N. 105 - Settembre 2016
(CXXXVI)
sulLE ORIGINI DEL
conflitto israelo-palestinese
rivolta
del
1936
e teoria
della
spartizione
di
Valerio
Mero
Un
problema
rilevante
per
la
comunità
palestinese
fu
l’assenza
di
un
sistema
amministrativo
centrale,
perché
i
rappresentanti
della
popolazione,
i
notabili
(ayyan),
grandi
proprietari
terrieri
o
membri
di
ricche
famiglie
di
mercanti,
avevano
con
la
popolazione
un
rapporto
di
tipo
clientelare
e,
soprattutto,
circoscritto
alle
proprie
città
d’origine.
Ma
il
problema
principale
per
la
comunità
palestinese
era
l’unità:
sia
la
classe
dirigente
sia
la
popolazione
erano
continuamente
divisi
da
differenze
di
clan
e da
questioni
religiose.
Durante
gli
anni
Trenta,
i
notabili
cercarono
di
ampliare
la
loro
influenza
anche
nella
Palestina
rurale,
ma
con
scarsi
risultati.
I
notabili
erano
proprietari
terrieri
e si
stavano
rivolgendo
a un
mondo
che
non
poteva
comprenderli.
Non
si
dimostrarono
capaci
di
rappresentare
pienamente
la
loro
popolazione
e
non
furono
nemmeno
in
grado
di
rapportarsi
con
la
comunità
ebraica.
I
contadini
avevano
altre
esigenze.
La
loro
preoccupazione
primaria
era
di
avere
i
mezzi
di
sostentamento
per
riuscire
a
sfamare
la
famiglia,
non
pensavano
certo
al
nazionalismo.
Non
essendo
stati
capaci
di
svolgere
il
ruolo
di
classe
dirigente,
i
notabili
decisero
bene
di
incitare
la
popolazione
a
scontrarsi
contro
i
coloni
ebrei.
Fu
comunque
in
questo
periodo
che
il
nazionalismo
fece
breccia
nelle
fasce
più
disagiate
della
popolazione.
E,
nel
1933,
il
vuoto
di
potere
nella
Palestina
rurale
permise
la
breve
parabola
di
Izz
al-Din
al-Qassam,
un
predicatore
siriano
trasferitosi
nelle
campagne
vicino
a
Haifa
e
diede
vita
ad
una
guerriglia
contro
gli
ebrei
e i
soldati
britannici.
Va
comunque
sottolineato
che
i
suoi
ideali
rivoluzionari
vennero
abbracciati
da
pochi,
più
che
altro
poveri
e
abitanti
delle
baraccopoli
nelle
periferie.
Nel
1933,
Adolf
Hitler
divenne
cancelliere.
In
questo
periodo,
come
forse
non
avevano
mai
fatto
prima,
gli
Ebrei
iniziarono
ad
abbandonare
in
massa
l’Europa;
a
causa
delle
restrizioni
imposte
dagli
Stati
Uniti,
si
diressero
perlopiù
in
Palestina,
dove
ovviamente
non
si
era
raggiunto
un
compromesso
in
grado
di
garantire
una
stabilità
e
dove
la
popolazione
contadina
palestinese
covava
un
crescente
risentimento
a
causa
della
progressiva
perdita
della
terra
e
dei
mezzi
di
sostentamento.
La
rivolta
fu
inevitabile,
ma
bisogna
tenere
conto
che
si
manifestò
con
tutte
le
caratteristiche
di
una
cosiddetta
«rivolta
del
pane».
Il
15
aprile
1936,
a
Tulkarem,
vennero
assassinati
due
Ebrei
e a
ciò
seguì
l’uccisione
di
due
Arabi,
provocando
una
rivolta
che
coinvolse
tutti
gli
Arabi
della
Palestina,
di
qualsiasi
luogo
e di
qualsiasi
estrazione
sociale.
I
notabili
convinsero
la
popolazione
che
la
migliore
arma
a
disposizione
fosse
lo
sciopero.
Il
25
aprile
1936
venne
creato
un
Alto
comitato
arabo
con
Haji
Amin
al-Husseini
presidente
che,
dopo
un
fallito
tentativo
di
negoziare
un
accordo
con
l’Agenzia
ebraica,
dichiarò
lo
sciopero
generale.
Così,
la
rivolta
nacque
come
una
grande
ondata
di
scioperi
e
manifestazioni.
La
Gran
Bretagna
reagì
con
una
brutale
repressione.
Tre
settimane
dopo,
quando
la
polizia
britannica
sparò
sui
manifestanti
nella
città
di
Giaffa,
le
manifestazioni
si
fecero
più
violente
fino
a
trasformarsi
nel
giro
di
qualche
mese
in
una
vera
e
propria
rivolta
armata.
In
aiuto
ai
Palestinesi
intervennero
i
popoli
Arabi
vicini,
e
insieme
combatterono
contro
le
forze
britanniche
da
un
lato
e
quelle
sioniste
dall’altro.
Si
venne
a
creare
un
clima
di
conflittualità
indiscriminata,
che
mise
l’uno
contro
l’altro
gli
stessi
Palestinesi.
Provocò
migrazioni
verso
gli
altri
paesi
e
finì
per
aggravare
le
già
complicate
divisioni
interne.
Vista
la
situazione
internazionale
alla
fine
degli
anni
Trenta,
Londra
cercò
di
trovare
una
soluzione
politica
alla
crisi
e,
nel
1937,
inviò
in
Palestina
una
Royal
Commission,
presieduta
da
Lord
Peel,
che
doveva
far
luce
sulle
cause
della
rivolta
ma
soprattutto
doveva
trovare
una
via
d’uscita
in
grado
di
portare
la
regione
all’indipendenza.
La
Gran
Bretagna
non
intendeva
rimanere
invischiata
nei
motivi
di
attrito
tra
Palestinesi
e
sionisti
ed
era
desiderosa
di
trovare
una
soluzione
per
mettersi
tutto
alle
spalle.
La
Commissione
Peel
sentenziò
il
mantenimento
di
una
presenza
britannica
in
alcuni
luoghi
di
importanza
strategica
e
indicò
come
soluzione
migliore
la
divisione
della
Palestina
in
una
zona
ebraica
e in
una
palestinese,
individuando
anche
una
piccola
area
come
possibile
territorio
per
il
futuro
Stato
ebraico.
Il
teorico
della
spartizione
fu
Reginald
Coupland,
professore
all’Università
di
Oxford,
il
quale
sostenne
che
in
Palestina
vivevano
due
popoli
con
due
culture
differenti,
una
araba,
di
origine
asiatica,
e
una
ebraica,
di
origine
europea.
Coupland
ritenne
che
questi
due
popoli
fossero
talmente
diversi
tra
loro,
che
non
avrebbero
mai
potuto
sviluppare
un
sentimento
nazionale
e
quindi
vivere
nello
stesso
Stato.
L’unica
soluzione
possibile
doveva
essere
la
spartizione.
Ovviamente,
la
proposta
fu
rifiutata
in
blocco
dai
Palestinesi
e da
tutti
gli
Stati
arabi.
Coloro
che
la
appoggiarono
furono
invece
Weizmann,
e,
soprattutto,
David
Ben
Gurion
–
capo
del
sionismo
socialista
e
futuro
leader
del
movimento
sionista
– ma
era
chiaro
che
dal
loro
punto
di
vista
si
trattava
solo
di
un
modo
per
gettare
le
basi
a un
futuro
negoziato.
Non
erano
certo
disposti
ad
accontentarsi
di
una
piccola
parte
della
Palestina.