[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

171 / MARZO 2022 (CCII)


attualità

Il conflitto in Ucraina

L’Europa riscopre la guerra

di Gian Marco Boellisi

 

La notte del 24 febbraio 2022 ha avuto inizio una tragedia che l’intero mondo aveva auspicato non accadesse mai. Dopo mesi, anzi anni, di tensioni crescenti, parole ignorate e minacce neanche troppo velate, le truppe della Federazione Russa hanno invaso il territorio dell’Ucraina, avviando così quella che il presidente Putin ha definito un’“Operazione militare speciale”. Per quanto vi fossero sempre state possibilità per cui le tensioni tra Ucraina e Russia sfociassero in un conflitto aperto, nessun analista politico ha mai considerato un tale evento tra le opzioni più probabili.

 

E invece la guerra è scoppiata, con tutta la sua violenza e crudeltà come sempre accade da quando l’essere umano cammina su questa Terra. Lasciando da parte in questa trattazione le considerazioni prettamente militari, è interessante analizzare le motivazioni per le quali si è arrivati al conflitto e soprattutto capire quali possono esserne le implicazioni future dal punto di vista politico, sia per l’Europa che per il mondo intero.

 

Quella scoppiata tra Ucraina e Russia altro non è che una guerra fratricida nel senso letterale del termine. Solo 30 anni fa nessuno avrebbe mai potuto pensare possibile un conflitto tra due popoli la cui storia, la cui cultura e le cui tradizioni sono tanto intrecciate e similari. Basti pensare che le origini dello stato russo ebbero inizio proprio nel regno dei Rus’ tra le città di Novgorod e Kiev. Innumerevoli famiglie russe al giorno d’oggi hanno parenti in Ucraina, e viceversa, motivo per il quale questo conflitto risulta avere ancora meno senso agli occhi di chi lo sta combattendo in prima persona.

 

Le motivazioni che hanno scatenato la guerra sono di varia natura, con responsabilità a vario grado da parte di entrambi gli schieramenti e che vedono le proprie radici negli anni e nei decenni passati. Tra le ragioni principali tuttavia si può sicuramente considerare il senso di accerchiamento avvertito dalla Federazione Russa negli anni a seguito della politica di espansione della N.A.T.O. in Europa verso Est. La storia di questa espansione è colma di luci e ombre, le quali tuttavia è importante rievocare per comprendere maggiormente a cosa si sta assistendo in queste settimane.

 

Il tutto risale agli ultimi anni della Guerra Fredda, tra il 1989 e il 1991, quando la caduta dell’Unione Sovietica era ormai imminente. Qui il blocco occidentale, ovvero gli Stati Uniti e la N.A.T.O., spinsero fortemente affinchè avvenisse una riunificazione pacifica della Germania con anche una caduta dei regimi comunisti dell’Est Europa, a seguito delle proteste di piazza che in quel periodo erano diventate ormai inarrestabili.

 

Probabilmente intuendo che non vi fossero molte altre strade da percorre, l’allora Segretario del Partito Comunista Sovietico Gorbačëv decise di fare un accordo non scritto con le proprie controparti statunitensi: la liberazione di Berlino e il ritiro delle truppe russe dai paesi dell’ormai deceduto Patto di Varsavia in cambio del non allargamento della N.A.T.O. negli anni a venire. Questo tuttavia non fu un accordo scritto, ma solo un “Gentlemen’s Agreement” tra superpotenze. E tale rimase.

Infatti negli anni ’90, quando il passaggio da Unione Sovietica a Federazione Russa rese estramemente debole e vulnerabile Mosca sullo scenario internazionale e gli Stati Uniti e la N.A.T.O. lavorarono sommessamente per ampliare l’Alleanza Atlantica verso l’Europa Orientale.

 

Se infatti il Patto di Varsavia, ovvero l’alleanza militare difensiva con a capo l’Unione Sovietica, si era sciolta con la caduta del regime comunista di Mosca, altrettanto non era accaduto con la sua controparte statunitense (questione questa che ancora oggi anima importanti dibattiti intorno all’utilità o alla ragion di esistere di un simile strumento militare al giorno d’oggi).

