attualità
Il conflitto in Ucraina
L’Europa riscopre la guerra
di Gian Marco Boellisi
La notte del 24 febbraio 2022 ha avuto
inizio una tragedia che l’intero mondo
aveva auspicato non accadesse mai. Dopo
mesi, anzi anni, di tensioni crescenti,
parole ignorate e minacce neanche troppo
velate, le truppe della Federazione
Russa hanno invaso il territorio
dell’Ucraina, avviando così quella che
il presidente Putin ha definito
un’“Operazione militare speciale”. Per
quanto vi fossero sempre state
possibilità per cui le tensioni tra
Ucraina e Russia sfociassero in un
conflitto aperto, nessun analista
politico ha mai considerato un tale
evento tra le opzioni più probabili.
E invece la guerra è scoppiata, con
tutta la sua violenza e crudeltà come
sempre accade da quando l’essere umano
cammina su questa Terra. Lasciando da
parte in questa trattazione le
considerazioni prettamente militari, è
interessante analizzare le motivazioni
per le quali si è arrivati al conflitto
e soprattutto capire quali possono
esserne le implicazioni future dal punto
di vista politico, sia per l’Europa che
per il mondo intero.
Quella scoppiata tra Ucraina e Russia
altro non è che una guerra fratricida
nel senso letterale del termine. Solo 30
anni fa nessuno avrebbe mai potuto
pensare possibile un conflitto tra due
popoli la cui storia, la cui cultura e
le cui tradizioni sono tanto intrecciate
e similari. Basti pensare che le origini
dello stato russo ebbero inizio proprio
nel regno dei Rus’ tra le città di
Novgorod e Kiev. Innumerevoli famiglie
russe al giorno d’oggi hanno parenti in
Ucraina, e viceversa, motivo per il
quale questo conflitto risulta avere
ancora meno senso agli occhi di chi lo
sta combattendo in prima persona.
Le motivazioni che hanno scatenato la
guerra sono di varia natura, con
responsabilità a vario grado da parte di
entrambi gli schieramenti e che vedono
le proprie radici negli anni e nei
decenni passati. Tra le ragioni
principali tuttavia si può sicuramente
considerare il senso di accerchiamento
avvertito dalla Federazione Russa negli
anni a seguito della politica di
espansione della N.A.T.O. in Europa
verso Est. La storia di questa
espansione è colma di luci e ombre, le
quali tuttavia è importante rievocare
per comprendere maggiormente
a cosa si sta assistendo in queste
settimane.
Il tutto risale agli ultimi anni della
Guerra Fredda, tra il 1989 e il 1991,
quando la caduta dell’Unione Sovietica
era ormai imminente. Qui il blocco
occidentale, ovvero gli Stati Uniti e la
N.A.T.O., spinsero fortemente affinchè
avvenisse una riunificazione pacifica
della Germania con anche una caduta dei
regimi comunisti dell’Est Europa, a
seguito delle proteste di piazza che in
quel periodo erano diventate ormai
inarrestabili.
Probabilmente intuendo che non vi
fossero molte altre strade da percorre,
l’allora Segretario del Partito
Comunista Sovietico Gorbačëv decise di
fare un accordo non scritto con le
proprie controparti statunitensi: la
liberazione di Berlino e il ritiro delle
truppe russe dai paesi dell’ormai
deceduto Patto di Varsavia in cambio del
non allargamento della N.A.T.O. negli
anni a venire. Questo tuttavia non fu un
accordo scritto, ma solo un “Gentlemen’s
Agreement” tra superpotenze. E tale
rimase.
Infatti negli anni ’90, quando il
passaggio da Unione Sovietica a
Federazione Russa rese estramemente
debole e vulnerabile Mosca sullo
scenario internazionale e gli Stati
Uniti e la N.A.T.O. lavorarono
sommessamente per ampliare l’Alleanza
Atlantica verso l’Europa Orientale.
