N. 74 - Febbraio 2014
(CV)
LA CONCEZIONE DELLA VITA in NIETZSCHE
tra LA TELEOLOGIA A PARTIRE DA KANT e COSÌ PARLÒ ZARATHUSTRA
di Giulia Elena Vigoni
La
Vita
è
uno
dei
temi
predominanti
nella
filosofia
Nietzschiana
e
diverse
sono
le
opere
in
cui
è
affrontato.
Tra
esse
spiccano
“La
Teleologia
a
partire
da
Kant”
e “La
nascita
della
tragedia”.
In
questi
due
saggi
la
concezione
vitalistica
del
filosofo
di
Röcken
si
manifesta
in
concomitanza
rispettivamente
con
la
critica
al
meccanicismo
e al
finalismo
kantiano
che
aveva
fatto
da
padrone
nel
pensiero
filosofico
dei
secoli
precedenti
e
con
l’Apollineo
e il
Dionisiaco,
i
due
impulsi
tratti
dalla
mitologia
greca
antica.
Ne “La
Teleologia
a
partire
da
Kant”
Nietzsche
prende
posizione
contro
la
filosofia
Kantiana
che
concepisce
la
Natura
un
organismo
costituto
da
parti
dipendenti
dal
tutto
in
cui
ognuna
è
vicendevolmente
fine
e
anche
mezzo
e in
cui
la
causa
efficiente
è
interna.
La
facoltà
teleologica,
concepita
come
una
“costrizione”
della
mente,
consentirebbe
di
conoscere
l’organismo
che
si
costituisce
secondo
meccanismi
che
solo
l’intelletto
riesce
a
cogliere.
Ma
mentre
per
il
filosofo
di
Königsberg
l’intelletto
umano
(Ectypus)
riuscirebbe
ad
avere
una
conoscenza
empirica
delle
parti
conformi
al
tutto,
è
solo
quello
Archetypus
ad
essere
in
grado
di
intuire
l’unità
in
cui
si
manifestano
le
singole
parti.
E
l’unico
essere
capace
di
inferire
l’universale
dal
particolare
è
Dio,
il
principio
teleologico
trascendentale
a
cui
tutto
tende.
Non
d’accordo,
Nietzsche
afferma
che
l’intelletto
Archetypus
proprio
dell’uomo
è in
grado
di
afferrare
l’unità
delle
parti
in
quanto
non
esiste
nessun
organismo,
nessun
principio
teleologico
trascendentale,
nessuna
teleologia;
sono
solo
concetti
astratti
e
convenzionali
prodotti
dall’estetica.
“Ottimismo
e
teleologia
procedono
di
pari
passo:
a
loro
importa
contestare
ciò
che
non
è
conforme
a
fini
come
qualcosa
di
veramente
tale.
C’è
un’arma
contro
la
teleologia
in
generale:
dimostrazione
di
ciò
che
non
è
conforme
a
fini.
Ma
in
tal
modo
viene
solo
dimostrato
che
la
più
alta
ragione
ha
operato
solo
sporadicamente
e
che
esiste
un
terreno
per
intelligenze
minori.
Non
c’è
allora
nessun
mondo
teleologico
unitario,
ma
una
intelligenza
creatrice”.
È
qui
che
si
innesta
la
critica
nietzschiana
al
meccanicismo
e al
razionalismo
che
dai
tempi
di
Socrate,
come
scrive
ne “La
nascita
della
Tragedia”,
ha
illuso
l’uomo
che
attraverso
la
ragione
egli
possa
conoscere
e
sottomettere
a
proprio
vantaggio
la
Natura.
Ma
la
Natura
è
vita,
essa
è
inconoscibile.
Criticando
il
concetto
di
“organismo”
espresso
da
Kant,
Nietzsche
scrive
ne “La
teleologia
a
partire
da
Kant”:
“Che
cos’è
l’organismo
se
non
forma,
vita
formata?(…)
al
di
là
di
questa
c’è
ancora
semplicemente
vita.
Per
la
vita
ci
sono
differenti
forme,
cioè
conformità
a
fini.
La
vita
è
possibile
in
una
straordinaria
quantità
di
forme.
Ognuna
di
queste
forme
è
conforme
a
fini:
ma
poiché
esiste
un
numero
incalcolabile
di
forme
allora
esiste
anche
un
numero
incalcolabile
di
forme
conformi
a
fini.(…).
