filosofia & religione
ITINERATIO
COME VITA
RIFLESSIONI ESISTENZIALI SULLA
CONCEZIONE KIERKEGAARDIANA DELLA RIPRESA
di Martina Piantoni
«Ciascuno di noi è completamente
isolato in se stesso, anche se tra noi
il legame è strettissimo. La vita intera
non è altro che un tentativo
ininterrotto di ritrovarci». Le
parole di Thomas Bernhard tratte da
Perturbamento, romanzo costellato da
feroce nichilismo che caratterizza tutta
la sua opera, fanno luce sul significato
imprescindibile della vita: un costante
ritornare a sé stessi.
A fronte di questo ritrovarsi, un
pensatore come Kierkegaard ha ancora
oggi un peso a dir poco rilevante circa
la condizione umana, in effetti il
filosofo danese riuscirà a restituirci
quella che è la realtà della vita
attraverso quel movimento della
riappropriazione di sé stessi.
Lo studio, usando le parole di
Kierkegaard, sarà un tentativo di
articolare quella categoria fondamentale
che è la Gjentagelsen,
all’interno dei tre stadi esistenziali.
Tentativo che verrà analizzato
attraverso quella condizione necessaria
di vitale importanza per ogni individuo
che è l’amore.
Si seguirà come file rouge il
testo La Ripresa, una narrazione
con impliciti riferimenti biografici.
L’anno prima della pubblicazione,
l’autore aveva rotto il fidanzamento con
Regine Olsen, evento di grande
rilevanza per la vita del pensatore; e
La Ripresa ne è il riflesso, “a
caldo”, e, al tempo stesso,
l’espressione di una ferma volontà di
superamento, nel senso specificatamente
kierkegaardiano del procedere
ricordando.
La ricerca ha l’intenzione di rilevare e
approfondire la categoria della ripresa
che, per mezzo dell’amore, attraverserà
tutti e tre gli stadi esistenziali:
dalla immediatezza estetica, alla
riflessione etica fino al paradosso
religioso.
Solo dopo diversi fallimenti e false
speranze, si raggiungerà il fine ultimo
del nostro percorso, un fine posto dal
nostro autore nella paradossale fede del
mistico, l’unico in grado di restituire
il disperato e il rassegnato alla sua
esistenza. Quel fine che ci permetterà
di riconoscere il vero significato della
ripresa in termini kierkegaardiani; un
significato che, come vedremo, sarà da
comprendere come una rinascita intesa in
senso cristiano grazie alla quale
l’uomo, perduto per il mondo, riottiene
sé stesso, come Giobbe davanti a Dio.
Nelle linee che seguono cercheremo di
presentare le caratteristiche generali
dei tre stadi usando il testo
Enten-eller, più consono
probabilmente alla trattazione, con lo
scopo di mantenere sempre quel file
rouge che ci siamo proposti di
affrontare.
Indichiamo prima in breve ciò che
risulta più rappresentativo nella
filosofia di Kierkegaard: il concetto di
stadio esistenziale. Il filosofo
è spesso conosciuto per aver
sintetizzato l’itinerario esistenziale
sotto forma di progresso tra stadi; ma
cosa è realmente questo stadio?
Uno stadio esistenziale è essenzialmente
una concezione di vita e dunque,
assumendo la realtà etica (decisione)
come realtà essenziale dell’esistente, è
l’unità del modo in cui un soggetto
determina le proprie scelte.
Seguendo le parole del filosofo, “tutte
le concezioni dell’esistenza si
classificano rispetto alla
determinazione dell’interiorizzazione
dialettica dell’individuo”, di
conseguenza si va assumendo questa
decisione come la realtà essenziale
dell’esistente. Kierkegaard determina
teoreticamente tre stadi dell’esistenza
ognuno dei quali ha una precisa modalità
di scelta: stadio estetico, stadio
etico e stadio religioso.
Queste dimensioni soggettive sono
racchiuse in un rapporto di
inclusione-esclusione del soggetto
diveniente, proprio in questo risiede il
significato della dialettica racchiusa
in una delle opere più conosciute del
filosofo: Enten-eller; in questo
caso non si tratta di scegliere tra uno
stadio e l’altro ma di scegliere il
proprio divenire soggettivo insieme a
tutte le conseguenze che la scelta
comporta.