Se infatti il Patto di Varsavia, ovvero
l’alleanza militare difensiva con a capo
l’Unione Sovietica, si era sciolta con
la caduta del regime comunista di Mosca,
altrettanto non era accaduto con la sua
controparte statunitense (questione
questa che ancora oggi anima importanti
dibattiti intorno all’utilità o alla
ragion di esistere di un simile
strumento militare al giorno d’oggi).
Al contrario, l’Alleanza Atlantica
inglobò via via sempre un numero
maggiore di nazioni, accerchiando de
facto Mosca negli anni e alimentando
quel senso di minaccia costante che i
russi non hanno mai negato di provare.
L’allargamento fu nella sostanza molto
serrato, inglobando senza alcuna misura
un gran numero di paesi nell’Europa
Orientale: Polonia, Repubblica Ceca e
Ungheria nel 1999, Bulgaria, Lettonia,
Estonia, Lituania, Romania, Slovacchia,
Slovenia nel 2004, Albania e Croazia nel
2009, Montenegro nel 2017, Macedonia del
Nord nel 2020.
Nonostante gli accordi presi da Gorbačëv
siano stati più volte tirati in causa da
parte del governo russo in protesta ai
vari allargamenti N.A.T.O., essi sono
sempre stati categoricamente smentiti
dalle varie amministrazioni succcedutesi
a Washington.
In occasione del conflitto ucraino il
quotidiano tedesco Der Spiegel ha
pubblicato un documento quanto meno
imbarazzante per le cancellerie
occidentali. Si tratterebbe di un
verbale ritrovato nei British
National Archives riguardante una
riunione avvenuta a Bonn nel marzo 1991
dei Direttori politici dei ministeri
degli Esteri di Gran Bretagna, Stati
Uniti, Germania e Francia. Di fronte
alla richiesta di alcuni paesi aderenti
all’ex blocco sovietico di entrare a far
parte della N.A.T.O., l’interezza dei
partecipanti fu d’accordo nel ritenere
una simile richiesta assolutamente
“inaccettabile”. Questo a testimonianza
del fatto che all’epoca si riteneva un
simile allargamento un’opzione ancora
troppo pericolosa e troppo provocatoria
nei confronti della Russia.
Evidentemente con il passare degli anni
e alla luce della presidenza Él’cin i
paesi del blocco atlantico cambiarono
idea e procedettero verso un’altra
direzione.
Ritornando ai giorni nostri, l’invasione
russa dell’Ucraina è stato un evento
estremo e non in linea con l’agire
strategico usato solitamente dal
presidente Putin. Questi infatti ha
costruito in venti anni di dominio
assoluto sul proprio paese una nuova
dimensione della politica estera russa,
incentrata sull’esclusiva difesa dei
propri interessi nazionali e sulla
formazione di un blocco
politico-economico “alternativo”
rispetto agli standard occidentali.
Gli interventi esteri nel corso degli
anni non sono mancati, dalla Georgia
alla Siria fino ai vari interventi per
procura in Africa, ma quello in Ucraina
è sicuramente il più grande azzardo
giocato dal presidente. Per quanto
dall’agire di Putin emerge quanto meno
una non accettazione del crollo
dell’URSS e di tutto ciò che ne è
conseguito dagli anni ‘90 in poi a
livello internazionale, questa azione
non risulta essere in linea con un fare
politico orientato verso la ricerca
della convivenza, per quanto non serena,
con i propri vicini e i propri partner.
Ed è proprio a causa di questa decisione
scellerata che alla fine potrebbe essere
la Russia a rimetterci più di quanto
potrebbe mai guadagnare da una eventuale
(ad oggi remota) vittoria.