Mediante
la
causa
finale
non
ci
spingiamo
fino
alla
spiegazione
della
vita,
ma
solo
alla
spiegazione
della
forma.
Noi
cogliamo
del
vivente
null’altro
che
forme.
Ciò
che
eternamente
diviene
è la
vita;
per
la
natura
del
nostro
intelletto
noi
cogliamo
forme.
C’è
bisogno
di
cause
finali
per
spiegare
che
qualcosa
vive?
No;
esse
servono
soltanto
a
spiegare
come
qualcosa
vive”.
Coloro
che
si
affannano
a
cercare
di
conoscerne
l’essenza
ontologizzandola,
cercandone
vanamente
il
senso,
perdono
il
loro
tempo.
È
assurdo
cercare
di
fermare
un
flusso
in
continuo
divenire;
cristallizzando
la
vita
in
parti
o
forme,
la
si
uccide.
Ecco
perché
Nietzsche
critica
il
metodo
scientifico
sperimentale
di
Newton
tanto
esaltato
da
Kant,
empiristi
e
razionalisti;
esso
usa
l’analisi
(e
quindi
la
ragione)
e
scompone
i
fenomeni
osservati
in
natura
(e
quindi
la
natura
stessa)
in
parti
più
semplici
per
poterne
ricavare
leggi
che
saranno
poi
tradotte
in
termini
matematici
dopo
un
successivo
lavoro
di
sintesi.
Ma
scomporre
in
tal
modo
la
vita
non
porta
a
nulla
secondo
Nietzsche
poiché
uccidendola
si
vanno
a
studiare
solo
infinite
parti
morte.
È
inoltre
assurdo
pensare
che
la
Natura
sia
dominata
da
leggi
meccaniche
che
governano
un
unico
mondo;
l’unica
legge
vigente
è il
Caos.
Perciò
se
il
Caos
regna
sovrano,
anche
i
concetti
di
ordine,
forma,
fine,
sono
solo
prodotti
estetici
dati
dal
bisogno
dell’uomo
di
trovare
una
ragione
e un
senso
ad
ogni
cosa.
Ma
qual
è il
senso
della
vita?
Non
esiste
un
senso;
la
vita,
inconoscibile
nel
suo
eterno
metamorfismo
eracliteo
ha
come
sua
essenza
e
senso
se
stessa.
Ecco
perché
nel
1883,
quindici
anni
dopo
la
giovanile
pubblicazione
de “La
teleologia
a
partire
da
Kant”
inizia
a
scrivere
la
prima
parte
di “Così
parlò
Zarathustra”
dando
voce
alla
teoria
dell’Eterno
Ritorno
dell’identico.
Ma
quali
forze
contraddistinguono
la
vita
per
Nietzsche?
Apollineo
e
Dionisiaco,
questi
sono
i
due
impulsi
essenziali
e
fisiologici
che
lottano
tra
loro
in
un
conflitto
insanabile
ed
eterno
in
cui
l’uno
cerca
di
prevaricare
sull’altro
ma
senza
eliminarsi.
La
conclusione
de
“La
Nascita
della
Tragedia”
sostiene
proprio
l’essenziale
compresenza
di
queste
due
forze
che
trovarono
il
loro
equilibrio
solo
nella
tragedia
Attica
antica
di
Eschilo
e
Sofocle.
Di
questi
due
impulsi
è
possibile
fare
una
triplice
analisi,
dal
punto
di
vista
filosofico,
estetico
e
psicologico.
“I
due
impulsi
così
diversi
procedono
l’uno
accanto
all’altro,
per
lo
più
in
aperto
dissidio
tra
loro
(…)immaginiamoli
come
i
mondi
artistici
separati
del
sogno
e
dell’ebbrezza
(...)
La
bella
parvenza
dei
mondi
del
sogno
è il
presupposto
di
ogni
arte
figurativa.
Nella
comprensione
immediata
della
figura
noi
godiamo,
tutte
le
forme
ci
parlano,
non
c’è
niente
di
indifferente
e di
non
necessario.(…)
Questa
gioiosa
necessità
dell’esperienza
del
sogno
è
stata
espressa
dai
Greci
nel
loro
dio
Apollo(…)
che
si
potrebbe
definire
la
magnifica
immagine
divina
del
principium
individuationis”.