Lo stadio estetico: una falsa ripresa
«La mia mente bolle come un mare
infuriato per le tempeste della
passione. Se qualcuno potesse scorgere
la mia anima in questo stato, gli
sembrerebbe un caicco che affonda con la
prua nel mare». Lo stadio estetico
rappresenta, se così possiamo dire, il
grado più basso di umanità, situato su
quella barca che affonda nel turbine
delle passioni, secondo l’autore la
grande massa degli uomini è ferma a
questo stadio.
Si può definire lo stadio estetico una
malattia spirituale: la subisce colui
che è privo di interiorità. L’esteta è
un uomo che porta dentro di sé una
“rottura interiore”, è un individuo
manchevole di un io e, consapevole o no,
si trova in uno stato di disperazione e
angoscia. Stando alle parole del
filosofo danese usate in uno dei suoi
ultimi scritti, segue in estrema sintesi
che “l’esistenza estetica è
essenzialmente godimento”. Da qui si
delinea la figura dell’esteta
immediato, che più prende forma nel
personaggio del Don Giovanni, presentato
da Kierkegaard in un saggio dedicato
alle opere liriche di Mozart. Il
seduttore immediato è l’uomo animale, il
suo amore non è fedele e la novità è
l’unica cosa che esso trova invitante e
seducente.
L’espressione più immediata del
desiderio è l’erotismo che può essere
tradotto solo mediante la musica,
l’unica in grado di esprimere la potenza
di questo desiderio erotico. Ciò che
rende l’esteta immediato così potente e
seducente è la forza del suo desiderio
con il quale la donna viene travolta,
infatti il desiderio ha una potenza
seduttiva e l’essere desiderati in
questo caso ha la capacità di
trasfigurare la persona sedotta. Il
desiderio è infinito e infinite sono le
ripetizioni di momenti finiti che per il
Don Giovanni si raffigurano nelle
svariate donne. Esso, dunque, è la
figura emblema dell’incarnazione della
genialità sensuale che si identifica con
la forza stessa del desiderio: è
desiderio desiderante.
La seconda figura che da prendere in
considerazione è quella dell’esteta
riflesso, che in comune all’esteta
immediato ha il godimento e la
seduzione, ma ciò non viene subito
consumato nell’immediatezza. Per
l’esteta riflesso, che meglio chiamiamo
seduttore, subentra in gioco un’opera di
seduzione; in lui esiste un metodo e un
ragionamento per possedere il desiderio
della donna scelta. Niente di carnale,
ma una tattica abile ed esperta, non più
la violenza della passione ma la
consapevolezza dell’arte del sedurre.
Questo particolare modo di agire è
descritto con sconvolgente e inevitabile
capacità introspettiva nel racconto
Diario di un seduttore. Per una
personalità estetica fedele a quella che
andiamo descrivendo, ovvero quella
dell’esteta riflesso, la massima
espressione della possibilità nel
rapporto umano è l’innamoramento,
infatti, in questo caso l’amato non si
trova ancora posseduto ma vi è
possibilità sotto forma di resistenza.
Johannes, protagonista dell’epistola,
girovagando al mercato nota una giovane
ragazza, Cordelia, e comincia a
vagheggiare con la propria immaginazione
le possibilità di un eventuale rapporto
con lei. Gli sviluppi che poi si
prospettano ai suoi occhi sono così
interessanti da convincerlo a
intraprendere una storia.
La sua storia però non è propriamente
una storia d’amore, ma una
sperimentazione: egli vuole toccare con
mano le diverse possibilità del rapporto
con la ragazza, osservare le sue
reazioni e godere di ogni singolo e
sorprendete dettaglio. Da qui capiamo
che l’esteta intraprende solo il
fidanzamento: esso lega e non lega.
Questa continua incertezza e
oscillazione rendono il rapporto, per il
seduttore, costantemente interessante e
imprevedibile.
Non a caso, anche in La ripresa,
il protagonista insieme a Costantin
Costantius, è un giovane innamorato.
Colto dal desiderio d’amore verso una
giovane ragazza, egli è condannato a
soffrire nel vivere la morte del suo
amore prima ancora di averlo vissuto. Il
sentimento infelice che lo lega
all’amata non ha alcuna aderenza alla
realtà perché, di fatto, la fanciulla
non era la sua amata (ma) «l’occasione
che risvegliava il suo fondo poetico e
faceva di lui un poeta. […] Era
penetrata in tutto il suo essere,
avrebbe vissuto in eterno nella sua
memoria».
