PER UNA PROBLEMATIZZAZIONE DEL
CONCETTO DI STORIA
LO SGUARDO VIGILE DI PRIMO LEVI
di Francesco Perri
Abbiamo tutti in mente il fenomeno
dell’antisemitismo e i suoi
meccanismi contorti di negazione
assoluta dell’uomo. Non solo di
negazione, ma di abbattimento e di
prosciugamento continuo di ogni
significato umano e dunque possibile
e accettabile. Nell’immaginario
collettivo la realtà di questo
fenomeno è indiscutibilmente
documentata e registrata da ogni
punto di vista, in primis da quello
storico, e non potrebbe essere
diversamente.
Il peso della storia è significativo
di un processo che sta alla base
dell’Olocausto: la condanna.
Attraverso una rigida documentazione
dei fatti, è giusto condannare il
carnefice e assolvere la vittima.
Proprio quello che accade nella
storia antisemita dell’Italia
fascista, qui l’ebreo vittima e qua
il fascista carnefice, aguzzino se
si vuole utilizzare una parola più
forte. La condanna non è solo
l’epilogo di un processo, ma diventa
responsabilità e giustizia se si
parla di memoria e di ricordo.
Diventa concreta individuazione del
pericolo da scampare e dunque da
stigmatizzare senza alcuna
resistenza.
Pur partendo dall’importanza storica
della condanna, è interessante
volgere lo sguardo su determinati
aspetti, utili all’interno del
dibattito nazionale per una
comprensione onesta del fenomeno e
scevra da ogni convenzionale
banalizzazione.
Vale sempre una tale suddivisione
tra vittima e carnefice? Quanto e in
che modo la separazione tra i due
poli risulta utile? Sono questi gli
interrogativi da cui si deve
partire, al fine di cogliere la
complessità stessa del fenomeno e
non la sua verità più ovvia, comune
e, ancora una volta, convenzionale.
Ebbene sì, in questa prospettiva,
l’intento è lottare contro la
convenzionalità dell’idea storica
corrente, il che non vuol dire
rivedere o peggio ancora rivalutare
fatti e avvenimenti storici, ma
caricarli di maggiore consapevolezza
e di spirito critico, spesso assente
o nullo nelle indagini storiche.
Primo Levi rappresenta l’apice di
questa lotta, finalizzata a
rafforzare la complessità del
fenomeno della Shoah. Lontano in
apparenza dall’idea storica presente
nell’immaginario collettivo, Levi
con una scrupolosità sconvolgente
accentua ogni problema, partendo da
una domanda fissa: la vittima è
anche il carnefice?
Se una risposta venisse pronunciata,
agli occhi di Levi, l’interrogativo
rimarrebbe incompleto, non verrebbe
affrontato criticamente ma solo
superficialmente. Piuttosto, ci si
deve impegnare a comprendere il
fenomeno nella sua compiutezza. La
linea che delimita il confine tra
vittima e carnefice è labile
rispetto all’idea che tutti abbiamo
nell’antisemitismo. È questa una
realtà di cui tener conto se si
vuole afferrare il problema nella
sua interezza, e per interezza è
giusto intendere la complessità e la
profondità di vedute e di
riflessioni.
L’indirizzo di analisi non è quello
di individuare chi sia la vittima o
il carnefice, ma è dettato
dall’urgenza di sottolineare
consapevolmente asimmetrie che a
partire da Levi hanno il diritto di
essere esaminate nella loro
complessa articolazione e non nella
loro struttura più accomodante e
rinunciataria.
L’Italiano, fascista e non,
manifesta dei dubbi sull’effettivo
contesto in cui vive, pone domande
ed esprime incertezza a proposito
del clima persecutorio degli anni
che vanno dall’emanazione delle
leggi razziali e che vedono umiliati
e mortificati gli ebrei. Questa è
una verità a cui Levi fa riferimento
e che merita grande attenzione, in
quanto al centro di una riflessione,
come ricorda Cavaglion, decisamente
inattuale rispetto ai nostri odierni
parametri, con i quali siamo soliti
a individuare convenzionalmente il
colpevole dall’innocente.
