N. 34 - Ottobre 2010
(LXV)
La minoranza che cercò di fermare il Concilio Vaticano II
l’opposizione conservatrice
di Roberto Rota
L’11
ottobre
del
1962
si
apre,
a
Roma,
il
Concilio
Vaticano
II.
Solo
alcuni
anni
prima
pochi
avrebbero
potuto
immaginare
la
possibilità
di
un
concilio
e
tantomeno
la
partecipazione
così
ampia
non
solo
del
mondo
cattolico,
ma
dell’intera
famiglia
cristiana
e
dell’opinione
pubblica
mondiale.
Le
ragioni
della
sorpresa
devono
leggersi
nella
modalità
della
convocazione
del
concilio,
caso
sui
generis
rispetto
alla
tradizione
conciliare.
Prima
di
tutto
non
vi
era
nella
chiesa
nessuna
crisi
in
atto
che
giustificasse
la
riunione
di
tutti
i
vescovi
della
terra
(si
pensi
invece
al
Concilio
di
Trento
riunitosi
per
rispondere
alla
grande
minaccia
e
sfida
della
riforma,
oppure
al
Vaticano
I
che
si
tenne
sotto
i
colpi
di
cannone
delle
vicende
dell’unità
d’Italia)
e
d’altronde
esso
non
fu
frutto
della
volontà
generale
della
chiesa
ma
dell’intuizione
e
della
sensibilità
di
un
uomo
fino
a
quel
momento
sottovalutato:
il
papa
Giovanni
XXIII.
È
proprio
dalla
preoccupazione
del
pontefice
di
fronte
ad
un
mondo
che
nella
sua
modernità
sfuggiva
alla
riflessione
e
all’attenzione
della
chiesa
che
nasce
l’idea
del
concilio.
Decisone
personale
di
un
pontefice
che
era
da
molti
considerato
solo
di
“transizione”,
un
“papa
buono”
attento
alla
pastorale
ma
distante
dalla
speculazione
teologica.
Il
25
gennaio
1959,
quindi
solo
pochi
mesi
dopo
la
salita
al
soglio
pontificio
(28
ottobre
1958),
nella
Basilica
di
San
Paolo
fuori
le
Mura,
Giovanni
XXIII
annuncia
le
sue
intenzioni,
ma
in
verità
gli
scopi
del
concilio
non
sono
per
nulla
definiti.
In
ogni
caso
la
preoccupazione
della
Curia
Romana
è
notevole,
in
particolare
il
Segretario
di
Stato
Tardini
cercherà
in
ogni
modo
di
ritardare
la
preparazione
di
un
evento
che
avrebbe
potuto
sottrarre
alla
curia
tutto
il
suo
potere,
rafforzatosi
particolarmente
dopo
il
Vaticano
I.
Solo
dopo
la
morte
di
Tardini
(1961)
i
lavori
potranno
proseguire
ma
il
suo
posto,
quale
capo
dei
“conservatori”,
sarà
preso
dal
Card.
Ottaviani,
Prefetto
del
Sant’Uffizio
(oggi
Congregazione
per
la
Dottrina
della
Fede),
il
quale
a
differenza
del
Segretario
di
Stato
non
cercherà
di
rallentare
i
lavori
ma
di
assumere
il
controllo
nelle
commissioni
conciliari
che
avrebbero
dovuto
creare
i
documenti
da
sottoporre
all’assemblea
(altri
esponenti
di
questa
minoranza
erano
il
vescovo
di
Segni,
mons.
Carli;
il
superiore
degli
spiritani
M.
Lefebvre;
il
Coetus
Internationalis
Patrum
capeggiato
dal
vescovo
brasiliano
Sigaud,
e da
mons.
Staffa
dell’Università
Lateranense;
l’arcivescovo
di
Genova
Siri
e il
card.
Ruffini).
La
cosiddetta
minoranza
conciliare
era
l’insieme
di
tutti
quei
padri
che
volevano
una
conservazione
della
tradizione
ecclesiastica.
In
particolare
erano
preoccupati
di
conservare
il
deposito
della
fede
nella
sua
interezza,
opponendosi
a
ogni
apertura
a
quelli
che
reputavano
i
maggiori
mali
della
modernità:
marxismo,
evoluzionismo,
relativismo
e
ateismo.