Questo giovane frusta sé stesso per un
difetto d’astrazione, una continua
idealizzazione. Lui persevera a poetare
il reale che, anziché essere vissuto,
precipita nell’abisso dell’inconsistenza
perché il poeta incaglia nel ricordo,
dal momento che l’errore, l’equivoco di
fondo proprio del poeta risiede nel
porsi alla fine del proprio “salto” (tra
passato e presente), nonostante lui non
l’abbia ancora compiuto, intrappolato
com’è nel ricordare ciò che non è più.
La fanciulla apparentemente desiderata,
di cui il giovane era innamorato,
rappresentava semplicemente l’occasione
che risvegliava la sua ars poetica,
rendendolo così compositore.
Anche il secondo personaggio, nonché
voce narrante del libro, è arenato
esistenzialmente allo stadio estetico,
creandosi l’illusione di false
ripetizioni: egli intraprenderà un
viaggio a Berlino col tentativo di
verificare l’effettiva possibilità della
ripetizione, giungendo però alla
conclusione negativa che quel viaggio
intrapreso non si verificò identico a
quello intrapreso la prima volta. Questa
esperienza quindi si rivela un
fallimento nella conferma che sul piano
estetico ciò che è passato rimane nel
passato e chi tenta di tornare su i
propri passi nella speranza di ritrovare
la felicità nel punto in cui l’aveva
lasciata s’ingannerà e perderà sé stesso
lungo la strada.
L’esteta, dunque, è vittima di quel
voler incapsulare la fugacità
dell’esistenza nella gelida
artificiosità dell’istante, l’esteta è
colui che si lascia essere, lascia la
vita trascorrere senza prendere le
redini della sua propria esistenza
personale. Qualunque sia l’occasione,
come abbiamo visto, in cui si manifesta
questo attaccamento estetico alla
possibilità, l’esteta – riflesso o meno
– è burattino della propria
immediatezza.
L’unico che però ammetterà ciò che
abbiamo appena delineato è l’esteta
riflesso: «non sono dunque io il
padrone della mia vita!», «mi
manca insomma la pazienza di vivere. Non
posso vedere l’erba crescere, ma non
potendolo, non ho affatto desiderio di
guardarla».
Questo perenne attaccamento alla
possibilità si traduce nella paradossale
immobilità del desiderio: un desiderio
che costantemente si realizza e si
annulla che si afferma e si contraddice.
Un’oscillazione che distoglie
l’esistente dalla realtà, facendone di
essa una sola elegante ma vana chimera.
Lo stadio etico: una ripresa ostacolata
Attraversati da quella condizione di
noia e disperazione che caratterizza lo
stadio estetico, vediamo ora come nello
stadio etico ci sia invece una forte
presa di coscienza del proprio valore.
Per lo stadio etico la determinazione
personale fondamentale è la scelta,
nello specifico la scelta di sé stessi.
Sono proprio le parole del filosofo
danese a dirci: «che cosa si sceglie,
dunque? Si sceglie se stessi, non nella
propria immediatezza, non quali
quest’individuo contingente, ma si
sceglie se stessi nel proprio eterno
valore».
Questa scelta di sé stessi avviene
dentro di sé, proprio perché il fine
ultimo è solo che da ricercare dentro di
sé a differenza dell’uomo estetico che
lo cerca al di fuori. L’uomo etico
sviluppa il sé partendo da
quell’imperativo pratico socratico
conoscere sé stesso, di fatto
scegliere non significa crearsi, porsi,
ma significa entrare in rapporto con
qualcosa di già dato: «ciò che io
scelgo non lo pongo, perché qualora non
fosse posto non potrei sceglierlo, e
però qualora non lo ponessi grazie al
fatto che lo scelgo, non lo sceglierei.
Esso è, perché qualora non fosse non
potrei sceglierlo; esso non è, perché
viene ad essere solo grazie al fatto che
lo scelgo, e altrimenti la mia scelta
sarebbe un’illusione».
L’esito di questa scelta dunque è
l’autentica appropriazione di sé stessi
che come ultimo in assoluto si rivela
essere la libertà. Per l’uomo etico la
massima manifestazione della libertà e
del dovere, il quale è espressione
concreta della scelta, si configura nel
matrimonio. Kierkegaard dedica un
intero saggio – Validità estetica del
matrimonio – per mostrare
l’importanza di questo rapporto etico:
un rapporto vivo, vivificante. Il
matrimonio, osserva l’autore, si fonda
su un amore radicalmente diverso dalla
sensualità, quest’amore non è segnato
dall’immediatezza ma bensì dalla
libertà; un amore dettato da una
volizione, ossia da quella scelta che
caratterizza dal principio l’uomo etico.