 

Al contrario, l’Alleanza Atlantica inglobò via via sempre un numero maggiore di nazioni, accerchiando de facto Mosca negli anni e alimentando quel senso di minaccia costante che i russi non hanno mai negato di provare. L’allargamento fu nella sostanza molto serrato, inglobando senza alcuna misura un gran numero di paesi nell’Europa Orientale: Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria nel 1999, Bulgaria, Lettonia, Estonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia nel 2004, Albania e Croazia nel 2009, Montenegro nel 2017, Macedonia del Nord nel 2020.

 

Nonostante gli accordi presi da Gorbačëv siano stati più volte tirati in causa da parte del governo russo in protesta ai vari allargamenti N.A.T.O., essi sono sempre stati categoricamente smentiti dalle varie amministrazioni succcedutesi a Washington.

 

In occasione del conflitto ucraino il quotidiano tedesco Der Spiegel ha pubblicato un documento quanto meno imbarazzante per le cancellerie occidentali. Si tratterebbe di un verbale ritrovato nei British National Archives riguardante una riunione avvenuta a Bonn nel marzo 1991 dei Direttori politici dei ministeri degli Esteri di Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania e Francia. Di fronte alla richiesta di alcuni paesi aderenti all’ex blocco sovietico di entrare a far parte della N.A.T.O., l’interezza dei partecipanti fu d’accordo nel ritenere una simile richiesta assolutamente “inaccettabile”. Questo a testimonianza del fatto che all’epoca si riteneva un simile allargamento un’opzione ancora troppo pericolosa e troppo provocatoria nei confronti della Russia. Evidentemente con il passare degli anni e alla luce della presidenza Él’cin i paesi del blocco atlantico cambiarono idea e procedettero verso un’altra direzione.

 

Ritornando ai giorni nostri, l’invasione russa dell’Ucraina è stato un evento estremo e non in linea con l’agire strategico usato solitamente dal presidente Putin. Questi infatti ha costruito in venti anni di dominio assoluto sul proprio paese una nuova dimensione della politica estera russa, incentrata sull’esclusiva difesa dei propri interessi nazionali e sulla formazione di un blocco politico-economico “alternativo” rispetto agli standard occidentali.

 

Gli interventi esteri nel corso degli anni non sono mancati, dalla Georgia alla Siria fino ai vari interventi per procura in Africa, ma quello in Ucraina è sicuramente il più grande azzardo giocato dal presidente. Per quanto dall’agire di Putin emerge quanto meno una non accettazione del crollo dell’URSS e di tutto ciò che ne è conseguito dagli anni ‘90 in poi a livello internazionale, questa azione non risulta essere in linea con un fare politico orientato verso la ricerca della convivenza, per quanto non serena, con i propri vicini e i propri partner. Ed è proprio a causa di questa decisione scellerata che alla fine potrebbe essere la Russia a rimetterci più di quanto potrebbe mai guadagnare da una eventuale (ad oggi remota) vittoria.

 

I segnali premonitori di una tale catastrofe non sono di certo mancati. Si può ritornare indietro fino al 2008, quanto la N.A.T.O. stava per inglobare la Georgia all’interno dei propri membri. Questo ovviamente avrebbe intaccato la zona di influenza russa nel Caucaso, causando ulteriore instabilità in una già agitata regione (Armenia e Azerbaigian di recente memoria). Anche in questo caso si ebbe un conflitto, molto più breve, ma altrettanto distruttivo. Il risultato fu la distruzione della Georgia, la tragedia di un intero popolo e la comprensione da parte della N.A.T.O. che quella partita era stata persa. Evidentemente però nei corridoi dell’Alleanza Atlantica l’avvicinarsi ai confini russi è risultato essere uno tra gli obiettivi principali, tanto che la cosa ritornò in auge all’indomani della rivoluzione colorata del 2014 in Ucraina, anno in cui l’attuale crisi ha avuto inizio e dove sono nati i semi del conflitto odierno.

 

Per quanto la guerra e la decisione di invadere uno stato sovrano siano interamente da imputare alla Federazione Russa, le responsabilità dell’aumento esponenziale delle tensioni non è sicuramente colpa unica del Cremlino. In tutto questo tempo infatti l’Europa e gli Stati Uniti sono stati volontariamente sordi ai numerosi appelli da parte della Russia in merito alle garanzie della propria sicurezza, paventando la propria invincibilità e cullandosi di essere i vincitori della Guerra Fredda e quindi i detentori delle chiavi dell’odierno sistema internazionale all’indomani del 1991.

