“corporazione”
e
“confraternita”,
perciò
ebbe
un
largo
uso
nel
settore
dell’associazionismo
devoto
e,
dal
sec.
XII,
anche
di
quello
artigianale.
La
tipologia
delle
scholae
nella
sua
varia
articolazione
è
senz’altro
esemplificativa
dei
rapporti
intercorrenti
tra
associazionismo
di
mestiere
e
confraternite.
Anche
tra
la
fine
dell’Ottocento
e
l’inizio
del
Novecento
alcuni
storici
hanno
avvalorato
l’ipotesi
terminologica
nel
rapporto
corporazioni/confraternite
e,
richiamando
l’importanza
del
fattore
religioso
nell’esperienza
corporativa
(ravvisabile
nell’esistenza
di
confraternite
che
perseguivano
scopi
professionali
e
nello
spirito
assistenziale
e
caritativo
presente
negli
statuti
di
molte
corporazioni
d’arte)
arrivarono
ad
enunciare
la
teoria
che
faceva
risalire
alle
confraternite
l’origine
delle
arti.
Alcuni
di
essi
usarono
il
termine
fraternitas
per
definire
la
forma
generale
che
assume
fin
dai
primi
tempi
cristiani
l’associazione
laica,
indipendentemente
dal
contenuto
e
dagli
scopi
concreti
delle
singole
associazioni.
Essa
poté
quindi
dar
luogo,
nel
tempo,
sia
a
tipi
associativi
in
cui
i
fini
economici,
dapprima
coperti
dall’aspetto
religioso,
finirono
per
rimanere
prevalenti
o
esclusivi,
sia
a
quelli
in
cui
rimasero
prioritari
gli
scopi
religiosi;
di
qui
la
differente
fioritura
di
corporazioni
da
un
lato
e di
confraternite
dall’altro
in
cui
le
prime
si
distaccarono
via
via
dalla
istituzione
ecclesiastica
e si
resero
autonome.
Altri
studiosi,
invece,
dissentono
dal
far
derivare
le
arti
medievali
dalle
confraternite
mantenendo
distinte
le
due
tematiche.
Il
problema
rimane,
quindi,
aperto
e
controverso.
Passando
a
trattare
la
seconda
supposizione,
ovvero
se
sussista
un
nesso
di
continuità
tra
confraternite
e
ospedali
medievali,
bisogna
subito
sottolineare
la
straordinaria
fioritura
di
istituzioni
ospedaliere
e
caritatevoli
che,
a
partire
dal
sec.
XII,
interessò
la
cristianità
medioevale.
Da
una
parte
l’aspirazione,
condivisa
da
tanti,
a
una
pratica
cristiana
più
rigorosa
e,
dall’altra,
la
consapevolezza
che
la
pietà
religiosa
dovesse
esprimersi
in
forme
concrete,
portarono
gli
uomini
a
individuare
nelle
confraternite
la
via
meglio
strutturata
e lo
strumento
più
consono
per
realizzarsi.
Al
crescente
bisogno
sociale
non
era
più
sufficiente
rispondere
solo
con
l’elemosina
bensì
con
forme
di
assistenza
organizzata;
nacquero,
così,
nell’Europa
medioevale,
nelle
città
ma
anche
nei
centri
minori
e
negli
snodi
delle
maggiori
vie
di
comunicazione,
gli
ospedali
per
malati
e
pellegrini
(caratterizzati
da
un
modello
organizzativo
basato
sul
volontarismo
e
sul
pan-assistenzialismo)
al
fine
di
offrire
caritatevole
ospitalità,
conforto,
solidarietà,
cura
delle
malattie
infettive
e
derivanti
dalla
povertà.
Dagli
ospedali,
infatti,
si
irradiava
una
solidarietà
esterna,
esplicata
nella
distribuzione
di
viveri
ed
elemosine,
nella
ricerca
dei
moribondi
e
dei
cosiddetti
“poveri
vergognosi”,
di
coloro
cioè
che
si
vergognavano
a
mostrare
la
loro
povertà.
Nel
Medioevo
il
termine
hospitale
era
inteso,
infatti,
come
esercizio
e
luogo
di
una
più
ampia
accoglienza,
con
finalità
anche
diverse
da
quelle
strettamente
sanitarie,
anzi
la
polifunzionalità
ne
fu
una
delle
principali
caratteristiche.