L’obiettivo di tutte le determinazioni
etiche è di realizzare nel concreto ciò
che è umano, la realizzazione dell’uomo
comune, a differenza dell’esteta che
vedeva il compimento nella
straordinarietà. Questa realizzazione è
sottoposta alla propria azione, al
proprio agire – realizzabile da chiunque
– e non soggiace a una dialettica
esterna. Dunque, domandiamoci se per
l’uomo etico l’unica cosa possibile e
doverosa è quella di mantenere ferma la
propria scelta e la propria azione di
fronte a qualunque pericolo? Ebbene sì,
lo stadio etico è interamente
concentrato sull’atto della scelta: «nello
scegliere non importa tanto di scegliere
ciò che è giusto, quanto l’energia, la
serietà e il pathos con cui si sceglie».
Per lo stadio etico il cambiamento della
scelta sta nella ripetizione di essa.
Soltanto ribadendo la scelta, la
personalità può effettivamente stare
scegliendo e, in questo modo,
riaffermare e potenziare la scelta
tramite ripresa. Infatti per l’etico la
ripetizione non consiste nella banale
replica del medesimo atto, ancora e
ancora, quanto piuttosto nel
miglioramento e nel progresso che è
possibile apportare a una scelta quando
essa viene ripresa, ribadita, migliorata
e costruita.
La ripresa incomincia a prendere forma
proprio nell’uomo etico, poiché essa
implica volontà, azione e intervento
attivo, parole d’ordine della concezione
etica, notiamo sin da subito come questa
categoria marchi il confine tra i due
stadi esistenziali, estetico ed etico.
Proprio nel matrimonio si rappresenta la
ripresa, che lega passato e futuro
conferendo una continuità a una storia
che sarebbe frammentaria; non è un
semplice accadere, il matrimonio
conferisce una storia al primo amore.
Nonostante il matrimonio possa così
sembrare l’emblema e la sintesi
dell’uomo etico, vediamo come esso –
l’uomo etico – si possa auto ingannare
nel tentativo eroico di vivere
l’eternità nel tempo e quindi di calare
l’infinito nel finito. Giunti però a
questo punto si potrebbe dire che l’uomo
etico abbia la vittoria in pugno,
appunto perché l’importante era giungere
a quella scelta, ma se non fosse così?
Il dubbio risiede nel come si fa a
scegliere tra il bene il male, nel come
si fa a scegliere quel bene supremo.
L’uomo etico di fronte a questa domanda
non sa rispondere, la sua conquista
pertanto è solo temporanea. Messa di
fronte all’esigenza religiosa anche la
sua labile vittoria impallidisce e le
sue risposte non hanno più quel
significato certo: esse sono incerte.
Lo stadio religioso: una ripresa come
vita
L’uomo ora vacilla in quell’incertezza
radicale e concreta, un’incertezza che
dunque lo rende incerto di quelle
possibilità astratte ma soprattutto
incerto delle proprie possibilità, della
propria realtà, in breve, di sé stesso.
A questo punto, quando qualunque azione
perde completamente di significato,
entra in gioco un’esigenza religiosa,
che si traduce in quell’esigenza di
basarsi su qualcosa nell’incertezza più
totale.
Questa esigenza risulta essere una
contraddizione assoluta, che nondimeno
si traduce in quella forma essenziale
dell’edificante che, seguendo le
parole del filosofo: «è il predicato
essenziale di ogni religiosità».
Solo in questa dialettica continua di
certezza e incertezza è possibile
comprendere il religioso, dunque la fede
è certezza nell’incertezza: un’azione
sotto forma di determinazione dialettica
che rapporta continuamente i
contradditori.
Il compito dell’individuo religioso è
quello di abbandonare totalmente il
proprio sé immediato per riuscire a
rapportarsi concretamente al fondamento
assoluto, a Dio. È un rapporto che si
concretizza nell’interiorità e non ha
nessuna espressione nell’esteriorità: la
dialettica del religioso autentica
“appartiene all’interiorità, e non si
deve esprimere nell’esteriore”.
Dopo il primo salto compiuto dalla sfera
estetica a quella etica, si compie qui
il secondo e ultimo salto nella sfera
religiosa che rende possibile la
rinascita dell’uomo, proclamando dunque
una rottura definitiva con i primi due
stadi.