Poiché
molti
padri
di
questa
minoranza
non
avevano
una
profonda
conoscenza
storica,
non
si
resero
conto
che
le
posizione
che
essi
difendevano
erano
quelle
giuridiche,
nozionistiche
e
dogmatiche
create
a
Trento
e
nel
Vaticano
I e
non
quelle
delle
Sacre
Scritture.
Paradossalmente
la
maggioranza
conciliare,
che
difendeva
l’ecumenismo,
l’apertura
al
mondo
contemporaneo,
il
rinnovamento
della
liturgia
e
dell’esegesi,
non
era
il
gruppo
più
“moderno”
ma
era
quello
che,
ispirandosi
alle
Scritture
e ai
Padri
della
Chiesa,
si
richiamava
al
vero
messaggio
evangelico.
Il 5
giugno
1960
con
il
motu
proprio
Superno
Dei
nutu
il
pontefice
istituisce
10
Commissioni
pre-conciliari
e 2
Segretariati
i
quali
avrebbero
dovuto
ideare
i
documenti
che
poi
l’assemblea
conciliare
avrebbe
votato.
L’idea
della
Curia
romana
era
quella
di
monopolizzare
queste
commissioni
per
far
si
che
l’assemblea,
poi,
avrebbe
dovuto
semplicemente
(senza
discussioni
o
emendamenti)
approvare
i
propri
documenti.
Infatti,
la
composizione
delle
commissioni
era
abbastanza
ambigua,
in
quanto
i
vari
presidenti
erano
gli
Cardinal
Prefetti
delle
corrispondenti
Congregazioni
Vaticane
i
quali
potevano
scegliere
anche
i
propri
vicepresidenti
e i
propri
segretari.
Ottaviani
e la
Curia
romana
avevano
il
completo
controllo.
Il
primo
“attacco”
avviene
ancor
prima
dell’apertura
del
concilio
in
quanto
il
22
febbraio
1962
il
pontefice
promulga
la
costituzione
apostolica
Veterum
Sapientia
sulla
difesa
del
latino
all’interno
dei
seminari.
Il
testo
è
abbastanza
ambiguo
in
quanto
non
corrisponde
alle
preoccupazioni
e
agli
interessi
del
pontefice,
in
quale,
invece,
aperto
al
dialogo
anche
a
causa
della
sua
esperienza
come
delegato
apostolico
in
Bulgaria
(poi
anche
in
Grecia
e
Turchia),
è
ben
attento
alle
questioni
ecumeniche.
In
verità
un’analisi
attenta
del
testo
(grazie
alla
linguistica
computazionale)
ci
dimostra
che
esso
non
è
frutto
della
penna
del
pontefice
ma
bensì
di
pressioni
esterne.
Si
tratta
proprio
di
quella
fazione
conservatrice
che
vedeva
nel
latino
un
simbolo
di
quella
chiesa
autosufficiente
sanzionata
dal
Vaticano
I;
il
latino,
quindi,
non
era
il
simbolo
della
tradizione
ma
il
simbolo
dell’uniformità
tridentina
e di
quell’immagine
monolitica
della
chiesa
quale
societas
perfecta.
La
costituzione
sul
latino
nei
seminari
voleva
essere
un
monito
affinché
le
cose
non
cambiassero,
una
specie
di
pressione
sui
padri
conciliari,
ma
in
verità
pochi
ne
tennero
conto
e
rimase
un
semplice
documento
sull’insegnamento
del
latino
(per
inciso,
un
ulteriore
prova
dell’estraneità
del
documento
rispetto
alla
sensibilità
roncalliana
è
data
dal
fatto
che
lo
stesso
giorno
della
pubblicazione
della
costituzione
il
pontefice
pronuncerà
il
famoso
discorso
ai
parroci
e
predicatori
quaresimali
sul
fatto
che
tutte
le
lingue
sono
rappresentate
nella
chiesa).
L’11
ottobre
finalmente
il
concilio
si
apre,
i
padri
conciliari
sono
2381.