Intorno
alle
comunità
ospedaliere
si
sono
attuate
esperienze
molto
innovative
nel
contesto
di
una
più
larga
partecipazione
dei
laici
allo
status
di
religioso:
il
binomio
Laicus-religiosus
designava
bene
la
situazione
di
molti
conversi
ospedalieri.
Nella
seconda
metà
del
sec.
XII
si
era,
infatti,
allargato
il
concetto
di
“religioso”,
sino
allora
riservato
ai
membri
delle
comunità
monastiche
e
canonicali.
Il
papa
Alessandro
III
aveva
approvato
le
regole
di
comunità
ospedaliere
e
Innocenzo
III
aveva
poi
continuato
su
questa
linea.
Queste
figure
hanno
rappresentato
anche
un
elemento
di
continuità
fra
le
comunità
ospedaliere
e le
confraternite
laicali
del
tardo
Medioevo.
Detta
connotazione
iniziale
basata
sul
volontarismo
pan-assistenziale,
sull’ospitalità
e
conforto
spirituale
per
feriti
ed
ammalati
(ma,
come
anzidetto,
anche
per
vagabondi,
pellegrini,
orfani
e
vedove,
mendicanti
ed
indigenti)
virò,
più
tardi,
in
un
forte
tono
di
solidarietà
laica,
influenzato
dall’utopismo
sociale
ottocentesco.
Nemmeno
gli
studi
di
carattere
storico-giuridico
aiutano
a
fare
puntuale
chiarezza
su
questa
controversa
questione
terminologica:
pur
ammettendo,
in
generale,
il
principio
per
cui
le
scholae,
insieme
agli
ospedali
e
agli
enti
fabbriceriali,
rientrassero
fra
i
pia
loca,
essi
lasciavano
incerta
l’appartenenza
delle
confraternite
alla
sfera
ecclesiastica
o
civile
e
non
dava
altresì
certezze
circa
le
basi
su
cui
queste
poggiassero.
Il
diritto
canonico
a
lungo
non
contemplò
precise
istanze
in
materia:
solo
nel
1604,
il 7
dicembre,
con
la
bolla
sottoscritta
da
Clemente
VIII,
Quaecumque
a
Sede
Apostolica,
la
curia
romana
si
espresse
sul
modo
di
erigere
una
confraternita
e
sui
rapporti
di
questa
con
l’ordinario
diocesano.
Attraverso
la
bolla
Quaecumque
a
Sede
Apostolica,
oltre
a
stabilire
le
norme
per
l’erezione
delle
confraternite
al
fine
di
garantire
ordine
e
normalità
alla
multiforme
esuberanza
confraternale
attraverso
regole
comuni
e
vigilanza
ordinaria,
si
sottomisero,
altresì,
tutte
le
confraternite
alla
giurisdizione
dei
Vescovi
e si
prescrisse
ai
laici
di
limitare
la
propria
adesione
a un
solo
sodalizio.
Da
parte
loro
i
Vescovi
esercitarono
questa
autorità
sui
luoghi
pii
in
modo
molto
restrittivo;
le
confraternite
si
trovarono
così,
soprattutto
durante
l’età
moderna,
subordinate
alla
gerarchia
ecclesiastica,
perdendo
in
autonomia
economica
e
d’iniziativa.
Riassumendo,
si
può
affermare
che
l’origine
delle
confraternite
va
ricercata
in
un
complesso
di
fattori,
di
esperienze,
di
ogni
quadro
territoriale
tenendo
contemporaneamente
presente
l’evoluzione
generale
del
fenomeno
congiuntamente
alle
specificità
locali.
Chiudendo
questo
preambolo
circa
la
definizione
e
determinazione
delle
confraternite,
si
passa
ora
all’analisi
del
secondo
punto
caratterizzante
il
presente
contributo,
rappresentato
dalla
peculiarità
delle
Confraternite
abruzzesi
del
Monte
dei
Morti
durante
l’età
moderna,
con
particolare
riferimento
a
quelle
presenti
nell’Arcidiocesi
di
Chieti.