Notiamo ora come il concetto di
ripresa acquisti qui la sua forma
più assoluta, perché è proprio
attraverso essa – la ripresa – che la
libertà dell’individuo spinge sé stessa
dal piano del non essere (da ciò che non
c’è più) a quello dell’essere, dalla non
verità alla verità: di accedere cioè
alla dimensione della trascendenza.
Come avevamo già detto all’inizio, il
testo La ripresa, è suddiviso in
due parti, ed è proprio nella seconda
parte la definitiva interpretazione
religiosa. Avevamo lasciato uno dei
protagonisti, Costantin, alla fine del
suo viaggio a Berlino, un viaggio
compiuto con la speranza di scoprire il
significato vero della ripresa anche se
alla fine sarà lui stesso ad affermare
che la ripresa non è possibile attuarla
sul piano estetico. Si conferma qui la
possibilità di parlare della ripresa,
solo sul piano religioso, questa sarà
testimoniata attraverso la lettura del
libro di Giobbe compiuta dal giovane
poeta, in forma epistolare.
Ma procediamo con ordine, prima di tutto
giunti a questo punto cerchiamo di
delineare le coordinate precise del
significato della ripresa, seguendo le
parole del nostro filosofo. Già dalle
prime righe, l’autore, con lo pseudonimo
di Costantin, si esprime, affermando: «Ditene
quel che volete, questo problema verrà a
giocare un ruolo assai importante nella
filosofia moderna, dacché ripetizione è
un termine risolutivo per ciò che fu
‘reminiscenza’ presso i Greci. Come
dunque costoro insegnarono che ogni
conoscere è un ricordare, così la
filosofia nuova insegnerà che la vita
intera è una ripetizione. L’unico
filosofo moderno ad averlo intuito, è
Leibniz. Ripetizione e ricordo sono lo
stesso movimento, tranne che in senso
opposto: l’oggetto del ricordo infatti è
stato, viene ripetuto all’indietro,
laddove la ripetizione propriamente
detta ricorda il suo oggetto in avanti».
Risulta che il concetto di ripresa è
quel costante rinnovamento della vita,
il momento più peculiare ha luogo quando
il vecchio si rivela nel nuovo, quando
il movimento stesso si rivela in avanti,
e non permane confinato nel passato. Nel
ricordo, il passato è privo di
consistenza in quanto risulta slegato
dal flusso vibrante dell’esistenza.
Nella ripresa invece c’è un irrompere
del nuovo che spezza il piano immanente
del ricordo per aprire al passato una
dimensione altra che si traduce nella
continuità della vita.
Ne consegue che solo l’uomo capace di
eseguire il movimento dialettico della
ripresa, ossia il procedere ricordando,
può vivere una vita realizzata; chi si
ritrova a trattenere il disporre della
propria vita ottiene come risultato
ultimo la perdita di essa, di una vita,
che possiamo definire, mancata. La
scoperta centrale nella ripresa non la
si ha nel tempo, dove è possibile solo
la redintegratio in statum pristinum
della personalità, ma bensì
nell’eternità, perché è proprio qui che
vengono restituiti i beni perduti: quel
che è stato, sarà.
La riflessione svolta dal nostro autore
circa la figura biblica di Giobbe,
spalanca al giovane poeta un orizzonte
inatteso; l’ultima parte dell’opera si
compone di lettere scritte dal giovane
poeta attraverso la lettura del libro
biblico. Il giovane, oramai disperato,
trova conforto in questa figura
peculiare, si rispecchia nell’afflitto
Giobbe, che giunto al culmine della
sofferenza, dove tutti i beni erano
perduti, persino i figli, resta fermo
verso l’amore per Dio.
Giobbe però possiede quel coraggio –
categoria fondamentale per compiere la
vera ripresa – di discutere con Lui
capendo che tutto quello che gli stava
accadendo non era una semplice
punizione, ma piuttosto una prova,
dove il giusto risulta tale, non tanto
nella situazione di benessere, quanto
nel momento del più atroce dolore.
Esattamente in questo attimo in cui
tutte le certezze e le probabilità
umanamente concepibili si dimostrano
impossibili, e dove “con ciò svanisce
progressivamente la speranza, in quanto
la realtà, ben lungi dall’intenerirsi,
depone invece conclusioni sempre più
dure a suo”, nell’immediato tutto sembra
perduto, ma Giobbe ritrova i beni
perduti, tutto gli viene restituito
raddoppiato, i servi, gli armenti, i
monili e le monete, soltanto i figli non
ritroverà.