Si veda, a tal proposito, quanto
dice lo scrittore torinese in una
conferenza pronunciata a Bologna
proprio nel 1961: «Quando furono
proclamate le leggi razziali avevo
diciannove anni. Fra gli studenti i
fascisti entusiasti erano pochi e
non erano pericolosi, in generale.
Anch’essi erano rimasti piuttosto
perplessi davanti a quelle nuove
leggi, che apparirono fin
dall’inizio una stupida
scimmiottatura delle analoghe e ben
più feroci leggi tedesche; ma
dominava un generale scetticismo da
cui io stesso ero stato contagiato:
era un clima di sordità e cecità a
cui soccombevano tutti, studenti e
professori, fascisti e antifascisti
e vittime del fascismo».
Il tema della scimmiottatura e dello
scetticismo ritorna in maniera
cruciale anche nel romanzo Se non
ora quando?: «Ci hanno
aiutati non ‘benché’ fossimo ebrei,
ma ‘perché’ lo eravamo. Hanno
aiutato anche i loro ebrei; quando
hanno occupato l’Italia, i tedeschi
hanno fatto tutti gli sforzi che
potevano per catturarli, ma ne hanno
preso e ucciso solo un quinto; tutti
gli altri hanno trovato rifugio
nelle case dei cristiani, e non solo
gli ebrei italiani, ma molti ebrei
stranieri che si erano rifugiati in
Italia. [...] Che cosa sia un
pogrom, spiega Chaim, in Italia, non
lo sa nessuno, neppure che cosa
voglia dire la parola. È un
paese-oasi. Gli ebrei italiani sono
stati fascisti quando tutti gli
italiani erano fascisti e battevano
le mani a Mussolini; e quando sono
venuti i tedeschi, alcuni sono
scappati in Svizzera, alcuni sono
andati con i partigiani, ma per la
maggior parte è rimasta nascosta in
città o nelle campagne, e sono stati
pochi quelli che sono stati scoperti
o denunciati, anche se i tedeschi
promettevano molto denaro a chi
collaborava con loro».
Alberto Cavaglion con una precisa
acutezza d’ingegno afferma che se
queste parole, sopra riportate, le
avesse scritte un ricercatore alle
prime armi, subito qualcuno avrebbe
invitato a firmare un appello
sdegnato contro le pericolose e
dannose derive del revisionismo o
peggio ancora del negazionismo. In
verità a scrivere un contenuto così
articolato e apparentemente
contraddittorio è stato Levi, il
quale offre un giudizio sul
fascismo, di cui abbiamo avuto prova
riportando un passo della conferenza
di Bologna, o ancora sul tessuto
storico italiano in generale,
tutt’altro che comune. La serietà e
la lucidità critica spingono
l’autore ad accertare una forte
complessità del tema, nella pretesa
di uno sforzo continuo a ricercare
l’onestà della verità, a costo anche
di rendere laboriosa l’analisi del
problema.
A questo punto è giusto chiederci
quale sia la percezione
dell’antisemitismo in Italia fra il
1938 e l’autunno 1943. E, ancora una
volta, non manca certo la
scrupolosità dello scrittore,
secondo il quale la travagliata
storia d’Italia di quegli anni ha
“favorito la maturazione di una
specie di vanità collettiva, che
spinge a inghiottire i rigidi
sistemi morali altrui, smorzandone
gli estremi […] una forma di
superiore saggezza, mascherata da
alterigia: una virtù-vizio”.
Tale concetto viene ripreso dallo
stesso autore in un articolo dal
titolo Pugno di Renzo,
descritto come un “viluppo di pietà,
tolleranza e cinismo”. Dunque, sono
queste tre, pietà, tolleranza e
cinismo, le categorie attraverso le
quali Levi definisce la sua
percezione dell’antisemitismo.
L’insistenza è proiettata verso la
considerazione di categorie nuove,
poco considerate dall’immaginario
comune, nel quale invece risultano
imperanti le categorie fisse e
intoccabili di vittima e di
carnefice, da un lato quella del
bene e dall’altro quella del male.