 

È stato proprio questo atteggiamento totalmente inopportuno verso una realtà così complessa come la Russia che ha portato Mosca tra le braccia di Pechino. Ed è proprio qui che il fallimento dell’Occidente è stato doppio, poiché ha portato un paese potenzialmente alleato, o quanto meno neutrale nel sistema post 1991 (la Russia), ad allearsi con un paese con il quale non ha mai avuto grandi rapporti di amicizia, ma di cui anzi storicamente è sempre stata una rivale (la Cina). La creazione dell’asse Mosca-Pechino è quindi imputabile meramente alla cecità di prospettive politiche ed economiche di un Occidente che si è pasciuto della propria presunta potenza troppo a lungo. Niente di più, niente di meno.

 

Andando più a fondo, un aspetto di non secondaria importanza nell’analisi del conflitto è costituito dalla direzione che lo stato ucraino dovrà decidere di intraprendere alla fine delle ostilità. Sebbene negli anni dopo la caduta dell’Unione Sovietica Kiev è rientrata per la stragrande maggioranza del tempo nella sfera di influenza russa, all’indomani della rivoluzione del 2014 si è avuto nel paese un cambiamento repentino di direzione.

 

Una polemica che si sente spesso in queste settimane riguarda proprio il diritto di autodeterminazione dei popoli, in virtù del quale si dovrebbe permettere all’Ucraina di guardare liberamente o a Occidente o a Oriente per quanto riguarda il suo futuro. Per quanto queste siano considerazioni sacrosante, vi è un ulteriore elemento da tenere in considerazione. Infatti come è naturale che ogni popolo decida la visione che esso ha di se stesso e di ciò che vuole diventare, è altrettanto naturale nel corso della storia dell’umanità che si vengano a creare della zone di influenza, o anche zone cuscinetto, che facciano da ponte tra alcuni stati e altre regioni. E questo discorso riguarda proprio l’Ucraina, la quale, trovandosi a ridosso del confine russo, costituiva fino a pochi anni fa quella zona di influenza e/o zona cuscinetto che serviva a Mosca per non essere potenzialmente accerchiata dai propri competitor.

 

La sola idea di far entrare Kiev nella N.A.T.O. è ugualmente destabilizzante ed estremamente azzardata al pari della decisione di Chruščëv nel 1962 di piazzare i missili a Cuba, proprio di fronte alla porta di casa degli Stati Uniti. Solo che, mentre all’epoca questa decisione fu vista più che giustamente dalla comunità internazionale come un atto fortemente improntato alla violenza, al giorno d’oggi far entrare in un’alleanza prettamente militare uno stato confinante con la Russia è stato fatto percepire dai mass media di tutto il mondo come normale, come libera espressione della volontà del popolo ucraino. Errori gravissimi entrambi, ma comunicati in maniera diametralmente opposta.

 

L’accelerazione delle tensioni tra Ucraina e Russia probabilmente è avvenuta anche a causa dei recenti “successi” all’interno dello spazio ex-sovietico ottenuti dal Cremlino negli ultimi anni. Non è mai stato un segreto infatti che le varie amministrazioni Putin volessero ricostruire un blocco unito con paesi aderenti gran parte degli ex-membri dell’U.R.S.S. Economicamente parlando è stata creata l’Unione Economica Eurasiatica, la quale tuttavia è risultata titubante rispetto agli obiettivi inizialmente prefissati. Dal punto di vista politico invece si parla di tutt’altra storia.

 

Il Cremlino è riuscito infatti a mantenere al potere l’alleato Lukashenko, che nonostante le proteste degli ultimi anni, ha avuto successo nel pacificare/controllare la regione del Caucaso dopo il conflitto tra Armenia e Azerbaigian e infine è riuscito a mettere a tacere le proteste in Kazakistan a seguito del tentativo di rovesciamento di governo avvenuto nel gennaio 2022. Tutto questo ovviamente non è passato inosservato alle controparti atlantiche, le quali hanno voluto probabilmente spingere verso una celere adesione alla N.A.T.O. dell’Ucraina per cercare di erodere alla Russia quella zona di influenza che aveva costruito negli anni successivi alla caduta del blocco sovietico. Questa ovviamente può essere considerata una delle tante concause, anche se sicuramente questa sequenza di eventi ha avuto un ruolo importante nello scatenare il recente conflitto.