Nel
discorso
d’apertura
Gaudet
mater
ecclesia
il
pontefice
sottolinea,
tra
l’altro,
quelli
che
saranno
i
due
grandi
obiettivi
del
concilio:
l’ecumenismo
(aperto
non
solo
alla
religione
cristiana
ma a
tutti
gli
uomini),
e
l’aggiornamento
(nel
senso
non
di
riforma
ma
di
continua
ricerca,
cioè
di
apertura
al
mondo
moderno,
di
adattamento
del
messaggio
evangelico
alla
realtà
contemporanea
in
quanto
sebbene
la
sostanza
della
verità
salvifica
non
cambiasse
la
maniera
in
cui
questa
verità
veniva
presentata
doveva
essere
necessariamente
adattata
ai
tempi
per
essere
più
efficace).
Mi
propongo
di
esporre
solo
alcuni
dei
fatti
più
eclatanti
in
cui
si
espresse
la
fazione
conservatrice
senza
scendere
nel
particolare
delle
procedure
e
dei
lavori
conciliari
che,
per
la
loro
complessità,
richiederebbero
una
delucidazione
specifica.
Il
concilio,
che
si
chiuderà
l’8
dicembre
1965,
divide
i
suoi
lavori
in 4
sessioni
di
lavoro
corrispondenti
agli
autunni
dei
rispettivi
anni:
Prima
Sessione:
12
ottobre
– 8
dicembre
1962;
Seconda
Sessione:
29
settembre
– 4
dicembre
1963;
Terza
Sessione:
14
settembre
– 21
novembre
1964;
Quarta
Sessione:
14
settembre
– 7
dicembre
1965.
Durante
la
prima
sessione
si
discusse,
tra
gli
altri,
il
documento
sulla
Rivelazione
(De
Fontibus
Revelationis),
creato
dalla
Commissione
Teologia
di
Ottaviani.
Questo
testo
non
riconosceva
le
ultime
ricerche
in
campo
teologico
né
accettava
una
discussione
sul
tema,
esso
rappresentava
semplicemente
la
canonizzazione
del
punto
di
vista
dell’Accademia
Teologia
Romana
(e
dell’Università
Lateranense)
che
ci
presentava
la
rivelazione
quale
insieme
nozionistico
e
dogmatico
così
com’era
stato
presentato
dal
Vaticano
I.
In
particolare
il
Vaticano
I
superando
la
prospettiva
di
Trento
secondo
cui
tutta
la
verità
salvifica
e la
disciplina
morale
sono
contenute
nel
Vangelo
affermava
che
la
rivelazione
è
contenuta
nella
tradizione
della
chiesa
e
nelle
sacre
scritture
dando,
quindi,
un
carattere
dualistico
alla
parola
di
Dio.
Questa
prospettiva
(nozionistica
e
dualistica)
non
era
condivisa
dai
padri
conciliari
i
quali
avevano
una
visione
della
rivelazione
più
incentrata
sull’esperienza
di
cristo
e
sulla
libertà
umana
di
far
propria
questa
esperienza,
sul
carattere
unitario
della
rivelazione
(tradizione
e
scritture
hanno
una
stessa
origine:
la
Parola
di
Dio),
e
sulla
possibilità
di
usare
strumenti
filologici
(Redaktionsgeschichte
e
Formgeschichte)
nella
ricerca
esegetica
sulle
scritture.
Nel
momento
in
cui
il
testo
doveva
essere
votato
(ogni
approvazione
richiedeva,
secondo
il
regolamento
conciliare,
una
maggioranza
di
2/3)
la
domanda
da
porre
ai
padri
conciliari
fu
formulata
in
maniera
ambigua
in
quanto
non
chiedeva
“approvate
il
testo
proposto?”
ma
bensì
“approvate
che
il
testo
sia
rinviato
in
commissione
per
la
revisione?”;
se
nel
primo
cosa
c’era
bisogno
dei
2/3
dei
voti
per
far
passare
il
testo
(cosa
impossibile
in
quanto
la
minoranza
conservatrice
non
disponeva
di
questo
consenso)
nel
secondo
caso
ne
bastavano
1/3
per
bloccare
il
ritorno
in
commissione
dello
stesso
e
quindi,
di
fatto,
approvare
il
testo
della
minoranza.