I segnali premonitori di una tale
catastrofe non sono di certo mancati. Si
può ritornare indietro fino al 2008,
quanto la N.A.T.O. stava per inglobare
la Georgia all’interno dei propri
membri. Questo ovviamente avrebbe
intaccato la zona di influenza russa nel
Caucaso, causando ulteriore instabilità
in una già agitata regione (Armenia e
Azerbaigian di recente memoria). Anche
in questo caso si ebbe un conflitto,
molto più breve, ma altrettanto
distruttivo. Il risultato fu la
distruzione della Georgia, la tragedia
di un intero popolo e la comprensione da
parte della N.A.T.O. che quella partita
era stata persa. Evidentemente però nei
corridoi dell’Alleanza Atlantica
l’avvicinarsi ai confini russi è
risultato essere uno tra gli obiettivi
principali, tanto che la cosa ritornò in
auge all’indomani della rivoluzione
colorata del 2014 in Ucraina, anno in
cui l’attuale crisi ha avuto inizio e
dove sono nati i semi del conflitto
odierno.
Per quanto la guerra e la decisione di
invadere uno stato sovrano siano
interamente da imputare alla Federazione
Russa, le responsabilità dell’aumento
esponenziale delle tensioni non è
sicuramente colpa unica del Cremlino. In
tutto questo tempo infatti l’Europa e
gli Stati Uniti sono stati
volontariamente sordi ai numerosi
appelli da parte della Russia in merito
alle garanzie della propria sicurezza,
paventando la propria invincibilità e
cullandosi di essere i vincitori della
Guerra Fredda e quindi i detentori delle
chiavi dell’odierno sistema
internazionale all’indomani del 1991.
È stato proprio questo atteggiamento
totalmente inopportuno verso una realtà
così complessa come la Russia che ha
portato Mosca tra le braccia di Pechino.
Ed è proprio qui che il fallimento
dell’Occidente è stato doppio, poiché ha
portato un paese potenzialmente alleato,
o quanto meno neutrale nel sistema post
1991 (la Russia), ad allearsi con un
paese con il quale non ha mai avuto
grandi rapporti di amicizia, ma di cui
anzi storicamente è sempre stata una
rivale (la Cina). La creazione dell’asse
Mosca-Pechino è quindi imputabile
meramente alla cecità di prospettive
politiche ed economiche di un Occidente
che si è pasciuto della propria presunta
potenza troppo a lungo. Niente di più,
niente di meno.
Andando più a fondo, un aspetto di non
secondaria importanza nell’analisi del
conflitto è costituito dalla direzione
che lo stato ucraino dovrà decidere di
intraprendere alla fine delle ostilità.
Sebbene negli anni dopo la caduta
dell’Unione Sovietica Kiev è rientrata
per la stragrande maggioranza del tempo
nella sfera di influenza russa,
all’indomani della rivoluzione del 2014
si è avuto nel paese un cambiamento
repentino di direzione.
Una polemica che si sente spesso in
queste settimane riguarda proprio il
diritto di autodeterminazione dei
popoli, in virtù del quale si dovrebbe
permettere all’Ucraina di guardare
liberamente o a Occidente o a Oriente
per quanto riguarda il suo futuro. Per
quanto queste siano considerazioni
sacrosante, vi è un ulteriore elemento
da tenere in considerazione. Infatti
come è naturale che ogni popolo decida
la visione che esso ha di se stesso e di
ciò che vuole diventare, è altrettanto
naturale nel corso della storia
dell’umanità che si vengano a creare
della zone di influenza, o anche zone
cuscinetto, che facciano da ponte tra
alcuni stati e altre regioni. E questo
discorso riguarda proprio l’Ucraina, la
quale, trovandosi a ridosso del confine
russo, costituiva fino a pochi anni fa
quella zona di influenza e/o zona
cuscinetto che serviva a Mosca per non
essere potenzialmente accerchiata dai
propri competitor.
La sola idea di far entrare Kiev nella
N.A.T.O. è ugualmente destabilizzante ed
estremamente azzardata al pari della
decisione di Chruščëv nel 1962 di
piazzare i missili a Cuba, proprio di
fronte alla porta di casa degli Stati
Uniti. Solo che, mentre all’epoca questa
decisione fu vista più che giustamente
dalla comunità internazionale come un
atto fortemente improntato alla
violenza, al giorno d’oggi far entrare
in un’alleanza prettamente militare uno
stato confinante con la Russia è stato
fatto percepire dai mass media di tutto
il mondo come normale, come libera
espressione della volontà del popolo
ucraino. Errori gravissimi entrambi, ma
comunicati in maniera diametralmente
opposta.