 

Per quanto agli occhi di molti le azioni militari russe possano sembrare coerenti con la loro più recente politica estera, specialmente relativamente a interventi militari recenti diretti (Siria) e indiretti (Africa Sub-Sahariana), l’invasione dell’Ucraina costituisce un fortissimo punto di rottura con le politiche di Mosca. Analizzando il 20ennio nel quale Putin è stato presidente, si possono individuare svariati momenti in cui viene ripetuto lo stesso schema, ovvero interventi mirati ed estremamente precisi che puntano ad accrescere localmente l’influenza della Federazione Russa nelle sue immediate vicinanze e non solo.

 

Sebbene questi interventi siano stati per la maggior parte delle volte al di fuori del diritto internazionale, essi comunque sono stati in qualche maniera lasciati passare della comunità internazionale, la quale non è mai stata in grado di assumere una posizione decisa e soprattutto unita in merito. Un esempio può essere il riconoscimento dell’indipendenza dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud nel 2008 nel contesto del conflitto in Georgia, oppure l’annessione della Crimea nel 2014, fatta per preservare le proprie basi navali nel porto di Sebastopoli, oppure di più recente memoria il riconoscimento dell’indipendenza delle Repubbliche Autonome di Donetsk e Luhansk.

 

In ognuno di questi esempi Mosca non è stata mai completamente dalla parte della ragione, tuttavia aveva a suo favore delle “ragioni” per le quali si sentiva in diritto di agire e in molti casi la mancanza di reazioni a livello internazionale ha anche avvallato questo tipo di politiche. Per quanto anche nel caso ucraino vi si possano individuare essere alcune di queste “ragioni”, Mosca è completamente passata dalla parte del torto ricorrendo alla forza delle armi in una maniera tanto estesa.

 

L’invasione risulta priva di alcuna pianificazione e raziocinio, tanto che ha subito una battuta d’arresto in brevissimo tempo, mettendosi in ridicolo di fronte alla comunità internazionale e portando al proprio isolamento da parte della maggior parte dei partner esteri. Proprio a causa di queste azioni sconsiderate, uno degli ultimi amici rimasti di Mosca è Pechino, la quale non ha perso tempo nel rilevare massivamente le quote azionarie di molte delle aziende che sono state abbandonate dai vari gruppi occidentali in ritirata dal territorio russo. Questo porterà probabilmente a un maggior avvicinamento tra le due nazioni, tuttavia non in un rapporto di equità, ma di subordinazione intrinseca della Russia rispetto alla Cina. Solo il tempo potrà dirci ove condurrà uno scenario tanto preoccupante.

  

Un aspetto di cui non si può far a meno nell’analisi più generale del conflitto è l’opinione pubblica russa e quanto questa può influenzare la durata delle ostilità tra le due nazioni. Come si poteva ampiamente prevedere la guerra non ha riscosso il successo sperato tra la popolazione. Per quanto vi sia una fetta ancora importante di russi che supportino incondizionatamente il governo, nelle ultime settimane si è creata una forte opposizione, seppur silenziosa, alla guerra in Ucraina. Questo sia per la vicinanza culturale e sociale dei due paesi, avvertita in maniera particolarmente profonda dalle vecchie generazioni, sia per la tragedia di molti soldati russi in età di leva mandati al fronte senza alcuna particolare esperienza o addestramente specifico.

 

Più il conflitto durerà, più aumenterà il numero di perdite russe, più verrà infiacchito il supporto al Cremlino, sia esso popolare o politico. Diffuse infatti sono ormai le voci di un dissenso molto forte all’interno delle stanze del potere di Mosca, tanto da paventare addirittura un colpo di stato ai danni dello stesso Putin per invertire la strada intrapresa. Nonostante vi sia tutto l’interesse sia da parte del popolo ucraino sia della N.A.T.O. che il presunto elevato numero di morti russi aumenti la disapprovazione verso Putin tanto da provocare un regime change, vi sono segnali che non portano in questa direzione.