Ecco
che
l’Apollineo
si
manifesta
come
la
bellezza
e
perfezione
ideale,
la
sobrietà,
l’armonia,
la
razionalità
e la
forma
già
criticata
ne
“La
Teleologia
a
partire
da
Kant”.
L’uomo
disgustato
dall’atrocità
o
dall’assurdità
dell’essere,
dalla
tragicità
di
un
mondo
in
cui
non
esiste
solo
“il
Bello
e il
Buono”
si
rifugia
in
una
realtà
illusoria
fatta
di
mere
apparenze,
la
dimensione
onirica
dell’apollineo.
Ed è
qui
che
si
manifesta
il
concetto
di
ingenuità
in
Nietzsche.
Gli
uomini
hanno
bisogno
di
dare
un
ordine
a
ciò
che
altrimenti
sarebbe
pervaso
dal
Caos
e
per
questo
hanno
introdotto
questi
concetti
estetici
e
convenzionali,
per
sentirsi
sicuri
illudendosi
di
poter
conoscere
razionalmente
ogni
cosa.
L’eterno
metamorfismo
della
realtà
li
ha
spinti
a
dar
forma
all’informe
perché
altrimenti
non
avrebbero
potuto
conoscere
e
l’uomo
di
questo
ne
ha
un
essenziale
bisogno
da
quando
Socrate
ha
introdotto
la
concezione
secondo
cui
una
vita
morale
e
razionale
è
l’unica
in
grado
di
farci
giungere
alla
conoscenza
del
Bene
e
della
Verità
suprema
(Dio
in
termini
cristiani)
controllando
e
reprimendo
con
la
ragione
istinti
e
pulsioni.
Ne
“La
Nascita
della
Tragedia”
Nietzsche
introduce
la
figura
del
filosofo
di
Atene
successivamente
a
quella
di
Euripide,
l’altro
assassino
della
tragedia
Attica
antica,
con
queste
parole:
“Anche
Euripide
era
in
un
certo
senso
solo
maschera:
la
divinità
che
parlava
per
sua
bocca
non
era
Dioniso
e
neanche
Apollo,
bensì
un
demone
di
recentissima
nascita
chiamato
Socrate”.
Anche
ne
“La
filosofia
nell’epoca
tragica
dei
Greci”
il
filosofo
spende
molte
pagine
nel
tentativo
di
descrivere
cosa
essi
rappresentino
e
conformemente
a
“La
Nascita
della
Tragedia”
ripercorre
tramite
il
metodo
genealogico
l’evoluzione
che
la
tragedia
antica
ebbe
dalla
dionisiaca
epoca
pre-omerica
a
quella
prettamente
apollinea
di
Euripide
e
Socrate
che
con
la
loro
morale
uccisero
il
Dionisiaco
illudendo
l’uomo
che
con
la
ragione
sarebbe
riuscito
a
tendere
al
Bene
Supremo
(alla
Verità)
che
con
l’avvento
del
Cristianesimo
fu
tradotto
in
Dio
Onnipotente.
Il
buon
uso
dell’apollineo
di
epoca
omerica
fatto
dall’aedo
cieco
nel
narrare
le
gesta
di
eroi
nei
suoi
poemi
epici,
il
canto
popolare
prettamente
dionisiaco
di
Archiloco,
il
perfetto
equilibrio
tra
i
due
impulsi
nella
tragedia
Attica
antica
di
Eschilo
e
Sofocle
furono
annientati
da
un
infelice
uso
dell’apollineo
(tragedie
che
vedono
protagonisti
non
più
eroi
ma
uomini
comuni
alle
prese
con
la
vita
di
tutti
i
giorni)
e da
un
annientamento
del
dionisiaco
in
favore
del
primo
e
della
razionalità.
E
questo
è
quanto
è
successo
anche
in
epoca
moderna
dove
in
nome
della
scienza
e
della
conoscenza
l’uomo
socratico
ha
sacrificato
tutto,
ha
ucciso
la
vita.
Ma
cos’è
il
Dionisiaco
e
cos’è
esso
nell’arte?
“L’arte
dionisiaca
si
fonda
sul
giuoco
con
l’ebbrezza
e il
rapimento.