In
effetti
lo
stratagemma
riuscì
(i
padri
non
raggiunsero
per
un
centinaio
di
voti
i
2/3
) e
fu
solo
grazie
all’intervento
di
Giovanni
XXIII
che
la
vittoria
della
minoranza
non
fu
totale,
infatti,
il
pontefice
creò
una
Commissione
mista
(Commissione
teologia
insieme
al
Segretariato
per
l’unione
dei
cristiani)
che
avrebbe
dovuto
rivedere
il
testo.
La
vittoria
era
sfumata
solo
per
un
intervento
extra-conciliare
del
Papa
che
non
poteva
essere
posto
in
discussione.
Un
nuovo
“attacco”
si
ebbe
nel
corso
della
seconda
sessione,
durante
la
discussione
sul
testo
concernente
la
Chiesa
(De
Ecclesia).
Il
testo
era
uno
dei
più
importanti
del
concilio
poiché
si
affrontavano
in
esso
due
temi
scottanti:
il
diaconato
permanente
e la
collegialità
episcopale.
Sebbene
il
testo
trovasse
un
largo
consenso
durante
la
votazione
generale,
il
problema
era
che
molti
furono
gli
emendamenti
proposti
per
migliorarlo.
Se
alcuni
di
questi
rappresentavano
la
volontà
di
molti
padri
conciliari,
altri
erano
approvati
solo
da
pochi.
Era
necessario
conoscere
la
vera
volontà
dell’assemblea
per
poter
approvare
gli
emendamenti
giusti
e
più
condivisi.
A
questo
proposito
Dossetti
(consigliere
del
card.
Lercaro
vescovo
di
Bologna),
personaggio
straordinariamente
competente
circa
le
vicende
conciliari
(aveva
fatto
parte
della
Costituente
italiana),
propose
di
sottoporre
alla
commissione
4
quesiti
per
conoscere
la
volontà
conciliare.
Il
15
ottobre
il
card.
Suenens
(arcivescovo
di
Bruxelles)
annunciò
la
prossima
votazione
dei
quesiti,
solo
a
questo
punto
la
minoranza
si
mosse
preoccupata
dal
fatto
che
i
quesiti
avrebbero
dimostrato
palesemente
quale
fosse
la
volontà
dell’assemblea.
Il
Segretario
di
Stato
card.
Cicognani
(anche
presidente
della
Commissione
Di
Coordinamento)
e il
Segretario
Generale
del
Concilio,
mons.
Felici,
fecero
pressioni
sul
pontefice
Paolo
VI
(Giovanni
XXIII
era
scomparso
il 2
giugno
1963)
il
quale,
preoccupato
di
far
approvare
un
testo
condiviso
dalla
maggior
parte
dei
padri,
e
quindi
anche
dalla
minoranza,
bloccò
l’iniziativa
di
Dossetti.
In
verità
ben
più
profonde
erano
le
preoccupazioni
dello
stesso
pontefice
il
quale,
a
differenza
del
suo
predecessore,
era
più
moderato
e
soprattutto
rigoroso
circa
testi
che
avrebbero
potuto
avere
interpretazioni
ambigue.
La
Curia,
conoscendo
le
esitazioni
del
pontefice,
non
esitava
nel
suscitare
le
sue
inquietudini.
Fu
solo
l’intervento
dei
Moderatori
(nuovo
organo
creato
dallo
stesso
Paolo
VI)
e
soprattutto
il
famoso
discorso
di
Suenens
nella
celebrazione
della
salita
al
soglio
pontificio
di
Giovanni
XXIII
(28
ottobre)
che
convinsero
il
pontefice
a
creare
una
Commissione
d’Arbitrato
la
quale,
per
un
solo
voto,
accettò
i
quesiti.
Questa
volta
la
minoranza
aveva
perso,
infatti,
i
quesiti
dimostrarono
la
debolezza
delle
loro
posizioni.
Ma
la
loro
reazione
non
si
fece
attendere
e fu
particolarmente
forte
durante
la
terza
sessione.