L’accelerazione delle tensioni tra
Ucraina e Russia probabilmente è
avvenuta anche a causa dei recenti
“successi” all’interno dello spazio
ex-sovietico ottenuti dal Cremlino negli
ultimi anni. Non è mai stato un segreto
infatti che le varie amministrazioni
Putin volessero ricostruire un blocco
unito con paesi aderenti gran parte
degli ex-membri dell’U.R.S.S.
Economicamente parlando è stata creata
l’Unione Economica Eurasiatica, la quale
tuttavia è risultata titubante rispetto
agli obiettivi inizialmente prefissati.
Dal punto di vista politico invece si
parla di tutt’altra storia.
Il Cremlino è riuscito infatti a
mantenere al potere l’alleato
Lukashenko, che nonostante le proteste
degli ultimi anni, ha avuto successo nel
pacificare/controllare la regione del
Caucaso dopo il conflitto tra Armenia e
Azerbaigian e infine è riuscito a
mettere a tacere le proteste in
Kazakistan a seguito del tentativo di
rovesciamento di governo avvenuto nel
gennaio 2022. Tutto questo ovviamente
non è passato inosservato alle
controparti atlantiche, le quali hanno
voluto probabilmente spingere verso una
celere adesione alla N.A.T.O.
dell’Ucraina per cercare di erodere alla
Russia quella zona di influenza che
aveva costruito negli anni successivi
alla caduta del blocco sovietico. Questa
ovviamente può essere considerata una
delle tante concause, anche se
sicuramente questa sequenza di eventi ha
avuto un ruolo importante nello
scatenare il recente conflitto.
Per quanto agli occhi di molti le azioni
militari russe possano sembrare coerenti
con la loro più recente politica estera,
specialmente relativamente a interventi
militari recenti diretti (Siria) e
indiretti (Africa Sub-Sahariana),
l’invasione dell’Ucraina costituisce un
fortissimo punto di rottura con le
politiche di Mosca. Analizzando il
20ennio nel quale Putin è stato
presidente, si possono individuare
svariati momenti in cui viene ripetuto
lo stesso schema, ovvero interventi
mirati ed estremamente precisi che
puntano ad accrescere localmente
l’influenza della Federazione Russa
nelle sue immediate vicinanze e non
solo.
Sebbene questi interventi siano stati
per la maggior parte delle volte al di
fuori del diritto internazionale, essi
comunque sono stati in qualche maniera
lasciati passare della comunità
internazionale, la quale non è mai stata
in grado di assumere una posizione
decisa e soprattutto unita in merito. Un
esempio può essere il riconoscimento
dell’indipendenza dell’Abkhazia e
dell’Ossezia del Sud nel 2008 nel
contesto del conflitto in Georgia,
oppure l’annessione della Crimea nel
2014, fatta per preservare le proprie
basi navali nel porto di Sebastopoli,
oppure di più recente memoria il
riconoscimento dell’indipendenza delle
Repubbliche Autonome di Donetsk e
Luhansk.
In ognuno di questi esempi Mosca non è
stata mai completamente dalla parte
della ragione, tuttavia aveva a suo
favore delle “ragioni” per le quali si
sentiva in diritto di agire e in molti
casi la mancanza di reazioni a livello
internazionale ha anche avvallato questo
tipo di politiche. Per quanto anche nel
caso ucraino vi si possano individuare
essere alcune di queste “ragioni”, Mosca
è completamente passata dalla parte del
torto ricorrendo alla forza delle armi
in una maniera tanto estesa.
L’invasione risulta priva di alcuna
pianificazione e raziocinio, tanto che
ha subito una battuta d’arresto in
brevissimo tempo, mettendosi in ridicolo
di fronte alla comunità internazionale e
portando al proprio isolamento da parte
della maggior parte dei partner esteri.