 

Pochi giorni prima dell’inizio del conflitto la società indipendente di sondaggi Levada Center con sede a Mosca aveva riscontrato una grande maggioranza di russi a favore sia del riconoscimento delle repubbliche separatiste del Donbass sia delle responsabilità della N.A.T.O. per la situazione di stallo venutasi a creare. Per quanto il supporto al presidente russo sia ancora oggi molto elevato, esso ha riscontrato un fortissimo calo all’inizio delle ostilità, segnale questo che comunque va tenuto d’occhio in una prospettiva di cambiamento futuro.

 

In merito agli obiettivi militari e strategici che Mosca si era prefissata all’inizio dell’invasione, sono ancora oggi in corso diverse speculazioni, specialmente alla luce dello svolgimento inaspettato del conflitto. Ciò a cui i vertici militari possono potenzialmente mirare è la creazione, alla fine del conflitto, di varie zone cuscinetto in territorio ucraino, spezzettando de facto la nazione di Kiev, oppure un vero e proprio Stato che diventi un vassallo di Mosca nell’Europa dell’Est di domani.

 

Una delle ipotesi più accreditate è la creazione di un’entità politica nel Sud del paese che colleghi la Crimea al Donbass, così da unificare le provincie costiere e avere un’unica entità territoriale al proprio servizio. Questo spiegherebbe sicuramente l’ostinazione delle forze russe su Mariupol, soggetta a un assedio brutale come non se ne vedevano da svariati anni. Bisognerà prima vedere a che condizioni sarà firmata un’eventuale pace e quali obiettivi militari Mosca raggiungerà prima della firma di questo accordo.

 

Una menzione d’obbligo va fatta agli Stati Uniti e alla loro amministrazione, la quale è sicuramente protagonista seppur indiretta (ma non troppo) nel conflitto in atto. Per quanto il mondo abbia accolto con grandi festeggiamenti l’elezione del presidente Biden, molti analisti sapevano che questo avrebbe portato a un peggioramento delle relazioni con la Russia. Infatti sebbene il suo predecessore Trump abbia avuto una presidenza tra le più controverse degli ultimi anni, egli aveva garantito una relativa stabilità dei rapporti tra Washington e Mosca. Nonostante anche in quegli anni vi fossero periodi in cui i toni si alzavano drasticamente, essi non erano mai virati verso tensioni concrete che potessero erodere la sfera d’influenza di una o dell’altra nazione. Con Biden tutto questo è cambiato.

 

Analizzando quanto compiuto dall’amministrazione democratica a ridosso della crisi ucraina, si può concludere che le azioni statunitensi siano state quanto meno non inclini al raggiungimento di un compromesso politico. Infatti nel momento più delicato dell’escalation, quanto vi era la disperata necessità di un atteggiamento pragmatico delle parti, Biden ha respinto tutte le richieste di Mosca: un’intermediazione di parti terze, l’organizzazione di una conferenza internazionale in stile Jalta e soprattutto un accordo su punti richiesti dai russi oggettivamente negoziabili.

 

Facendo così Washington ha portato a un ancor più marcato senso di accerchiamento ed esasperazione da parte dei russi, conducendoli a prendere in considerazione l’ultima ratio tra le decisioni politiche, la guerra con l’invasione dell’Ucraina, l’unica opzione da intraprendere. Il successo politico americano in questo senso è ben più ampio di quanto si possa pensare. Infatti così facendo non solo la Russia è stata esposta militarmente, politicamente e anche economicamente a un potenziale fallimento di proporzioni catastrofiche, ma è stata anche messa alla gogna dal punto di vista mediatico, ricalcando in tutto il mondo la visione prettamente statunitense della Russia, ovvero non un partner con cui interlocuire e confrontarsi, ma il nemico per antonomasia con il quale non vi può mai essere una mediazione affidabile.

 

Altro fattore da tenere in conto è che gli Stati Uniti hanno raggiunto tutti questi obiettivi senza dover neanche impiegare uno dei propri soldati, massimizzando così la propria efficacia politica da tutti i punti di vista. Anzi, se proprio si vuole essere cinici, Washington ci ha addirittura guadagnato dal conflitto grazie alla vendita di armi che tuttora è in corso nei confronti di Kiev.