Il
14
settembre
1964
si
apre,
in
una
grande
euforia,
la
terza
sessione.
Molti
speravano
che
si
trattasse
dell’ultima
ma i
lavori
conciliari
dovettero
subito
arrestarsi
dinanzi
all’analisi
del
testo
sui
vescovi.
In
particolare
il
voto
dei
quesiti
di
Dossetti
aveva
dimostrato
il
grande
consenso
che
la
questione
della
collegialità
aveva
tra
i
vescovi,
ma
la
minoranza
non
poteva
accettare
la
messa
in
discussione
dell’infallibilità
papale
e
della
sua
piena
podestà
sulla
chiesa
(e
quindi
anche
il
potere
della
curia).
All’ultimo
momento
dal
testo
presentato
fu
eliminata
la
dicitura
plena
potestas
circa
il
collegio
episcopale
e
quindi,
grazie
soprattutto
all’intervento
del
Collegio
Belga
il
testo
non
fu
approvato.
Era
chiaro
che
la
terza
sessione
non
sarebbe
stata
l’ultima.
La
terza
sessione
doveva
concludersi
con
la
cosiddetta
“Settimana
Nera
“
che
rappresento
la
più
forte
imposizione
della
minoranza
conciliare.
I
primi
problemi
si
ebbero
circa
il
testo
sulla
chiesa.
Per
smorzare
la
potenzialità
del
capitolo
III
sulla
collegialità
episcopale
il
pontefice
impose
la
Nota
Explicativa
Praevia
(il
16
novembre)
cioè
una
spiegazione
delle
modalità
adottate
per
l’inserimento
degli
emendamenti
della
minoranza.
In
pratica
si
evidenziavano
limiti
dell’autorità
del
collegio
episcopale.
In
particolare
si
sottolineava
che
il
concetto
di
collegialità
non
implicasse
un’uguaglianza
tra
i
vescovi
e il
pontefice
e
anche
se
si
sottolineava
il
carattere
sacramentale
del
titolo
di
vescovo
si
ribadiva
che
questo
titolo
conferisse
solo
poteri
d’ordine
(circa
le
funzioni
sacre)
ma
non
poteri
giuridici
(di
azione)
i
quali
dovevano
essere
conferiti
giuridicamente
e
canonicamente
dall’autorità
gerarchica.
Inoltre
la
nota
sottolineava
che
il
pontefice
aveva
tutta
una
serie
di
poteri
che
i
vescovi
e la
loro
collegialità
non
potevano
avere
e
che
il
suo
potere
può
essere
esercitato
in
qualsiasi
momento
(così
non
è
per
il
collegio
episcopale).
Sebbene
la
nota
non
cambiasse
nella
sostanza
il
testo,
essa
fu
una
vittoria
di
Ruffini
e
Ottaviani
perché
metteva
in
risalto
il
carattere
limitato,
di
compromesso,
del
testo,
inoltre
la
preoccupazione
di
non
sminuire
l’autorità
del
Papa
portò
alla
ripetizione
(più
di
40
volte)
nel
testo
del
fatto
che
i
vescovi
avevano
autorità
non
solo
cum
Petro
ma
anche
e
soprattutto
sub
Petro.
Una
seconda
discussione
si
accese
circa
il
testo
sulla
libertà
religiosa.
Il
documento,
creato
da
mons.
Pavan
e da
mons.
Murray
sottolineava
il
fatto
che
le
società
civili
non
possono
imporre
una
religione
come
premessa
per
accedere
ai
diritti
civili,
invece
Ottaviani
sosteneva
che
in
quegli
stati
in
cui
la
religione
cattolica
fosse
stata
maggioritaria,
solo
questa
doveva
essere
protetta
dallo
stato,
invece
in
quelli
dove
fosse
stata
minoritaria
si
richiamava
al
diritto
dell’uguaglianza
di
tutte
le
sette.
A
detta
di
Ottaviani:
due
pesi
e
due
misure,
uno
per
la
verità
e
uno
per
l’errore.
