N. 5 - Maggio 2008
(XXXVI)
I mezzi di repressione del fascismo
Il Confino di Polizia
di Michele Strazza
Nel 1926, nell’Italia Fascista, viene approvato il
nuovo Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza
(R.D. n.1848 del 06.11.26). L’emanazione era stata
preceduta, pochi mesi prima, dalla nomina a Capo
della Pubblica Sicurezza del Prefetto Arturo
Bocchini che grande parte ebbe nella
riorganizzazione dell’apparato repressivo del
Regime.
Il T.U.L.P.S. dedicava molto spazio alle misure di
prevenzione, strutturate come semplici fattispecie di
sospetto, funzionali alla repressione del dissenso
politico e dotate di maggiore effettività rispetto alla
disciplina repressiva della Legge Penale, sancendo
l’ampia applicazione, in nuova forma, di un istituto
giuridico già presente nell’Ordinamento: il Confino.
Secondo l’art 185 del T.U. il confino di polizia si
estendeva da uno a cinque anni e si scontava, con
l’obbligo del lavoro, in una colonia o in un comune del
Regno diverso dalla residenza del confinato.
Il
“domicilio coatto” era stato applicato, dopo l’Unità
d’Italia, per la prima volta all’interno della
legislazione del 1863 sul Brigantaggio (Legge n.1409 del
1863 c.d. Legge Pica), come provvedimento provvisorio e
di emergenza, ma non aveva dato grossi risultati.
L’istituto giuridico, tuttavia, venne introdotto
stabilmente nella legislazione ordinaria nel 1865, come
completamento logico dell’ammonizione, con l’emanazione
del primo Testo Unico di Pubblica Sicurezza ed esteso,
inizialmente, ai vagabondi recidivi, agli oziosi ed ai
sospetti di alcuni reati.
Rispetto alla precedente disciplina rimase il duplice
scopo di tutelare lo Stato contro i pericoli di
turbamento della sicurezza pubblica, allontanando dal
loro ambiente abituale persone che, per i loro
precedenti e la loro condotta, dimostravano persistente
tendenza a delinquere. La nuova misura, tuttavia, aveva
una netta differenza con il “domicilio coatto” che
andava a sostituire. A differenza di quest’ultimo,
infatti, poteva essere applicato immediatamente e non
solo a seguito di una trasgressione alle prescrizioni
dell’Autorità di P.S.
Tale misura di Polizia completava, pertanto, la funzione
punitiva dello Stato, non lasciando la società indifesa
contro coloro che, pur non incorrendo in specifiche
condanne per reati, presentavano, in sommo grado, una
pericolosità spesso più grave e più nociva di quella
derivante dalla consumazione di reati scoperti e puniti.
Per tale motivo, venne impiegata indiscriminatamente
contro tutti coloro che non sarebbe stato possibile
perseguire con i metodi propri della giustizia ordinaria
a causa della loro non provata reità.
Alcune volte, addirittura, essa venne usata per evitare
la celebrazione di processi, per reati di pertinenza
della magistratura ordinaria, a carico di persone note o
iscritte al Partito Fascista, onde evitare le
inevitabili ripercussioni sull’opinione pubblica.
Il
provvedimento era affidato alla facoltà discrezionale
della stessa Commissione Provinciale che emetteva le
ordinanze di ammonizione, composta dal Prefetto che la
convocava e presiedeva, dal Procuratore del Re, dal
Questore, dal Comandante Provinciale dell’Arma dei
Carabinieri e da un Ufficiale Superiore della Milizia
Fascista, designato dal comandante di zona; svolgeva le
funzioni di segretario un funzionario di Pubblica
Sicurezza (Artt. 186 e 168).
Non erano prescritte speciali formalità. La proposta di
confino veniva formulata dal Questore competente per
territorio, sulla base delle risultanze di polizia,
mentre era del tutto inesistente il diritto di difesa.