 

Le sanzioni applicate alla Russia da parte della comunità internazionale nelle ultime settimane vanno in due obiettivi distinti. Il primo è quello di spingere la Russia sempre più verso le braccia della Cina, rendendola subordinata a quest’ultima e sempre meno influente. Il secondo, e forse quello che può essere considerato l’obiettivo vero, è quello di portare sempre più l’Europa verso le braccia degli Stati Uniti. Infatti il parziale percorso verso un’autonomia strategica e decisionale intrapreso dall’Unione Europea, e in particolar modo dal presidente francese Macron durante gli anni dell’amministrazione Trump, ha intaccato seriamente la leadership d’oltreoceano sul Vecchio Continente. In questo maniera invece la speranza implicita della Casa Bianca è che la paura di un nemico così potenzialmente grande come la Russia possa far tornare a più miti consigli gli alleati europei. È d’altronde naturale che un Europa spaventata sia più semplice da controllare.

 

In quest’ottica proprio Macron ha intuito con grande anticipo rispetto ai colleghi europei i potenziali rischi di una guerra in Europa ed è stato proprio per questo motivo che nelle settimane precedenti al conflitto vi è stato un suo particolare impegno verso il dialogo e la distensione tra le parti. Infatti proprio Macron è stato l’unico tra i leader europei che ha cercato di creare un terreno di comune accordo tra Washington e Mosca, tentando anche di dare al Cremlino quelle assicurazioni sulla sicurezza che tanto erano cercate dalla Federazione Russa. Tuttavia è mancata la volontà in questo senso da parte di attori ben più influenti di Macron, per arrivare così al risultato che abbiamo tutti sotto gli occhi da settimane.

 

Un ultimo aspetto di cui tenere conto in questa analisi è senza dubbio il rapporto tra Russia e Cina, paesi molto vicini in questo particolare momento storico. Vicini, ma non amici. È infatti importante distinguere lo speciale rapporto che sussiste tra le due nazioni a livello energetico, economico e più in generale strategico dalla sovrapposizione che vi può essere tra le agende estere di questi due paesi. Prova ne sia che uno dei pilastri delle politiche cinesi degli ultimi decenni è il principio di non ingerenza negli affari interni di paesi terzi professati dal premier Zhou Enlai nel 1949, motivo per il quale difficilmente Pechino spenderà più di qualche parola generica di appoggio alla Russia come fatto finora.

 

Vedendo la cosa in prospettiva, Pechino non ha mai neanche riconosciuto l’annessione della Crimea da parte della Russia né vi è stato un appoggio diretto alle forze russe quando sono intervenute in Kazakistan per sedare i disordini di gennaio. La Cina in questo momento non ha alcun interesse a immischiarsi in ciò che riguarda la guerra in Ucraina, e questo per una ragione specifica. L’establishment cinese è infatti pienamente consapevole che supportando eccessivamente la Russia in materia di sicurezza europea rischia di inimicarsi l’Europa stessa, la quale è uno dei più grandi partner commerciale cinesi e che la Cina non vuole far finire sotto l’ombrello protettivo statunitense.

 

Allo stato attuale sono innumerevoli gli accordi in fase finale di trattativa tra Pechino e Bruxelles, non ultimo il Comprehensive Agreement on Investment (Cai), un accordo di investimento multilaterale che copre svariati settori economici. Infine un’altra ragione per cui alla Cina non conviene supportare troppo Mosca nelle sue azioni di politica estera è perché queste stesse azioni avvengono per lo più nello spazio post-sovietico, ed è proprio in questo spazio che Pechino sta cercando di sostituirsi gradualmente a Mosca negli ultimi anni. Mostrarsi troppo favorevoli in questo senso potrebbe compromettere anni di sforzi a proprio favore.

 

In conclusione, ciò a cui si sta assistendo in Ucraina avrà ripercussioni ancora oggi incalcolabili per gli anni e probabilmente anche per i decenni a venire. Kiev in questa tragica dinamica è rimasta vittima due volte. In primis dell’aggressione russa e di tutta la violenza che una guerra comporta all’interno dei propri confini con la presenza di civili nella linea di fuoco. In secundis della propria assenza di maturità politica, che ha permesso alle varie amministrazione succedutesi dal 2014 in poi di avvicinarsi all’Occidente, non comprendendo mai che per questi l’Ucraina è sempre stata un semplice mezzo per far pressione sulla Russia.