Due
forze
che
portano
l’ingenuo
uomo
naturale
all’oblio
di
sé
nell’ebbrezza,
ossia
l’impulso
primaverile
e la
bevanda
narcotica.(…)
Le
feste
di
Dioniso
riconciliano
uomo
e
natura(…).
Il
vangelo
dell’armonia
universale
si
aggira
da
un
luogo
a un
altro
in
schiere
sempre
più
numerose:
cantando
e
danzando
l’uomo
si
manifesta
come
membro
di
una
comunità
superiore
e
più
ideale;
ha
disimparato
a
camminare
e a
parlare”.
Dioniso
è la
vita;
egli
è
colui
che
ha
imparato
a
dirle
di
si,
ad
accettarla
per
come
essa
è
senza
chiedere
sempre
perché
o
quale
è il
senso
di
ogni
cosa.
L’uomo
dionisiaco
è
colui
che
accetta
la
tragicità
della
realtà
vivendola
in
ogni
suo
aspetto
e in
ogni
suo
istante.
Egli
è
colui
che
come
il
fanciullo
di
“Cosi
parlò
Zarathustra”
distrugge
per
creare.
Egli
è
colui
che
ha
imparato
a
ridere
anche
del
male,
che
danza
anziché
camminare
e
che
canta
invece
che
parlare.
Non
si
priva
di
nulla
perché
sa
che
è
inutile
dal
momento
in
cui
non
ci
sono
fini
verso
cui
agire
e
che
tutto
si
ripeterà
uguale
in
eterno.
Nella
parte
conclusiva
del
tentativo
di
autocritica
ne
“La
Nascita
della
tragedia”
Nietzsche
cita
“Così
parlò
Zarathustra” e
scrive:
“Io
stesso
ho
santificato
la
mia
risata.
(…)
Zarathustra
che
dice,
che
ride
la
verità;
io
stesso
ho
posto
questa
corona
sul
mio
capo!
Questa
corona
di
colui
che
ride,
questa
corona
intrecciata
di
rose:
a
voi,fratelli,
getto
questa
corona!
Io
ho
santificato
il
riso;
uomini
superiori,
imparatemi-
a
ridere!”.
La
risata
diventa
elemento
centrale
nella
filosofia
nietzschiana,
un
modus
vivendi
per
affrontare
la
vita.
Coloro
che
sulla
scia
del
socratismo
e
successivamente
del
cristianesimo
si
sono
sempre
vietati
ogni
cosa
reprimendo
pulsioni
e
istinti
credendo
che
in
questo
modo
avrebbero
ottenuto
la
grazia
di
Dio
o
comunque
sarebbero
stati
premiati
non
hanno
mai
vissuto.
Hanno
creduto
in
valori
che
essi
stessi
avevano
posto
creando
una
morale
che
Nietzsche
definisce
“degli
ultimi”,
fondata
sul
risentimento.
Essi
vedevano
uomini,
“gli
aristocratici”
che
godevano
dei
piaceri
della
vita
mentre
loro,
“i
deboli”
stavano
a
guardare
covando
un
sentimento
di
invidia
e
rancore
nei
loro
confronti
che
li
spingeva
a
illudersi
e ad
auto
convincersi
che
“gli
ultimi
saranno
i
primi”
perché
Dio
li
avrebbe
accolti
nel
Regno
dei
Cieli.
Ma
questi
uomini
“seri”
hanno
a
lungo
predicato
così
tanti
valori
che
non
hanno
mai
rispettato
che
di
questa
molteplicità
non
ne è
rimasto
più
nemmeno
uno.
E
hanno
ucciso
Dio
senza
nemmeno
accorgersene.
Nella
prefazione
di
“Così
parlò
Zarathustra”
si
legge
che
mentre
colui
che
“annuncia
il
fulmine,
la
follia,
che
insegna
l’Oltreuomo”
scende
dalla
montagna
su
cui
aveva
trascorso
in
solitudine
gli
ultimi
dieci
anni
della
sua
vita
conoscendo
la
vera
saggezza
che
ora
vuole
elargire
agli
uomini
perché
sazio,
incontrò
un
vecchio
santo
nel
bosco
il
quale
lo
pregò
di
non
sperperare
il
proprio
sapere
per
gli
uomini
in
quanto
essi
non
lo
meritano;
avrebbe
fatto
meglio
a
restare
nel
bosco.