Proprio a causa di queste azioni
sconsiderate, uno degli ultimi amici
rimasti di Mosca è Pechino, la quale non
ha perso tempo nel rilevare massivamente
le quote azionarie di molte delle
aziende che sono state abbandonate dai
vari gruppi occidentali in ritirata dal
territorio russo. Questo porterà
probabilmente a un maggior avvicinamento
tra le due nazioni, tuttavia non in un
rapporto di equità, ma di subordinazione
intrinseca della Russia rispetto alla
Cina. Solo il tempo potrà dirci ove
condurrà uno scenario tanto
preoccupante.
Un aspetto di cui non si può far a meno
nell’analisi più generale del conflitto
è l’opinione pubblica russa e quanto
questa può influenzare la durata delle
ostilità tra le due nazioni. Come si
poteva ampiamente prevedere la guerra
non ha riscosso il successo sperato tra
la popolazione. Per quanto vi sia una
fetta ancora importante di russi che
supportino incondizionatamente il
governo, nelle ultime settimane si è
creata una forte opposizione, seppur
silenziosa, alla guerra in Ucraina.
Questo sia per la vicinanza culturale e
sociale dei due paesi, avvertita in
maniera particolarmente profonda dalle
vecchie generazioni, sia per la tragedia
di molti soldati russi in età di leva
mandati al fronte senza alcuna
particolare esperienza o addestramente
specifico.
Più il conflitto durerà, più aumenterà
il numero di perdite russe, più verrà
infiacchito il supporto al Cremlino, sia
esso popolare o politico. Diffuse
infatti sono ormai le voci di un
dissenso molto forte all’interno delle
stanze del potere di Mosca, tanto da
paventare addirittura un colpo di stato
ai danni dello stesso Putin per
invertire la strada intrapresa.
Nonostante vi sia tutto l’interesse sia
da parte del popolo ucraino sia della
N.A.T.O. che il presunto elevato numero
di morti russi aumenti la
disapprovazione verso Putin tanto da
provocare un regime change, vi
sono segnali che non portano in questa
direzione.
Pochi giorni prima dell’inizio del
conflitto la società indipendente di
sondaggi Levada Center con sede a
Mosca aveva riscontrato una grande
maggioranza di russi a favore sia del
riconoscimento delle repubbliche
separatiste del Donbass sia delle
responsabilità della N.A.T.O. per la
situazione di stallo venutasi a creare.
Per quanto il supporto al presidente
russo sia ancora oggi molto elevato,
esso ha riscontrato un fortissimo calo
all’inizio delle ostilità, segnale
questo che comunque va tenuto d’occhio
in una prospettiva di cambiamento
futuro.
In merito agli obiettivi militari e
strategici che Mosca si era prefissata
all’inizio dell’invasione, sono ancora
oggi in corso diverse speculazioni,
specialmente alla luce dello svolgimento
inaspettato del conflitto. Ciò a cui i
vertici militari possono potenzialmente
mirare è la creazione, alla fine del
conflitto, di varie zone cuscinetto in
territorio ucraino, spezzettando de
facto la nazione di Kiev, oppure un
vero e proprio Stato che diventi un
vassallo di Mosca nell’Europa dell’Est
di domani.
Una delle ipotesi più accreditate è la
creazione di un’entità politica nel Sud
del paese che colleghi la Crimea al
Donbass, così da unificare le provincie
costiere e avere un’unica entità
territoriale al proprio servizio. Questo
spiegherebbe sicuramente l’ostinazione
delle forze russe su Mariupol, soggetta
a un assedio brutale come non se ne
vedevano da svariati anni. Bisognerà
prima vedere a che condizioni sarà
firmata un’eventuale pace e quali
obiettivi militari Mosca raggiungerà
prima della firma di questo accordo.