Questo
specifico
riferimento,
non
accidentale,
è
determinato
dalla
forte
paradigmaticità
che
le
confraternite
teatine
ebbero
sul
territorio
abruzzese,
embelmaticità
non
determinata
solo
dalla
loro
consistenza
numerica,
bensì
dall’influenza
che
le
stesse
ebbero
sull’andamento
sociale
ed
economico
dell’intera
regione.
È
doveroso
subito
premettere
che
uno
degli
scopi
principali
delle
confraternite
del
Monte
dei
Morti
consisteva
nell’assicurare
ai
propri
associati
il
servizio
funebre
e la
celebrazione
di
messe
di
suffragio;
esse
rispecchiavano,
perlopiù,
una
delle
finalità
principali
perseguite
da
qualsivoglia
confraternita
istituita
durante
la
metà
del
Seicento,
ovvero
assicurare
ai
confratelli
defunti
un’adeguata
sepoltura,
preghiere,
cerimonie
liturgiche,
ecc.
Anzidette
confraternite,
attingendo
da
una
cassa
comune,
finanziata
da
contributi
periodici
degli
iscritti,
avevano
il
compito
di
offrire
ai
confratelli
esequie
e
suffragi
in
proporzione
alla
quantità
di
denaro
versato.
Conseguentemente,
per
quanto
attiene
l’identità
dei
membri
di
dette
congreghe,
ovvero
la
loro
estrazione
sociale,
è
perspicuo
che
l’obbligo
di
un
contributo
mensile,
anche
se
non
oneroso,
escludesse
le
persone
più
indigenti
dal
novero
degli
affiliati
al
Monte
dei
Morti
pertanto,
per
deduzione,
devono
ritenersi
estromesse
le
classi
sociali
più
basse;
di
contro,
non
si
enfatizzerebbe
qualora
si
affermasse
che,
specie
il
Monte
dei
Morti
di
Chieti,
avesse
una
componente
sostanzialmente
nobiliare,
soprattutto
se
ci
si
allontana
dall’anno
di
fondazione
della
congrega.
L’impossessamento
del
pio
sodalizio
da
parte
della
nobiltà
teatina
è
abbondantemente
documentato,
in
particolare
durante
il
Settecento
(si
veda,
a
riguardo,
il
Regio
Assenzio
1776)
dove
gli
aristocratici,
oltre
a
detenere
il
diritto
assoluto
di
voto
nell’elezione
dei
governatori,
ne
ricoprono,
spesse
volte,
anche
la
carica.
Non
è
immaginabile,
invece,
un
fenomeno
simile
per
le
altre
confraternite,
quelle
che
oltre
ad
avere
finalità
diverse
dal
Monte
dei
Morti
sorgevano
in
località
piccole
e
rurali,
nelle
quali
consentire
un
accesso
preclusivo,
riservato
alla
sola
nobiltà,
avrebbe
significato
ridurre
gli
iscritti
a
pochissime
famiglie.
Le
fonti
reperite
circa
le
Confraternite
del
Monte
dei
Morti
nell’Arcidiocesi
di
Chieti,
attestano
la
fondazione
di
29
confraternite
costituite
in
prevalenza
durante
la
seconda
metà
del
Seicento,
esattamente
dal
1648
al
1698,
con
un’unica
singolarità
rappresentata
dalla
congrega
di
Miglianico:
alcune
fonti
attestano
la
di
essa
fondazione
nel
1736
ma,
in
realtà,
si
tratta
di
un
caso
di
ri-fondazione.
In
breve,
si
può
affermare
che
le
confraternite
fiorirono
e si
svilupparono
nell’Arcidiocesi
teatina
durante
la
seconda
metà
del
secolo
XVII,
periodo
che
coincide,
in
larga
misura,
con
il
governo
episcopale
di
Nicolò
Radulovich
che
resse
tale
Arcidiocesi
dal
1659
al
1702.
Soffermarci
brevemente
sull’operato
di
Nicolò
Radulovich.
Le
fonti
più
autorevoli
per
ricostruire
il
suo
governo
pastorale
sono
le
undici
Visite
et
relationes
ad
limina
(cioè
le
relazioni
sullo
stato
delle
diocesi
che
tutti
i
Vescovi,
ad
intervalli
di
tempo
prestabiliti,
dovevano
mandare
in
Vaticano
per
il
controllo
pontificio)
che
egli
inviò
alla
S.