“E
che
fa
il
santo
nel
bosco?”
Chiese
Zarathustra.
Il
santo
rispose:
“(…)
rendo
lode
a
Dio.
Cantando,
piangendo,
ridendo
e
mugulando,
lodo
quel
dio
che
è il
mio
dio.
Ma
tu
che
cosa
ci
porti
in
dono?”
Che
cosa
avrei
da
darvi!
Piuttosto
lasciatemi
andare
in
fretta,
che
non
vi
porti
via
niente!”.
E
così
si
separarono,
il
vegliardo
e
l’uomo,
ridendo
come
ridono
due
ragazzi.
Ma
quando
fu
solo,
Zarathustra
parlò
così
al
suo
cuore:
“È
mai
possibile!
Questo
santo
vecchio
nel
suo
bosco
non
ha
ancora
sentito
dire
che
Dio
è
morto!”.
E
così
l’uomo
è
rimasto
senza
più
punti
di
riferimento;
non
c’è
più
Colui
che
egli
credeva
fosse
il
discernimento
tra
Bene
e
Male,
vero
e
falso:
l’uomo
è in
balìa
di
se
stesso,
perso
nel
male
peggiore
in
cui
potesse
incorrere,
il
Nichilismo.
Come
superarlo?
Attivamente;
distruggendo
la
morale
metafisica
e
ricostruendone
una
incentrata
sui
valori
terreni,
la
morale
dell’Oltreuomo.
“Io
vi
insegno
l’Oltreuomo”
grida
Zarathustra,
inascoltato,
alla
folla
raccolta
nella
piazza
del
mercato
della
città
di
Muccapezzata
riunitasi
per
assistere
allo
spettacolo
del
funambolo.
“L’uomo
è
qualcosa
che
deve
essere
superato.
Che
cosa
avete
fatto
voi
per
superarlo?
Finora
tutti
gli
esseri
hanno
creato
qualcosa
al
di
sopra
di
sé:
e
voi
volete
essere
il
riflusso
di
questa
grande
marea,
e
regredire
alla
bestia
piuttosto
che
superare
l’uomo?
Che
cos’è
la
scimmia
per
l’uomo?
Una
risata
di
scherno,
una
penosa
vergogna.
Avete
percorso
la
via
dal
verme
all’uomo,
e vi
è
ancora
molto
del
verme
in
voi.
Un
tempo
eravate
scimmie
e
anche
ora
l’uomo
è
più
scimmia
di
qualsiasi
scimmia.(…)
L’Oltreuomo
è il
senso
della
terra.
Fratelli
miei,
vi
scongiuro,
restate
fedeli
alla
terra!”.
Ma
gli
uomini
risero
delle
sue
parole
e il
loro
riso
era
pieno
di
odio.
L’uomo
teme
colui
che
va a
minare
o a
mettere
in
dubbio
la
muraglia
protettiva
che
si è
eretto
attorno.
Ma
sin
dai
tempi
di
Platone
la
Metafisica
non
ha
permesso
all’uomo
di
vivere
pienamente
la
propria
vita;
essa
è
stato
un
limite
che
lo
ha
sempre
fatto
sentire
inferiore
ma
infinitamente
anelante
a
questa
dimensione
dell’infinito,
della
verità
e
del
Bene
sottratti
alla
contingenza
della
realtà
empirica.
Ma
come
si
può
vivere
assoggettati
a
tali
condizioni
autoimposte?
L’uomo
deve
liberarsi
di
valori,
dogmi
e
credenze
imitatrici
e
inconoscibili;
è un
atteggiamento
masochista.
Vivere
significa
accettare
la
vita
come
essa
si
presenta,
senza
interrogarsi
sul
senso
perché
l’unico
senso
della
vita
è la
vita
stessa
ma
essa
è
inconoscibile,
quindi
l’unica
cosa
che
possiamo
fare
è
viverla
accettandola
così
come
è
senza
aver
la
pretesa
di
cambiarla
o
conoscerne
l’essenza
sottomettendola
con
umane
leggi
matematiche.
Da
sempre
l’uomo
ha
preferito
chiudere
gli
occhi
davanti
al
dolore
della
vita
ricercando
solo
le
gioie
e i
piaceri
purché
moralmente
accettabili.