Categorie oltre che fisse,
convenzionali, in quanto dettate da
uno schema consacrato nel tempo e
mai messo in discussione.
Le tre categorie a cui fa
riferimento Levi, esprimendo il suo
giudizio sul 1938 e sulle leggi
razziali, sono le stesse che
caratterizzano la sua testimonianza
della conferenza di Bologna del
1961: «Tra i compagni studenti e
tra i professori non incontravo
manifestazioni né di solidarietà, né
di ostilità. Tuttavia, a una a una
le amicizie ariane si andarono
liquefacendo, eccetto per quei
pochissimi che non temevano di
passare per pietisti o per ‘ebrei
onorari’, come suonava la
terminologia fascista ufficiale. Ma,
in privato, gli stessi gerarchetti
del Guf ci guardavano con una certa
aria di imbarazzo colpevole».
Un’altra fonte è tratta
dall’articolo di Eugenio Gentili
Tedeschi, La resistenza è
cominciata in via Roma, in cui
si fa riferimento all’episodio di
manifesti antisemiti affissi per le
strade del centro a Torino nel 1941.
Secondo Gentili, a strappare quei
manifesti sono stati i primi
partigiani. Levi al contrario, con
lo sforzo scrupoloso di comprendere
fino in fondo che lo
contraddistingue, ricorda la
presenza delle stesse autorità
fasciste rionali in quel gesto di
ribellione, arrivando a proclamare
una tesi inedita: «È probabile
che l’episodio vada inquadrato nel
profondo disaccordo che esisteva fra
fascisti e nazisti sulla questione
razziale». Le forze dell’ordine
non esprimono una cruda avversione
antisemita, ma “una debolezza
rivelatrice, un vistoso timore di
possibili complicazioni”, misto
di pietà, cinismo e tolleranza,
categorie sulle quali si basa il
pensiero leviano.
Il punto che merita di essere
sottolineato è dettato dal tentativo
di sciogliere questo nodo composto
dalle tre categorie individuate da
Levi: dove la tolleranza finisca e
lasci posto all’intolleranza, dove
la pietà possa trasformarsi in
crudeltà e spietatezza. Uno sforzo
questo che non è dato analizzare
integralmente, ma che esige di
essere compiuto, al fine di
garantire una visione ampia del
fenomeno, nella lotta contro ogni
tipo di pregiudizio schematico e
riduttivo.
Da poco è ritornata alla luce una
deposizione resa a Roma per il
processo Eichmann risalente al
giugno 1960, oggi custodita al Yad
Vashem Archive di Gerusalemme, nella
quale Levi ripercorre le fasi del
suo arresto e il momento della
detenzione ad Aosta. Ma la figura
sulla quale si sofferma, e a noi qui
interessa porre l’attenzione per
garantire continuità al discorso, è
quella di Fossa, il centurione
fascista che lo interroga dopo
l’arresto.
Fossa rappresenta il simbolo di quel
nodo tolleranza-pietà-cinismo che in
questa analisi si cerca di
sciogliere: «Fossa, il cui vero
nome era Ferro, era un esemplare
d’uomo che non avevo mai incontrato,
un fascista da manuale, stupido e
coraggioso, che il mestiere delle
armi (aveva combattuto in Africa e
in Spagna e se ne vantava con noi)
aveva cerchiato di solida ignoranza
e stoltezza, ma non corrotto né reso
disumano. Aveva creduto e obbedito
per tutta la sua vita, ed era
candidamente convinto che i
colpevoli della catastrofe fossero
due soli, il re e Galeazzo Ciano,
che proprio in quei giorni era stato
fucilato a Verona: Badoglio no, era
un soldato anche lui, aveva giurato
al re e doveva tener fede al suo
giuramento. Se non fosse stato del
re e di Ciano, che avevano sabotato
la guerra fascista fin dall’inizio,
tutto sarebbe andato bene e l’Italia
avrebbe vinto. Mi considerava uno
sventato, guastato dalle cattive
compagnie; nel profondo della sua
anima classista, era persuaso che un
laureato non poteva essere veramente
un ‘sovversivo’. Mi interrogava per
noia, per indottrinarmi e per darsi
importanza, senza alcun serio
intendimento inquisitorio: lui era
un soldato, non uno sbirro. Non mi
fece mai domande imbarazzanti, e
neppure mi chiese mai se ero ebreo».