Congregazione
del
Concilio
dove
vengono
esposti,
seppur
sinteticamente,
i
problemi
dell’arcidiocesi;
ivi,
però,
si
sottace
circa
le
confraternite
del
Monte
dei
Morti
nei
cui
riguardi,
si
ipotizza,
il
Radulovich
non
avesse
un
atteggiamento
tanto
favorevole
bensì
di
sola
ammissione.
L’atteggiamento
non
proprio
favorevole
del
Radulovich
nei
riguardi
delle
confraternite
e
del
loro
operato
non
deve
apparire
inconsueto
o
atipico;
numerosi
sono,
infatti,
i
decreti
vescovili
sulla
vita
delle
confraternite
nel
Mezzogiorno,
durante
i
secc.
XVII-XIX,
che
tendevano
a
porre
un
argine
alla
vita
“rilassata”
delle
stesse,
ovvero
che
richiamavano
ad
una
maggiore
vitalità
spirituale
e
pietà
cristologica,
nonché
un
monito
verso
quelle
forme
di
“gestione”
del
sacro
marginali,
oscure
e
sospette
rispetto
ai
culti
ufficiali;
qui
è
evidente
il
riferimento
alle
possibili
influenze
del
mondo
della
magia,
della
stregoneria
e
dello
scongiuro
-
frequenti
nell’ambiente
della
cristianità
nel
Mezzogiorno
-
nelle
pratiche
delle
congreghe.
In
realtà,
molti
sostengono
che
anzidetti
atti
episcopali
sulla
vita
delle
confraternite,
venivano
emanati
per
condannare
abusi
o
deviazioni
dottrinali
e
per
riaffermare
e
tutelare
i
rapporti
di
sudditanza
con
la
gerarchia
e,
raramente,
per
un’azione
di
coordinamento
con
programmi
pastorali.
La
promulgazione
di
questi
provvedimenti
episcopali
può
essere
altresì
giustificata
dalla
diffusa
tendenza,
soprattutto
nel
Mezzogiorno,
da
parte
di
notabili
(tendenza
rafforzatasi
in
età
contemporanea
nel
periodo
post-unitario)
ad
appropriarsi
delle
confraternite
per
trarne
prestigio
e
benefici,
per
strumentalizzare
le
donazioni
per
finalità
egemoniche,
ecc.,
tant’è
che
la
consistenza
economica
di
queste
congregazioni,
infatti,
non
passò
inosservata
a
tali
“personalità”
per
trarne
dei
profitti.
Chiudendo
la
suddetta
parentetica
sul
governo
episcopale
di
N.
Radulovich
e
tornando
alla
istituzione
delle
confraternite
teatine
intitolate
al
Sacro
Monte
dei
Morti,
si
può
asserire
che
la
prima
Confraternita
venne
istituzionalmente
fondata
a
Chieti
nel
1648
e
l’ultima
nel
borgo
di
Salle
nel
1698.
In
merito
alla
istituzione
della
prima
Confraternita
del
Monte
dei
Morti
nell’arcidiocesi
di
Chieti
è
doveroso
ricordare
che,
secondo
una
lunga
tradizione
storiografica,
la
fondazione
di
anzidetta
confraternita
è
datata
1603,
in
anticipo
di
45
anni
rispetto
alla
data
ritenuta
ufficiale,
ovvero
il
1648.
Questa
divergenza
cronologica
ha
prodotto
un’autentica
querelle
tra
gli
studiosi
autoctoni
di
cui
si
segnalano
-
partendo
dai
più
“anziani”
- le
voci
più
significative:
G.
Ravizza,
L.
Vicoli,
G.
Nicolino,
G.
F.
De
Tiberiis,
A.
Tanturri.
Per
quanto
attiene
al
meccanismo
di
funzionamento
regolante
un
Monte
dei
Morti
nell’Arcidiocesi
teatina,
esso
può
essere
così
sintetizzato:
ogni
iscritto
doveva
corrispondere
una
volta
al
mese
un
importo,
proporzionalmente
alle
proprie
possibilità
economiche:
2,5
grana,
5
grana,
1
carlino.
In
caso
di
morte
di
un
confratello,
pertanto,
il
Monte
dei
Morti
era
obbligato
a
far
celebrare
un
numero
di
messe
proporzionale
all’entità
del
contributo.