 

Se infatti da un lato vi è sempre stato un grande appoggio a parole nei confronti del governo di Kiev, nella pratica l’Occidente si è speso ben poco (a parte la fornitura di armi) nella difesa della nazione ucraina aggredita, lasciando questo agnello sacrificale e tutta la sua popolazione alla mercè del proprio destino. Questo poiché il conflitto in Ucraina altri non è che un conflitto per procura dal punto di vista occidentale, fatto unicamene per indebolire il regime russo e la base di appoggio nel consenso popolare.

 

L’amara realtà è che a nessuno, che sia Bruxelles o la stessa Washington, interessa del destino del martoriato popolo ucraino.

 

Ovviamente all’indomani della guerra vi è stata una mobilitazione generale da parte dell’opinione pubblica mondiale, e in particolare quella europea, a favore della popolazione aggredita, ma soprattutto contro ogni forma di guerra. A questo punto vi è da chiedersi se l’opinione pubblica occidentale sia genuinamente scandalizzata per lo scoppio della guerra in sé come grande atrocità presente sul nostro pianeta o se questa improvvisa coscienza civica anti-bellica sia nata solamente perché il conflitto è alle porte d’Europa.

 

Andando a rileggere le cronache degli anni scorsi sembrerebbe più la seconda opzione rispetto alla prima, non essendoci state così tante proteste o banalmente anche una mera informazione di base quando è scoppiata la guerra in Yemen (ancora in corso), la guerra in Etiopia o banalmente il conflitto tra Armenia e Azerbaigian da poco conclusosi. Eppure in tutti questi scenari le popolazioni civili hanno sofferto in egual misura a quanto sta soffrendo oggi la popolazione ucraina.

 

Lo scarso interesse da parte dell’opinione pubblica verso le tematiche di politica estera porta questa stessa ad essere estremamente volubile rispetto alle necessità e alle contingenze dell’establishment costituito. Basti pensare a quanto successo pochi mesi fa con la Polonia, considerata per svariate settimane uno dei paesi che faceva ostruzionismo tra i più serrati per quanto riguarda le decisioni comunitarie europee e poi tramutatasi come l’ultima frontiera di difesa dell’Europa stessa contro la crisi dei migranti avvenuta a confine con la Bielorussia.

 

Altra considerazione di carattere maggiormente generale va fatta per quanto riguarda il sistema di valori che l’Occidente, compresi gli stati d’Europa, vogliono rappresentare. Se vi è un così grande interesse e attenzione per la democrazia e i diritti umani, bisognerebbe fornire una spiegazione all’opinione pubblica del motivo perché tra gli alleati occidentali si possono annoverare stati come Arabia Saudita, Turchia, l’Ungheria di Orban e tanti altri che dei diritti umani non sembrano curarsi molto.

 

La stessa Europa che rifornisce di armi l’Ucraina per difendersi contro la Russia agisce prendendo questa misura come ultima ratio per difendere i propri confini, non rendendosi conto però che questo è l’esatto contrario dei valori che essa vuole rappresentare. Proprio nelle prime settimane del conflitto, in Arabia Saudita sono state giustiziate 81 persone in giorno solo, eppure non sembra esserci alcuna copertura mediatica in merito.

 

L’ipotesi più probabile è duplice. Infatti questi stati vengono tollerati come alleati sia perché più inclini ad accomodare le richieste che vengono da Washington, e quindi momentaneamente non rientrano nella lista dei cosiddetti “Stati Canaglia”, sia perché vi è banalmente una covenienza economica di fondo. Per quanto riguarda questo esempio specifico, basti pensare che proprio in queste settimane l’Arabia Saudita viene guardata con attenzione poiché potrebbe sopperire in parte alle fonti energetiche che si vogliono sostituire dalla Russia. Il silenzio dei media quindi è presto spiegato.

 

Alla fine di tutta questa analisi resta solamente la sofferenza di un intero popolo, portato a combattere una guerra per la propria terra e per la propria casa conseguentemente ai giochi delle grandi potenze. È ancora difficile stabilire quanto il conflitto durerà, ma questo tragico evento ci dovrebbe ricordare quanto sia fragile l’equilibrio su cui si poggia la nostra esistenza nell’attuale sistema internazionale.

 

Indipendentemente dalle motivazioni per cui il conflitto sia scoppiato, la speranza è che le armi tacciano al più presto per poter lasciar spazio alle parole, in Ucraina così come in tutti quei dimenticati conflitti in giro per il mondo.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]