In
verità
lo
scontro
era
ben
più
profondo:
da
una
parte
si
partiva
dal
presupposto
imprescindibile
secondo
cui
la
Verità
fosse
solo
nella
religione
cattolica,
dall’altra
parte
si
partiva
dalla
persona
umana
e
dai
suoi
diritti
fondamentali,
tra
i
quali,
per
l’appunto,
la
possibilità
di
accedere
liberamente
alla
verità
riconosciuta
dalla
coscienza.
Sotto
la
pressione
della
minoranza
fu
creata
una
commissione
per
riesaminare
il
testo,
i
membri
di
questo
gruppo,
però,
erano
i
massimi
esponenti
della
minoranza:
il
card.
Brown,
Fernandez
generale
dei
domenicani,
M.
Lefevbre
superiore
degli
spiritani
(la
sua
nomina
fu
un
errore,
doveva
essere
nominato
J.Lefevbre
di
Bourges)
e C.
Colombo
(ausiliare
di
Milano),
l’unico
che
condivideva
gli
orientamenti
di
Pavan
e
Murray.
Fu
solo
grazie
all’intervento
dell’arcivescovo
Frings
di
Colonia
che
si
potette
arrivare
ad
una
nuova
commissione
mista
la
quale
modificò
profondamente
il
testo.
Sconfitti
circa
la
commissione,
i
conservatori
non
si
arresero
e il
19
novembre
fecero
notare
alla
presidenza
che
poiché
il
testo
era
stato
profondamente
rimaneggiato
non
poteva
essere
immediatamente
approvato,
senza
una
preliminare
discussione,
ma
la
sua
votazione
doveva
essere
rimandata
all’ormai
inevitabile
quarta
sessione.
L’annuncio
del
rinvio
fu
fatto
dal
card.
Tisserant
a
nome
della
presidenza,
la
qual
cosa
lo
portò
immediatamente
allo
scontro
con
il
card.
Meyer
di
Boston,
anche
lui
facente
parte
della
presidenza,
ma
sulla
qual
cosa
non
era
stato
interpellato
(per
inciso
i
padri
statunitensi
erano
i
più
attenti
alla
questione
della
libertà
religiosa).
Subito
si
creò
un
movimento
di
più
di
1000
padri
conciliari
i
quali
richiesero
“instanter,
instantitus,
instantissime”
l’intervento
del
pontefice,
ma
il
regolamento
era
chiaro
e il
testo
doveva
essere
rinviato.
Ma
la
settimana
nera
non
si
era
ancora
conclusa.
Prima
di
essere
promulgato
(21
novembre)
il
testo
sull’ecumenismo,
il
decreto
Unitatis
Redintegratio,fu
modificato
dal
pontefice
il
quale
introdusse
alcuni
emendamenti
che
ne
attenuarono
la
portata,
inoltre
Paolo
VI
dissuase
i
padri
conciliari
dalla
canonizzazione
conciliare
di
Giovanni
XXIII,
il
padre
del
concilio
veniva
messo
in
secondo
piano.
Nel
discorso
di
chiusura
della
terza
sessione
(21
novembre)
il
pontefice
dichiara,
di
propria
autorità,
“Maria
Madre
della
Chiesa”,
titolo
che
non
era
stato
introdotto
dal
concilio
nel
testo
sulla
Vergine.
La
terza
sessione
terminava
con
grande
delusione
di
coloro
che
s’ispiravano
ancora
all’opera
roncalliana
e
con
la
consapevolezza
che
il
concilio
stava
perdendo
il
suo
vero
spirito.
Era
opportuno
chiuderlo
al
più
presto.
La
consapevolezza
dell’affievolirsi
dello
spirito
di
Giovanni
XXIII
fu
evidente
anche
nel
fatto
che
Paolo
VI
rifiuto
di
sottoporre
all’attenzione
del
concilio
temi
scottanti
quali:
il
celibato
ecclesiastico,
la
questione
del
controllo
delle
nascite,
il
ruolo
della
donna
nella
chiesa
e la
questione
circa
la
possibilità
di
risposarsi
da
parte
di
chi
era
stato
abbandonato
dal
coniuge.
Il
concilio
doveva
concludersi
cercando
di
salvare
tutto
quello
che
c’era
di
buono
nei
testi
che
avevano
conservato
lo
spirito
inziale.