Nelle
“Istruttioni
delli
obblighi
de’fratelli
e
sorelle
della
Compagnia
del
Monte
dei
Morti,
eretto
nella
chiesa
metropolitana
di
Chieti
nella
cappella
di
S.
Giustino
li 2
novembre
MDCXLVIII”
si
stabiliva
che:
per
coloro
che
avessero
pagato
2,5
grana
andavano
celebrate
25
messe;
per
coloro
che
avessero
pagato
5
grana
andavano
celebrate
50
messe;
per
coloro
che
avessero
pagato
1
carlino
spettavano
100
messe.
L’integrità
patrimoniale
del
sodalizio
era
tutelato
da
un
insieme
di
clausole,
riportate
nello
statuto,
ad
esempio:
se
per
tre
volte
consecutive
non
si
saldava
la
quota
associativa
si
veniva
espulsi;
gli
ultrasessantenni
dovevano
pagare
il
doppio
della
tariffa
stabilita;
gli
infermi
e i
malridotti
in
salute
erano
estromessi
dall’iscrizione,
ecc.
Precise
norme
regolavano,
inoltre,
le
scritture
contabili:
oltre
al
libro
di
introito
ed
esito
vi
era
anche
il
libro
maestro
dove
venivano
registrati
tutti
i
beni
mobili
ed
immobili
di
proprietà
del
Monte.
Gli
amministratori,
al
termine
del
loro
mandato,
dovevano
presentare
all’Arcivescovo,
i
risultati
della
loro
gestione;
si
ricorda
che
il
controllo
da
parte
del
prelato
era
molto
puntuale
e
tutt’altro
che
formale.
Parliamo,
ora,
degli
obblighi
dei
confratelli
associati
ad
un
qualsivoglia
Monte
dei
Morti
abruzzese.
Primariamente
vi
era
la
recitazione
delle
preghiere
che
venivano
declamate,
durante
le
riunioni
mensili,
per
l’ufficio
dei
morti
e le
anime
del
Purgatorio
(coloro
che,
per
vari
motivi,
erano
impossibilitati
a
partecipare
alla
recitazione
comune
delle
preghiere
dovevano
farlo
da
casa).
I
confratelli
dovevano,
altresì,
visitare
gli
infermi,
partecipare
alle
questue
del
grano,
olio,
vino
ed
altri
prodotti,
rappacificare
i
confratelli
divisi
da
rancori
e
inimicizie.
L’obbligo
imprescindibile
e
sistematico
per
i
confratelli,
però,
era
quello
di
partecipare
alle
esequie
dei
confratelli
defunti
e ad
offrire
a
questi
ultimi
un
vero
e
proprio
servizio
funebre,
portando
la
bara,
spesso
coperta
da
un
panno
nero
ed
accompagnata,
in
corteo,
dagli
stessi
confratelli
indossanti
una
divisa,
con
torce
accese.
Circa
le
divise,
le
fonti
ci
consentono
di
osservare
una
certa
loro
uniformità:
sacchi
o
camiciotti,
corredati
da
cappuccio,
generalmente
di
colore
bianco
o
nero,
colori
associati
prevalentemente
al
lutto.
L’inumazione
dei
morti
e
l’incarico
di
portare
la
bara
non
rappresentava
una
prerogativa
esclusivamente
maschile,
ma
un
compito
svolto
anche
dalle
donne,
le
donne
necrofore,
che
“portano
via”
i
morti.
Detta
peculiarità
non
è
sottostimabile
considerato
il
ruolo
pressoché
subalterno
e di
scarso
apprezzamento
delle
donne
nella
vita
di
detti
sodalizi,
almeno
fino
all’epoca
tardo
medievale,
quando
la
loro
ammissione
era
essenzialmente
determinata
dal
decremento
del
numero
degli
associati
uomini
e,
quindi,
dal
desiderio
di
rivitalizzare
(sia
numericamente
sia
finanziariamente)
un’istituzione
in
declino,
il
cui
coinvolgimento
era
in
relazione
agli
spazi
lasciati
loro
dagli
uomini,
sempre
escluse
da
cariche
direttive
e da
momenti
decisionali,
con
obblighi
associativi
limitati
ad
un’attività
puramente
devozionale.