La scelta di riportare questo
preciso passo della deposizione è
utile non solo per districare quel
viluppo presente nel pensiero di
Levi, ma anche per porre domande e
interrogativi, ai quali sarebbe
difficile rispondere in maniera
completa e definitiva, ma che
possono ugualmente rappresentare lo
sforzo in questa sede di affrontare
il tema nella sua complessità.
Ferro viene rappresentato come un
fascista stereotipato, da manuale,
stupido e allo stesso tempo
coraggioso, aggettivi giustificati
anche dall’attitudine dell’uomo ad
aver creduto e obbedito per tutta la
vita; non chiede mai se il
prigioniero sia ebreo, domanda che
reputa ‘imbarazzante’. Sono già
questi i tratti sui quali
soffermarsi per poter inquadrare in
termini più precisi il discorso e
per delineare, abbandonando ogni
parametro di giudizio, è bene
ricordarlo sin da ora, una traccia
della presunta convenzionalità
nell’idea storica corrente.
Per onestà e chiarezza della verità,
la domanda che è giusto porsi è che
cosa sapeva Ferro, in quell’istante,
del futuro di un ebreo? E che cosa
sapeva Levi? Che grado di conoscenza
avevano, l’uno e l’altro, delle
conseguenze che avrebbe avuto il
dirsi ebreo?
Si fermerebbe qui l’analisi di
Cavaglion, ma rincarando la dose,
entrambi potevano mai pensare a un
pericolo così forte da mortificare e
umiliare parte del genere umano? O
ancora, erano in grado di prevedere
dove potesse spingersi la crudeltà,
dove potesse portare la crudeltà se
non alla morte e all’abbattimento
della dignità dell’uomo?
D’altronde, come pensare e
immaginare che si sarebbe arrivati a
così tanto, quel tanto che è bastato
a sterminare un intero popolo
ebraico e a creare una voragine
incolmabile nella storia
dell’umanità?
Non sono solo domande retoriche, si
potrebbe rispondere ma è qui il
problema. Ogni risposta equivarrebbe
a semplificare e a ridurre la
complessità dell’indagine, degna di
poter essere invece conosciuta
integralmente. Nella deposizione
leviana, il profilo delineato
dell’Italiano fascista apparirebbe
simile a quello dell’ebreo,
incredulo e non consapevole del
futuro che lo attende. Entrambi
senza alcuna certezza e senza alcun
serio obiettivo. L’impressione è che
Levi stia assolvendo quel fascista
che lo ha interrogato. Ma non è
così.
Questo è l’aspetto importante ora da
dover analizzare. La condanna da un
punto di vista strettamente storico
deve esserci, è giusto che ci sia, è
giusto che quell’uomo
indipendentemente dalla sua
attitudine e rivestendo un ruolo
ufficialmente riconosciuto, sia
condannato. Si dice che Ferro aveva
creduto e obbedito per tutta la
vita. Questo però non basta a
riconoscere la subordinazione al
potere dell’uomo e dunque
l’inconsapevolezza del male che
avrebbe generato. La verità storica
si basa sulle condanne, senza le
quali la possibilità di parlare di
responsabilità e di giustizia nella
storia sarebbe vana. O ancora
impossibile.
Tuttavia, nell’analisi offerta da
Levi non compare mai la posizione
della vittima lamentosa, ma neppure
del giudice inflessibile se non per
il dato storico di cui sopra si è
parlato. Lo stile è concentrato sui
dettagli e sulla veridicità della
propria testimonianza. Calibra bene
le cose che sa e quelle che non sa.
È lucido e attento a offrire una
visione non distorta né
semplicistica, ma sottilmente
complessa e predisposta ad essere
esaminata nella sua totalità.