Una menzione d’obbligo va fatta agli
Stati Uniti e alla loro amministrazione,
la quale è sicuramente protagonista
seppur indiretta (ma non troppo) nel
conflitto in atto. Per quanto il mondo
abbia accolto con grandi festeggiamenti
l’elezione del presidente Biden, molti
analisti sapevano che questo avrebbe
portato a un peggioramento delle
relazioni con la Russia. Infatti sebbene
il suo predecessore Trump abbia avuto
una presidenza tra le più controverse
degli ultimi anni, egli aveva garantito
una relativa stabilità dei rapporti tra
Washington e Mosca. Nonostante anche in
quegli anni vi fossero periodi in cui i
toni si alzavano drasticamente, essi non
erano mai virati verso tensioni concrete
che potessero erodere la sfera
d’influenza di una o dell’altra nazione.
Con Biden tutto questo è cambiato.
Analizzando quanto compiuto
dall’amministrazione democratica a
ridosso della crisi ucraina, si può
concludere che le azioni statunitensi
siano state quanto meno non inclini al
raggiungimento di un compromesso
politico. Infatti nel momento più
delicato dell’escalation, quanto vi era
la disperata necessità di un
atteggiamento pragmatico delle parti,
Biden ha respinto tutte le richieste di
Mosca: un’intermediazione di parti
terze, l’organizzazione di una
conferenza internazionale in stile Jalta
e soprattutto un accordo su punti
richiesti dai russi oggettivamente
negoziabili.
Facendo così Washington ha portato a un
ancor più marcato senso di
accerchiamento ed esasperazione da parte
dei russi, conducendoli a prendere in
considerazione l’ultima ratio tra
le decisioni politiche, la guerra con
l’invasione dell’Ucraina, l’unica
opzione da intraprendere. Il successo
politico americano in questo senso è ben
più ampio di quanto si possa pensare.
Infatti così facendo non solo la Russia
è stata esposta militarmente,
politicamente e anche economicamente a
un potenziale fallimento di proporzioni
catastrofiche, ma è stata anche messa
alla gogna dal punto di vista mediatico,
ricalcando in tutto il mondo la visione
prettamente statunitense della Russia,
ovvero non un partner con cui
interlocuire e confrontarsi, ma il
nemico per antonomasia con il quale non
vi può mai essere una mediazione
affidabile.
Altro fattore da tenere in conto è che
gli Stati Uniti hanno raggiunto tutti
questi obiettivi senza dover neanche
impiegare uno dei propri soldati,
massimizzando così la propria efficacia
politica da tutti i punti di vista.
Anzi, se proprio si vuole essere cinici,
Washington ci ha addirittura guadagnato
dal conflitto grazie alla vendita di
armi che tuttora è in corso nei
confronti di Kiev.
Le sanzioni applicate alla Russia da
parte della comunità internazionale
nelle ultime settimane vanno in due
obiettivi distinti. Il primo è quello di
spingere la Russia sempre più verso le
braccia della Cina, rendendola
subordinata a quest’ultima e sempre meno
influente. Il secondo, e forse quello
che può essere considerato l’obiettivo
vero, è quello di portare sempre più
l’Europa verso le braccia degli Stati
Uniti. Infatti il parziale percorso
verso un’autonomia strategica e
decisionale intrapreso dall’Unione
Europea, e in particolar modo dal
presidente francese Macron durante gli
anni dell’amministrazione Trump, ha
intaccato seriamente la leadership
d’oltreoceano sul Vecchio Continente. In
questo maniera invece la speranza
implicita della Casa Bianca è che la
paura di un nemico così potenzialmente
grande come la Russia possa far tornare
a più miti consigli gli alleati europei.
È d’altronde naturale che un Europa
spaventata sia più semplice da
controllare.
In quest’ottica proprio Macron ha
intuito con grande anticipo rispetto ai
colleghi europei i potenziali rischi di
una guerra in Europa ed è stato proprio
per questo motivo che nelle settimane
precedenti al conflitto vi è stato un
suo particolare impegno verso il dialogo
e la distensione tra le parti. Infatti
proprio Macron è stato l’unico tra i
leader europei che ha cercato di creare
un terreno di comune accordo tra
Washington e Mosca, tentando anche di
dare al Cremlino quelle assicurazioni
sulla sicurezza che tanto erano cercate
dalla Federazione Russa. Tuttavia è
mancata la volontà in questo senso da
parte di attori ben più influenti di
Macron, per arrivare così al risultato
che abbiamo tutti sotto gli occhi da
settimane.