Solo
nel
Quattrocento
si
assiste
ad
un
più
ampio
coinvolgimento
delle
donne
nella
vita
confraternale,
sia
con
la
partecipazione
alle
processioni
nelle
vie
cittadine
e
alle
feste
per
i
santi
patroni
(attività
devozionali
rivolte
all’esterno),
sia
con
attività
caritative
verso
i
poveri,
malati,
moribondi:
una
carità
“attiva”
delle
donne
la
cui
attività
devozionale
consisteva,
solitamente,
nella
preghiera
personale
giornaliera,
nella
più
accentuata
frequenza
ai
sacramenti
della
confessione
e
della
comunione,
nell’assistere
alle
messe
e
alle
cerimonie
liturgiche
stabilite
dal
sodalizio,
e
soprattutto
ai
funerali
e
anniversari
dei
fratres
et
sorores
che
–
insieme
all’assistenza
dei
fratelli
ammalati
– è
uno
degli
aspetti
che
maggiormente
caratterizzano
la
solidarietà
confraternale
in
tutto
l’arco
delle
sue
manifestazioni.
L’attività
delle
consorelle
all’interno
del
Monte
dei
Morti,
consisteva
nella
assistenza
a
domicilio,
come
pure
negli
ospedali,
dei
soci
ammalati,
specie
delle
consorelle
e
nei
confronti
dei
più
indigenti
-
che
venivano
provvisti
di
medicine,
cibo,
biancheria
-
nella
cura
del
loro
funerale
e
delle
messe
in
loro
memoria,
compiti
per
i
quali
le
donne
dovevano
garantire
la
loro
piena
disponibilità
di
tempo.
Per
quanto
riguarda
l’assistenza
presso
le
strutture
assistenziali
è
proprio
qui
che
le
donne,
fin
dal
sec.
XV,
poterono
esercitare
autentiche
forme
di
carità
“attiva”
assumendo
l’incarico
di
hospitaliere
nei
nosocomi/ospizi
(non
solo
confraternali)
e
ricoprendo
anche
incarichi
direttivi
(un
es.
può
essere
il
sodalizio
di
Santa
Maria
dell’Anima
dei
Tedeschi
a
Roma,
dove,
già
nel
Quattrocento,
si
susseguono
diverse
donne
come
“madri”
alla
guida
dei
due
ospizi
cittadini,
di
cui
uno
esclusivamente
riservato
all’utenza
femminile).
Costantemente
ribaditi
tra
gli
obblighi
confratrenali
erano,
altresì,
la
cura
del
corpo
delle
socie
defunte
e la
presenza
alle
loro
esequie
e
agli
anniversari,
attività
in
perfetta
sintonia
con
il
comune
sentire
del
tempo
in
cui
il
pensiero
della
morte
rappresenta
sempre
più
il
centro
focale
della
religiosità.
I
membri
delle
confraternite
cercavano,
così,
di
aiutarsi
non
solo
durante
la
vita,
con
l’assistenza
reciproca
nella
malattia
o
nel
bisogno
e
nella
vecchiaia,
ma
soprattutto
al
momento
della
morte
e
dopo
la
morte.
Questa
solidarietà
si
faceva
più
sollecita
in
momenti
cruciali
come
le
grandi
epidemie,
quando
erano
maggiormente
frequenti
i
casi
di
abbandono
degli
infermi
da
parte
dei
parenti
o di
isolamento
per
la
morte
di
tutti
i
congiunti.
Proprio
alla
epidemia
di
peste
del
1656
è,
infatti,
attribuibile
il
frenetico
originarsi
delle
confraternite
abruzzesi
del
Monte
dei
Morti,
originatesi
per
la
medesima
causa
anche
in
tutto
il
Mezzogiorno
durante
la
seconda
metà
del
Seicento.
I
rimedi
inadeguati
che
la
scienza
medica
suggeriva
e la
superficialità
ed
inefficacia
delle
misure
profilattiche,
spesso
poco
scientifiche,
rituali,
folkloristici
e
pervasi
di
demoiatrica,
inducevano
gli
uomini
di
quell’epoca
ad
affidarsi
alla
misericordia
divina,
alla
devozione
verso
alcuni
santi
taumaturghi
(tra
cui
San
Rocco,
San
Sebastiano
e
l’Immacolata
Concezione)
e
all’affiliazione
ad
un
Monte
dei
Morti.