Quello che bisogna sottolineare è
l’assenza di commenti superflui e
comunemente vicini all’orizzonte
collettivo, per il quale le
categorie di base sono due,
indiscutibili e insindacabili:
vittima e carnefice. Vittima l’ebreo
e carnefice è il fascista e il
nazista.
Storicamente è così e deve esserlo
sempre al fine di proclamare, a
testa alta, l’onestà nella
comprensione e nella memoria
storica. Si procede, come possiamo
notare, verso una precisa direzione,
attraverso la quale, pur partendo
dal riconoscimento della memoria
storica, si cerca di abbattere la
consacrazione di queste due sole
categorie, mettendone in luce altre:
abbiamo parlato di tolleranza,
pietà, cinismo ma possiamo prenderne
molte altre a dimostrazione del
fatto che non esista una separazione
netta tra i due poli. Il confine
resta labile, come labili sono le
categorie che potrebbero appartenere
sia all’una che all’altra parte.
Se si comprendesse un tassello di
questo genere nello storico mosaico
della Shoah, si inizierebbe
finalmente a lottare contro la
convenzionalità di schemi e
dicotomie, troppo spesso diffusi
nell’opinione corrente.
L’abbattimento non è focalizzato
sulla valenza storica degli
avvenimenti e dei meccanismi che la
storia stessa abbia nel tempo
generato, ma si concentra sull’idea
di estendere il proprio raggio
d’azione, di espandere la mente e il
pensiero dell’uomo, a costo anche di
problematizzare la sola verità di
cui disponiamo.
Il fascista è sempre stato
aggressivo, violento, aguzzino nei
confronti degli ebrei? Nella quasi
totalità dei casi sì. Ma di questa
totalità fa parte anche il gruppo
minuto di fascisti di cui parla Levi
e dei quali sottolinea dati e
categorie mai illuminati nel
dibattito storico nazionale:
l’incredulità, lo scetticismo,
addirittura l’imbarazzo. Ferro
diviene il rappresentante di questo
gruppo. Incredulo, scettico,
imbarazzato e mai violento nei
confronti del catturato ebreo.
Questo non vuole dire assolvere il
fascista carnefice, ma significa
presentare sul tavolo delle indagini
un elemento in più che, per quanto
scomodo e inattuale, merita di
essere preso in considerazione con
cautela e giusto spirito critico.
Ecco perché l’intento di cui si è
parlato all’inizio mira a
problematizzare una concezione
statica e fissa nella sua
organizzazione interna.
La problematizzazione coincide
dunque con l’accettazione che il
confine tra i due poli, vittima e
carnefice, non sia possibile
tracciarlo in maniera netta, ma solo
in maniera labile. Solo cosi forse,
con questo tassello aggiunto,
l’onestà per il fenomeno della Shoah
può essere garantita e rispettata.
Il tassello di una verità che
ammette di parlare anche dei
carnefici in maniera inedita e a
tratti paradossale, pur partendo
dalla loro condanna nella storia.
Si rafforza pertanto la
consapevolezza di un fenomeno
complesso. Complesso in quanto
disomogeneo e asimmetrico. Ma degno
di essere studiato fuori da ogni
semplificazione e riduzione
possibile.
Riferimenti bibliografici:
D. Amsallem, Le symbolisme du
chien: Primo Levi et la littérature
juive après la Shoah, in
“Chroniques Italiennes”, nn. 33-34,
1993.
W. Barberis, Storia senza perdono,
Einaudi, Torino 2019.
M. Belpoliti, Primo Levi di
fronte e di profilo, Guanda
Editore, Milano 2015.
Cultura della razza e cultura
letteraria nell’Italia del Novecento,
a cura di S. Gentili e S. Foà,
Carocci, Roma 2010, pp. 273-279.
F. Isman, 1938, l’italia
razzista. I documenti delle
persecuzioni contro gli ebrei,
Guida, Napoli 2018.
P. Levi, Se non ora quando?,
Einaudi, Torino 1997.