Ma
questo
non
è
vivere
per
Nietzsche;
rifugiarsi
in
un
mondo
statico,
delle
forme
e
delle
belle
parvenze
solo
per
tutelarsi
da
ciò
che
non
è
alla
nostra
portata
o
non
ci è
gradito
è un
ingannarsi
sapendo
di
mentire
a se
stessi.
Nella
quarta
parte
dell’opera
che
rappresenta
la
summa
di
tutta
la
filosofia
nietzschiana
è
scritto:
“Ma
il
piacere
non
vuole
eredi,
non
figli-
il
piacere
vuole
se
stesso,
vuole
eternità,
vuole
il
ritorno,
vuole
tutto-
eternamente
uguale
a
sé.
(…)
O
mio
vecchio
cuore:
dice
il
dolore:
“svanisci!”.
“Dolore
è
anche
un
piacere,
maledizione
è
anche
una
benedizione,
notte
è
anche
sole-
andate
via,
oppure
dovrete
imparare:
un
saggio
è
anche
un
folle”.
È
questa
una
chiara
esemplificazione
della
teoria
dell’Eterno
ritorno
dell’uguale,
un
modo
di
affrontare
la
vita
forse,
nell’autoconvinzione
che
gli
uomini
nella
loro
limitatezza
non
possono
nulla
sull’eterno
divenire
dell’informe
indefinito
che
è la
vita
ma
ciò
non
significa
rinunciare
a
vivere
né
vivere
per
una
realtà
inesperibile
e
metafisica
rinunciando
alla
vita
stessa.
Significa
invece
accettare
la
tragicità
della
realtà
e
abbracciare
la
vita
in
ogni
sua
parte
in
cui
anche
gli
opposti
alla
fine
si
trovano
abbracciati
proprio
come
Apollo
e
Dioniso
nella
tragedia
Attica
che
Nietzsche
sperava
di
riuscire
a
ripristinare
nella
Germania
del
XIX
secolo
grazie
alla
musica
dionisiaca
wagneriana
e al
mito
della
tradizione
tedesca.
Voleva
ricreare
la
vita
là
dove
era
già
passata
la
morte;
comprese
troppo
tardi
che
non
può
nascere
nulla
su
un
terreno
bruciato;
capì
che
gli
uomini
non
sono
capaci
di
ascoltare
né
disposti
a
farlo
se
sentono
minacciate
quelle
presunte
e
artificiali
certezze
rappresentanti
la
loro
ancora
di
salvezza
in
un
mondo
ostile
e
continuamente
mutevole.
Inutile
parlare
a
chi
fa
orecchie
da
mercante,
ecco
perché
la
solitudine,
l’egoismo,
l’amore
per
se
stessi
sono
temi
centrali
esposti
da
Zarathustra
nei
suoi
discorsi.
Ma
Zarathustra
deve
compiere
un’opera;
egli
è
colui
che
annuncia
il
tramonto
dell’uomo
e il
mattino
dell’Oltreuomo
e ne
“il
segno”,
discorso
conclusivo
del
testo
nietzschiano
è
scritto:
“La
mia
sofferenza
e la
mia
compassione-
che
importa!
Aspiro
forse
alla
felicità?
Alla
mia
opera
aspiro!
Orsù!
Il
leone
è
venuto,
i
miei
figli
sono
vicini, Zarathustra
si è
fatto
maturo,
è
giunta
la
mia
ora:-
Questo
è il
mio
mattino,
la
mia
giornata
comincia
ora
vieni
su,
su,
grande
mezzogiorno!”
-
Cosi
parlò
Zarathustra
e
lasciò
la
sua
caverna,
ardente
e
forte,
come
un
sole
mattutino
che
emerge
da
scure
montagne”.
Riferimenti
bibliografici:
F.
Nietzsche,
La
teleologia
a
partire
da
Kant,
a
cura
di
M.
Guerri,
Mimesis
Edizioni,
1998
F.
Nietzsche,
La
filosofia
nell’epoca
tragica
dei
Greci,
Piccola
Biblioteca
Adelphi,
1991
F.
Nietzsche,
La
nascita
della
tragedia,
Piccola
Biblioteca
Adelphi,1977
F.
Nietzsche,
Così
parlò
Zarathustra,
Mondadori,
2012