La
succitata
demoiatrica
simboleggia
quel
singolare
connubio
di
medicina,
magia
e
religiosità
popolare
che
Adalberto
Pazzini
definisce
“medicina
eroica”,
nel
senso
che
in
essa
il
soprannaturale
e le
leggi
naturali
si
connettono.
Componenti
fondamentali
della
demoiatrica
eroica
abruzzese
sono
la
medicina
popolare
(che
non
fa
dipendere
le
malattie
da
deperimento
dell’organismo
o
dall’effetto
di
germi
patogeni
ma
da
motivazioni
magiche,
che
sfuggono
alla
comune
percezione
sensoriale)
e la
religiosità
popolare
(particolare
forma
di
cattolicesimo,
tipica
dell’Italia
centro-meridionale,
che
si
contraddistingue
per
gli
accentuati
caratteri
di
esteriorità,
paganesimo
e
magia.
Il
sincretismo
magico-cattolico,
caratterizzante
anzidetta
religiosità,
è
documentato
nelle
historiolae
cristianizzate,
cioè
dalle
formule
di
scongiuro
che
hanno
come
protagonisti
personaggi
e
vicende
della
tradizione
cattolica
nonché
il
culto
per
i
santi
taumaturgici.
Si
sottolinea
che
fino
a
tutto
l’Ottocento
l’Abruzzo
viveva
una
realtà
di
grave
arretratezza
economico-sociale
caratterizzata
da
desolanti
condizioni
abitative,
igienico-sanitarie,
miseria
e
sottoalimentazione,
analfabetismo
ed
ignoranza,
cosicché
i
ceti
popolari
ricorrevano
al
sacro
e al
magico
- in
quanto
l’unica
dimensione
possibile
di
sopravvivenza
-
facendo
sì
che
ciarlatani,
guaritori,
concia-ossa,
empirici,
fattucchiere
e
mammane
rappresentassero
la
terapeutica
popolare
a
danno
della
medicina
ufficiale,
unica
scienza
in
grado
di
guarire,
e
del
medico
l’esclusivo
depositario
di
questa
capacità.
Contro
questa
“mala
genìa
di
parassiti”
si
ricorda
quanto
affermato
dal
dr.
Carlo
Ferranti,
nel
1899,
in
cui
sostenne
che
se
l’Ordine
dei
Medici
della
provincia
di
Chieti
fosse
riuscito
a
far
sparire
tale
“mala
genìa”,
avrebbe
assai
bene
meritato
tutti
gli
onori
della
Società.
Una
seconda
spiegazione
circa
l’abbondante
fioritura
delle
confraternite
del
Monte
dei
Morti
durante
la
metà
del
Seicento,
più
concettuale
e
meno
fattuale,
è
attribuibile
al
mito,
particolarmente
vivo
in
area
abruzzese,
del
ritorno
dei
morti
nel
mondo
dei
vivi.
Tutto
ciò
era
in
netto
contrasto
con
la
dottrina
della
Chiesa
che,
pur
non
negando
un
rapporto
con
il
mondo
dei
morti,
vuole
che
esso
sia
circoscritto
ai
suffragi
e
alle
preghiere
in
genere.
Alla
luce
di
questi
elementi
si
può
pensare
che
il
Monte
dei
Morti
– in
Abruzzo
in
generale
e
nell’Arcidiocesi
di
Chieti
in
particolare
-
sia
servito
alla
Chiesa
postridentina
per
diffondere
sì
la
propria
concezione
sull’Aldilà,
normalizzante
il
culto
dei
morti,
ma,
al
contempo,
per
esercitare
indirettamente
la
sua
influenza
nel
governo
e
amministrazione
della
regione.
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Busta
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Fascicolo
7559,
Registrum
Diversorum
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ACAC,
Busta
415,
Fascicolo
7558,
Registrum
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1655-1667,
c.
223
r.
ACAC,
Busta
415,
Fascicolo
7558,
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Diversorum
1655-1667,
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ACAC,
Busta
415,
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ACAC,
Busta
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Busta
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Fascicolo
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ACAC,
Busta
416,
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