Un ultimo aspetto di cui tenere conto in
questa analisi è senza dubbio il
rapporto tra Russia e Cina, paesi molto
vicini in questo particolare momento
storico. Vicini, ma non amici. È infatti
importante distinguere lo speciale
rapporto che sussiste tra le due nazioni
a livello energetico, economico e più in
generale strategico dalla
sovrapposizione che vi può essere tra le
agende estere di questi due paesi. Prova
ne sia che uno dei pilastri delle
politiche cinesi degli ultimi decenni è
il principio di non ingerenza negli
affari interni di paesi terzi professati
dal premier Zhou Enlai nel 1949, motivo
per il quale difficilmente Pechino
spenderà più di qualche parola generica
di appoggio alla Russia come fatto
finora.
Vedendo la cosa in prospettiva, Pechino
non ha mai neanche riconosciuto
l’annessione della Crimea da parte della
Russia né vi è stato un appoggio diretto
alle forze russe quando sono intervenute
in Kazakistan per sedare i disordini di
gennaio. La Cina in questo momento non
ha alcun interesse a immischiarsi in ciò
che riguarda la guerra in Ucraina, e
questo per una ragione specifica. L’establishment
cinese è infatti pienamente consapevole
che supportando eccessivamente la Russia
in materia di sicurezza europea rischia
di inimicarsi l’Europa stessa, la quale
è uno dei più grandi partner commerciale
cinesi e che la Cina non vuole far
finire sotto l’ombrello protettivo
statunitense.
Allo stato attuale sono innumerevoli gli
accordi in fase finale di trattativa tra
Pechino e Bruxelles, non ultimo il
Comprehensive Agreement on Investment
(Cai), un accordo di investimento
multilaterale che copre svariati settori
economici. Infine un’altra ragione per
cui alla Cina non conviene supportare
troppo Mosca nelle sue azioni di
politica estera è perché queste stesse
azioni avvengono per lo più nello spazio
post-sovietico, ed è proprio in questo
spazio che Pechino sta cercando di
sostituirsi gradualmente a Mosca negli
ultimi anni. Mostrarsi troppo favorevoli
in questo senso potrebbe compromettere
anni di sforzi a proprio favore.
In conclusione, ciò a cui si sta
assistendo in Ucraina avrà ripercussioni
ancora oggi incalcolabili per gli anni e
probabilmente anche per i decenni a
venire. Kiev in questa tragica dinamica
è rimasta vittima due volte. In primis
dell’aggressione russa e di tutta la
violenza che una guerra comporta
all’interno dei propri confini con la
presenza di civili nella linea di fuoco.
In secundis della propria assenza di
maturità politica, che ha permesso alle
varie amministrazione succedutesi dal
2014 in poi di avvicinarsi
all’Occidente, non comprendendo mai che
per questi l’Ucraina è sempre stata un
semplice mezzo per far pressione sulla
Russia.
Se infatti da un lato vi è sempre stato
un grande appoggio a parole nei
confronti del governo di Kiev, nella
pratica l’Occidente si è speso ben poco
(a parte la fornitura di armi) nella
difesa della nazione ucraina aggredita,
lasciando questo agnello sacrificale e
tutta la sua popolazione alla mercè del
proprio destino. Questo poiché il
conflitto in Ucraina altri non è che un
conflitto per procura dal punto di vista
occidentale, fatto unicamene per
indebolire il regime russo e la base di
appoggio nel consenso popolare.
L’amara realtà è che a nessuno, che sia
Bruxelles o la stessa Washington,
interessa del destino del martoriato
popolo ucraino.