Quello che è stato appena descritto è il
movimento della vera ripresa, che
soltanto nell’eternità possiamo
attenderci. Nella prospettiva cristiana
le cose non possono tornare identiche a
sé stesse nel piano del finito, ovvero
nelle medesime condizioni
spazio-temporali; possono, però
ritornare sul piano dell’assoluto
mediante quel movimento volontario reso
possibile in forza del religioso.
Grazie alla lettura del libro di Giobbe,
il giovane poeta, dopo aver scoperto che
la dolce amata, nonché sua musa poetica,
si era sposata, urla esultando “sono di
nuovo me stesso – le macchine sono in
moto”. A questo punto l’acconto
essenziale della ripresa è quello del
possesso di sé stessi, perché essa “è il
pane quotidiano che nutre in
abbondanza”, essa è la realtà della
vita. Dicendo dunque che la vita è una
Gjentagelsen si intende affermare
che l’esistenza com’è esistita, viene a
esistere ora, dando sfoggio di tutta la
sua pienezza in rapporto con l’assoluto.
«La speranza è un vestito nuovo
fiammante, tutto liscio e inamidato, ma
non lo si è mai provato, per cui non si
sa come starà o come cascherà. Il
ricordo è un vestito smesso che, per
quanto bello, però non va perché non
entra più. La ripetizione è un vestito
indistruttibile che calza giusto e
dolcemente, senza stringere né ballare
addosso. La speranza è una donzella
leggiadra che sguscia via tra le dita;
il ricordo una donna anziana, bella sì,
ma mai soddisfacente alla bisogna; la
ripetizione una compagna amata di cui
non ci si stanca mai, siccome è solo il
nuovo ad annoiare. Il vecchio non annoia
mai, e la presenza sua rende felici, e
felice davvero sarà soltanto chi non
inganna sé stesso fantasticando che la
ripetizione debba essere una novità,
poiché allora verrebbe a noi».
Riavvolgendo ora il nostro file rouge
che abbiamo cercato di sgrovigliare
durante il cammino dei tre stadi
esistenziali, in prima battuta possiamo
affermare come il significato dell’amore
sia affrontato da Kierkegaard non in
termini puramente astratti e filosofici,
ma egli descrive l’amore nelle sue
diverse forme, alle quali corrisponde un
diverso modo di amare. Un amore che a
nostro avviso prende la sua forma più
vera solo nell’animo religioso, l’unico
capace di realizzare quell’esistenza
autentica che si traduce in pensiero
incarnato.
La riflessione poi, ci ha portato ad
affrontare una delle categorie
fondamentali dell’autore, quella della
ripresa, una categoria che prende piena
attuazione solo in virtù dell’assoluto.
Nel percorso si è visto come la ripresa
sia presente in tutti gli stadi del
cammino della vita, ma solo alla fine
essa, attraverso un atto di libera
volontà, avrà il suo trampolino di
lancio verso quella dimensione di
certezza nell’incertezza.
In un certo senso possiamo affermare che
l’autore ha scartato l’idea di ritorno
all’uguale ancor prima che un grande
pensatore come Nietzsche la mettesse al
centro della sua dottrina dell’Eterno
ritorno. Questa viene scartata sia
per ragione di ordine logico ma sia per
ragione di ordine etico, i due aspetti
troveranno, come abbiamo ben visto, il
punto di contro solo in quella
dimensione trascendentale. La categoria
della ripresa si rivela così centrale
nell’uomo perché essa rappresenta quella
che è la vita, la realtà della vita
stessa.
Riprendendo ora le ultime parole del
filosofo, possiamo dire che un rapporto
basato esclusivamente sul rimpianto è
tanto fallimentare quanto un rapporto
basato sulla eterna speranza nel futuro,
questi sono tutte e due modi diversi di
fuggire davanti alla stessa
responsabilità: quella del presente.
La nostra vita è qui e ora, ma non si
esaurisce nel qui e nell’ora. Solo
raggiungendo quella dimensione
dell’assoluto ritroverà la sua natura
essenziale, che dicendola con
Kierkegaard è quella sintesi tra
infinito e finito, eterno e temporale.
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Mimisk-pathetisk-dialektisk sammenskrift,
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