La situazione della persona proposta per il confino era,
da questo punto di vista, totalmente paradossale anche
rispetto agli imputati davanti al Tribunale Speciale che
usufruivano, invece, della presenza dell’avvocato
difensore. L’ordinanza emessa dalla Commissione
Provinciale per l’assegnazione al confino veniva poi
trasmessa al Ministero dell’Interno per la designazione
del luogo, diverso dalla residenza del confinato (Art.187
R.D. 06.11.26 n.1848).
Era anche previsto un ricorso, nel termine di 10 giorni
dalla notifica dell’ordinanza, alla Commissione di
Appello, istituita presso il Ministero dell’Interno,
composta dal Sottosegretario di Stato all’Interno, che
la convocava e presiedeva, dall’Avvocato Generale presso
la Corte di Appello di Roma, dal Capo della Polizia, da
un Ufficiale Generale dell’Arma dei Reali Carabinieri a
da un Ufficiale Generale della Milizia, designati dai
rispettivi comandi generali. Qualora il confinato si
fosse allontanato dal luogo di confino, sarebbe stato
punito con l’arresto da tre mesi a un anno (art. 193),
mentre in caso di buona condotta era prevista la
liberazione condizionale (art. 191).
Il
25 novembre 1926, con la Legge n.2008 (“Provvedimenti
per la Difesa dello Stato”), emanata come legge di
emergenza dopo l’attentato Zaniboni a Mussolini, veniva
istituito il Tribunale Speciale per la Difesa dello
Stato, composto da un presidente scelto tra gli
ufficiali dell’esercito, della marina, dell’aeronautica
e della milizia volontaria per la sicurezza nazionale,
dalla quale provenivano altri cinque giudici, ed un
relatore scelto tra il personale della Giustizia
Militare (Art.7 L. 2008/1926 e decreti di attuazione
R.D. 12.12.26 n.2062, R.D. 13.03.27 n.313 e R.D.
03.10.29 n.1759).
Il
Tribunale, il quale aveva competenza sui reati politici
introdotti dalla nuova normativa e per quelli contro la
sicurezza dello Stato, era, in definitiva, un vero e
proprio organo di giustizia politica che giudicava
secondo la procedura penale in tempo di guerra, con un
rito inquisitorio e ridotte garanzia difensive: una fase
istruttoria segreta senza patrocinio dell’avvocato, una
fase predibattimentale con possibile segretazione degli
atti processuali, obbligo del mandato di cattura,
impossibilità della libertà provvisoria, non
ricorribilità in Cassazione per le sentenze, inesistenza
di altri mezzi di impugnazione, ad eccezione della
revisione. Quest’ultima, peraltro, era affidata ad un
Consiglio di Revisione composto anch’esso da membri
scelti tra gli ufficiali dell’esercito e della milizia
fascista e presieduto dallo stesso presidente del
collegio di primo grado.
Con il nuovo Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 1931
(R.D. 18 giugno 1931 n.773, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n.146 del 26.06.1931) la disciplina delle
misure di prevenzione resta sostanzialmente immutata
rispetto al 1926, ma viene resa ancora più esplicita la
possibilità di ammonire gli avversari politici e
destinarli al confino.
Nel luglio del 1931 entra in vigore il nuovo codice
penale preparato da Alfredo Rocco e quello di procedura
penale. La contemporanea riforma carceraria (R.D.
18.06.1931 n.787) porta altresì ad un notevole
inasprimento punitivo. L’apparato legislativo repressivo
del Regime ha ormai assunto una forma definitiva ed il
confino è diventato il migliore strumento per la lotta
gli avversari politici. La genericità delle norme,
basate sulla prevalenza dei momenti soggettivi e
sganciate da una concreta pericolosità sociale,
consentirà un controllo del dissenso molto più
penetrante del ricorso ai delitti politici codificati.
Le
nuove leggi di P.S. permetteranno, inoltre, un forte
collegamento tra misure custodiali e misure di
prevenzione grazie alla possibilità dell’arresto
immediato delle persone proposte per l’assegnazione al
confino ed alla prassi di trattenere in carcere gli
imputati prosciolti del Tribunale Speciale, in attesa
della valutazione, da parte dell’Autorità di P.S., di
adottare o no provvedimenti di Polizia.