Ovviamente all’indomani della guerra vi
è stata una mobilitazione generale da
parte dell’opinione pubblica mondiale, e
in particolare quella europea, a favore
della popolazione aggredita, ma
soprattutto contro ogni forma di guerra.
A questo punto vi è da chiedersi se
l’opinione pubblica occidentale sia
genuinamente scandalizzata per lo
scoppio della guerra in sé come grande
atrocità presente sul nostro pianeta o
se questa improvvisa coscienza civica
anti-bellica sia nata solamente perché
il conflitto è alle porte d’Europa.
Andando a rileggere le cronache degli
anni scorsi sembrerebbe più la seconda
opzione rispetto alla prima, non
essendoci state così tante proteste o
banalmente anche una mera informazione
di base quando è scoppiata la guerra in
Yemen (ancora in corso), la guerra in
Etiopia o banalmente il conflitto tra
Armenia e Azerbaigian da poco
conclusosi. Eppure in tutti questi
scenari le popolazioni civili hanno
sofferto in egual misura a quanto sta
soffrendo oggi la popolazione ucraina.
Lo scarso interesse da parte
dell’opinione pubblica verso le
tematiche di politica estera porta
questa stessa ad essere estremamente
volubile rispetto alle necessità e alle
contingenze dell’establishment
costituito. Basti pensare a quanto
successo pochi mesi fa con la Polonia,
considerata per svariate settimane uno
dei paesi che faceva ostruzionismo tra i
più serrati per quanto riguarda le
decisioni comunitarie europee e poi
tramutatasi come l’ultima frontiera di
difesa dell’Europa stessa contro la
crisi dei migranti avvenuta a confine
con la Bielorussia.
Altra considerazione di carattere
maggiormente generale va fatta per
quanto riguarda il sistema di valori che
l’Occidente, compresi gli stati
d’Europa, vogliono rappresentare. Se vi
è un così grande interesse e attenzione
per la democrazia e i diritti umani,
bisognerebbe fornire una spiegazione
all’opinione pubblica del motivo perché
tra gli alleati occidentali si possono
annoverare stati come Arabia Saudita,
Turchia, l’Ungheria di Orban e tanti
altri che dei diritti umani non sembrano
curarsi molto.
La stessa Europa che rifornisce di armi
l’Ucraina per difendersi contro la
Russia agisce prendendo questa misura
come ultima ratio per difendere i propri
confini, non rendendosi conto però che
questo è l’esatto contrario dei valori
che essa vuole rappresentare. Proprio
nelle prime settimane del conflitto, in
Arabia Saudita sono state giustiziate 81
persone in giorno solo, eppure non
sembra esserci alcuna copertura
mediatica in merito.
L’ipotesi più probabile è duplice.
Infatti questi stati vengono tollerati
come alleati sia perché più inclini ad
accomodare le richieste che vengono da
Washington, e quindi momentaneamente non
rientrano nella lista dei cosiddetti
“Stati Canaglia”, sia perché vi è
banalmente una covenienza economica di
fondo. Per quanto riguarda questo
esempio specifico, basti pensare che
proprio in queste settimane l’Arabia
Saudita viene guardata con attenzione
poiché potrebbe sopperire in parte alle
fonti energetiche che si vogliono
sostituire dalla Russia. Il silenzio dei
media quindi è presto spiegato.
Alla fine di tutta questa analisi resta
solamente la sofferenza di un intero
popolo, portato a combattere una guerra
per la propria terra e per la propria
casa conseguentemente ai giochi delle
grandi potenze. È ancora difficile
stabilire quanto il conflitto durerà, ma
questo tragico evento ci dovrebbe
ricordare quanto sia fragile
l’equilibrio su cui si poggia la nostra
esistenza nell’attuale sistema
internazionale.
Indipendentemente dalle motivazioni per
cui il conflitto sia scoppiato, la
speranza è che le armi tacciano al più
presto per poter lasciar spazio alle
parole, in Ucraina così come in tutti
quei dimenticati conflitti in giro per
il mondo. |