In
quest’ottica
deve
essere
letta
la
quarta
sessione
caratterizzata
da
un
lavoro
estenuante
da
parte
delle
commissioni
e
dell’assemblea
per
votare
i
documenti
restanti
(11
su
16
totali).
Durante
quest’ultima
sessione
l’azione
della
minoranza
si
concretizzò
soprattutto
nell’influenza
sulla
stesura
dello
schema
XIII
(quella
che
poi
sarebbe
diventata
la
costituzione
pastorale
Gaudium
et
spes
sul
rapporto
tra
la
chiesa
e il
mondo
contemporaneo).
A
causa
di
un
errore
del
segretario
della
Commissione
dei
Laici
(mons.
Glorieux)
un
emendamento
della
minoranza
fu
tralasciato
la
qual
cosa
accese
la
reazione
dei
conservatori
i
quali
fecero
pressione
sul
pontefice
affinché
fosse
inserita
una
nota
che
ricordasse
le
encicliche
anticomuniste.
Inoltre
Paolo
VI
impose
degli
emendamenti,
circa
il
matrimonio,
ispirati
all’enciclica
Casti
Connubi
di
Pio
XI,
di
chiara
matrice
conservatrice.
L’8
dicembre
1965
si
chiudeva
il
Concilio.
Molti
erano
stati
i
risultati
ottenuti.
Si
pensi
alla
novità
della
costituzione
sulla
rivelazione
(Dei
Verbum),
alle
modifiche
sulla
liturgia
(in
particolare
circa
l’uso
della
lingua
volgare)
nella
costituzione
Sacrosanctum
Concilium
, ai
testi
sulla
libertà
religiosa
(Dignitatis
Humanae)
e
sulle
religioni
non
cristiane
(Nostra
Aetate)
in
cui
si
sottolineava
la
dignità
umana
nella
libera
scelta
del
proprio
culto
e i
valori
positivi
presenti
nelle
altre
religioni.
Si
pensi
alle
aperture
ecumeniche
(culminate
con
l’incontro
a
Gerusalemme
tra
il
papa
Paolo
VI e
il
patriarca
ecumenico
di
Costantinopoli
Atenagora,
e
alla
successiva
revoca
delle
reciproche
scomuniche
che
resistevano
da
quasi
mille
anni)
e
alla
rinnovata
attenzione
della
chiesa
verso
il
mondo
contemporaneo
(si
pensi
alla
visita
del
pontefice
alle
Nazioni
Unite).
Nonostante
ciò
molti
furono
i
limiti
del
concilio.
È
vero
che
l’opposizione
della
minoranza
portò,
molto
spesso,
al
riesame
dei
documenti
e al
loro
miglioramento,
ma è
pur
vero
che
l’opposizione
portò
alla
creazione
di
documenti
di
compromesso,
troppo
poco
coraggiosi
e
molto
ambigui.
Paradossalmente
uno
dei
limiti
principali
del
concilio
fu
il
fatto
che
esso
si
svolse
nei
prosperi
anni
60,
le
nubi
della
crisi
erano
ancora
lontane.
Gli
anni
‘70
presenteranno
tutta
una
serie
di
problemi
(crisi
del
sacerdozio,
crisi
economica,
questioni
dell’aborto
e
del
divorzio)
sui
quali
il
concilio
non
si
era
espresso
e
per
questo
le
sue
riflessioni,
soprattutto
quelle
sul
rapporto
della
chiesa
con
il
mondo,
divennero
ben
presto
superate.
Ritornando
alla
minoranza,
fu
soprattutto
la
volontà
di
Paolo
VI,
di
mediare
tra
le
due
realtà
(maggioranza
e
minoranza),
a
portare
a
testi
di
compromesso.
Si
potrà
sottolineare
il
fatto
che
questo
è
stato
il
prezzo
da
pagare
per
un
più
ampio
consenso,
ma
resta
sempre
il
rammarico
di
uno
spirito
conciliare
schiacciato
nel
compromesso
e di
una
visione,
quella
roncalliana,
che
difficilmente
ritornerà
ad
ispirare
un
nuovo
concilio.