Fu
proprio il potere di arresto concesso alle Commissioni
Provinciali ad amplificare l’efficacia repressiva del
confino. Le vittime venivano tenute a lungo in carcere
prima che il loro destino fosse deciso. Ugualmente, i
prosciolti e assolti per insufficienza di prove che si
trovavano in stato di custodia cautelare spesso
passavano dalla galera fascista direttamente al confino.
Con la nuova misura, dunque, ai vecchi confinati comuni
(delinquenti, prostitute, mafiosi, ecc.) si aggiungono
ora tutti coloro che in qualche modo deviano dal “comune
sentire” fascista, dimostrando, anche solo vagamente, la
loro dissonanza con i valori della Nazione e con i suoi
simboli. Antifascisti veri o presunti, semplici
mormoratori, sospetti, tutti incappano nelle maglie di
questa sanzione che, per l’agilità della procedura e
l’ampia discrezionalità di irrogazione, diventa il mezzo
più veloce per eliminare soggetti pericolosi o soltanto
fastidiosi. A questi si aggiungeranno, con l’abbraccio
mortale della Germania e l’entrata in Guerra, gli
ebrei, gli zingari, gli irredentisti slavi e tutti i
nuovi oppositori politici.
In
realtà il confino verrà utilizzato moltissimo anche per
casi “marginali”, per soggetti cioè tutt’altro che
pericolosi, colpevoli soltanto di aver commesso piccoli
gesti di intolleranza, spesso perpetrati in stato di
ubriachezza, nei confronti dei simboli del Regime.
Saranno, infatti, numerosi coloro che verranno
giudicati dalle Commissioni Provinciali soltanto per
aver usato parole irriguardose nei confronti del
Governo, per aver “maltrattato” il ritratto del Duce o
per aver raccontato barzellette su Mussolini. Altre
volte si tratterà di soggetti, giudicati sovversivi”
soltanto per aver inneggiato in pubblico al Comunismo ed
alla Russia oppure per aver cantato “bandiera rossa”.
Anche la distinzione tradizionale tra confinati
politici e comuni non sarà mai troppo netta. L’ampia
discrezionalità nell’irrogazione della misura di Polizia
porterà spesso ad una confusione di tipologie, per cui
semplici truffatori verranno ritenuti pericolosi per
gli interessi economici dello Stato ed inviati al
confino come “politici”.
Sotto l’implacabile scure
del confino passò un numero altissimo di italiani. Con
nomi noti o sconosciuti, dal fior fiore
dell’antifascismo militante fino a semplici sfortunati
solo per aver pronunciato, in un momento d’ira,
invettive contro il Duce, tutti furono prima arrestati
e poi inviati in zone dove dovevano perdere il contatto
con il proprio retroterra, affinché fossero messi in
condizioni di non nuocere. Si trattò veramente di una
migrazione interna di vaste proporzioni che aveva come
unico obiettivo quello di ridurre al silenzio quanti si
opponevano all’unicità di pensiero del capo. Una vera e
propria “persecuzione di popolo”, dunque, ma, come ogni
persecuzione, essa fu anche la culla, per coloro che
continuarono a tenere duro, nella quale crebbe il senso
della democrazia e della tolleranza.
Riferimenti bibliografici:
AA.VV. Storia d’Italia,Vol IV, Einaudi Ed.,
Torino 1976.
Massara Katia, Il Popolo al Confino. La persecuzione
fascista in Puglia, Pubblicazioni degli Archivi di
Stato, Roma 1991.
Petrini Davide, Il sistema di prevenzione personale
tra controllo sociale ed emarginazione, in AA.VV.
“Storia d’Italia, Annali, La Criminalità”, Einaudi 1997.
Spriano Paolo, Storia del Partito comunista italiano.
Gli anni della clandestinità, Einaudi Ed., Torino
1969.
Strazza Michele, Melfi Terra di Confino. Il confino a
Melfi durante il Fascismo, Tarsia Editore, Melfi
2002. |